Da Ffwebmagazine del 24/12/10
Il rifiuto, il rapporto non corrisposto, la decisione di spezzare un’onda di amore. E poi la bieca indole umana, i disastri delle sue mani, capaci perfino di “sporcare le stelle”. Con una correggibilità che, al momento, non si vede.
In un amalgama poetico che profuma di sentimenti, amari, crudeli, forti e violenti. Bagnati dal sangue, il sangue della passione, che annaffia tragedie o quotidiane vicissitudini di un’esistenza intensa e non effimera, ma tragicamente improntata alla rinuncia. Scolpita nei versi di Sangue Poesia, di Antonio Saccà (Poesia Edizioni Artescrittura, euro 15, pp.144), con la mente del protagonista, l’anziano professore Ignazio La Càvera, accecata dal sangue, dal verbo uccidere, in un macroscopico errore giovanile, quando preferì tirarsi indietro “anziché dominare, potendolo”. Affrescando una vita senza coraggio di osare, senza orizzonti, al cui interno ogni battito sistolico è letto come una pugnalata che ritmicamente affonda in quel cuore. E produce vuoti, delusioni, odi, liti, rabbie, separazioni.
Dove ciascuno a seguito di quel bivio proseguirà il proprio cammino a modo suo, consapevolmente certo di un fatto oggettivo. Fino a morire, “in luoghi sconosciuti all’altro”, a segnare un’ulteriore frazionamento di due esistenze ormai agli antipodi. In quella valle di lacrime, dunque, la ferita è data sì dalla separazione, ma sotto quella carne che ulula la propria disperazione, sotto quella pelle morta a causa di violenze, c’è un’altra ferita. Altrettanto grande e profonda, che fa soffrire, che provoca bruciori indicibili.
Mentre la prima è data dagli “amori vissuti tuoi, che mi infierirono”, già di per sé forte tracciato letterario di un cuore infranto, la seconda è infilzata dal “non vivere con me oggi”. In una quotidiana solitudine acefala che profuma di rassegnazione. Con la consapevolezza dell’elemento mancante alla gioia di due cuori, da ritrovare ne “l’ardire di volerla”. In un ventaglio di amore che avrebbe perdonato tutto, anche il tradimento. Spingendosi anche ad accogliere coraggiosamente l’amor dell’amata nei confronti di un altro, fino a questo punto sarebbe giunto il nostro.
Ma a tutto c’è un limite, in panorami e viaggi infiniti c’è un punto dal quale non si fa più ritorno, e Saccà lo identifica in un baluardo estremo, che prende il nome de “la paura di amarmi”. Il timore, quell’ansiogena rivendicazione che anestetizza comportamenti e sguardi. Ecco il vero nemico. Da cui l’amata si allontana ancora di più, o forse vi farà mesto ritorno, in quanto naufragherà “verso chi non hai voluto amare”. Paura di amare, ma anche di vivere, di alzare lo sguardo, di aspirare aria pulita.E poi il sangue, elemento primario delle poesie, una sorta di bussola come termine ultimo del viaggio, dei rintocchi di lancette che segnano il tempo: il tempo dell’amore. Che separano il giorno dalla notte e i mesi dalla fine dell’anno. Ma anche omega tragica di una passione, fine di un bi-sentimento. Che da un lato è rifiutato, ma dall’altro si conforma in dura rivendicazione di quanto dato e di quanto si sarebbe potuto dare. E non solo per chi quel gesto avrebbe offerto, ma soprattutto per colei che lo avrebbe ricevuto.
Consegnandolo su un vassoio di effusioni ed emozioni, e che invece sono sostituite da spine di una rosa che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo, a causa proprio del protagonista. Ed ecco la pazzia, non stato confusionale attraverso il quale confrontarsi con attimi indecifrabili o pensieri sconnessi. Bensì simbolo di una donna, “la pazza del mio ultimo giudizio, la mia condanna, sparita, silenziosa, perduta”. Dove ella non incarna semplicemente un muro invalicabile, un contorno effimero di una portata scomparsa. Ma si erge a cappio perenne di sofferenza. In un tragitto di sangue, dove esso si fa “nero, nero come la notte. Nero come la morte, nero come la coscienza degli uomini”.Il passo successivo, però, non si concentra solo nel rifiuto dell’amore, in quel fiore chiuso e che non si schiuderà ad occhi anelanti che cercano solo un pertugio, uno spiraglio in quel buio.
Ma quando Saccà scrive “il Tempo ha concluso il suo delitto quotidiano, non abbiamo che vita, viviamolo” invita al battito di un cuore, al morso di denti affilati che fanno male, all’incedere dei giorni intrisi di sensazioni, passioni, gioie o dolori. “E se non vuoi- aggiunge- se non senti di vivere con me, vivi con chi vuoi, ma vivi, non addormentare l’esistenza, non temere di osare, non ostacolare i tuoi desideri, né chi ti desidera”.
In poche parole: “vivi!”
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