sabato 1 gennaio 2011

Pandoro e panettone:oltre il "bipolarismo"...


Da Ffwebmagazine del 26/12/10

Chi ha paura di sparigliare, di uscire dal seminato, dal tracciato già segnato e indicato, da rotte scritte e prescritte, da scelte imposte dall’alto o dal basso? Perché ciò che esula da due fazioni, metaforicamente incarnate da panettone e pandoro, è bollato come “pericolo”? Quasi che scegliere altro sia eretico, rischioso, deleterio. Uffa, che barba, ancora un pezzo su chi sta di qua e chi sta di là. Si prenda quanto vergato ieri dal Giornale: «Se il panettone classico diventa una perversione: tradizioni in pericolo. Nei supermercati lo nascondono dietro le torri cartonate delle cento versioni special. E nelle case tutti lo snobbano».

E scatta l’allarme della protezione civile, per una tradizione fortemente in pericolo, in un derby che dura da un secolo. Scrive il foglio di via Negri: «Una volta non era così dura. Bastava prendere posizione in un preciso dualismo, schierandosi senza se e senza ma tra panettone e pandoro, come tra mare e montagna, zoccoli e infradito, collant e autoreggenti, Beatles e Rolling Stones, Vespa e Lambretta, spumante e champagne». Sta proprio lì invece il passo in avanti, la scommessa vinta, ovvero la possibilità di non essere schiavi di A o B, ma di poter spaziare a proprio piacimento sino alla lettera Z. E facendo anche dell’altro, in un tortuoso percorso che preveda mille cambi di strada per giungere a quel traguardo. Perché la mutazione è gioia, la vivacità di molteplici scelte è la vera ed unica ricchezza, in un panorama troppo spesso grigio ed uniforme, che qualcuno vorrebbe ancora più bloccato.

Ma Il Giornale continua: «Era battaglia anche allora, perché i due partiti non si risparmiavano i colpi sotto la cintura: il panettone è una mattonata, il pandoro è snob, il panettone è per gente rude, il pandoro è per gente invertebrata. Il panettone è per i poveri, il pandoro è per i ricchi. Il panettone è roba da uomini, il pandoro è articolo per signorine. E via degenerando». Ecco un modo di vedere (e di rimpiangere) la vita, le cose, le persone, e le idee che semplicemente fa male. Perché negare una terza via, un altro gusto, chi se ne frega della tradizione, di ciò che è giusto perché lo dice questo o quello. Forse fa socialmente paura un’ampia scelta? Che offra una chance varia e diversificata?

Certamente più voci risultano scomode. Come più prodotti incastonati su una mensola di un grande magazzino suscitano interesse (e dubbi) in chi deve poi scegliere. Perché rendono il consumatore non più schiavo del monopolio, della condotta univoca. E’come quando si vuol privatizzare un ente, o voler fare spazio ad altri interpreti, insomma quella cosa che si chiama concorrenza. Bella, bellissima, ma non per tutti. Perché c’è chi la inquadra come un pericolo, un mostro a sei teste che crea gli incubi a quanti pensavano di mantenere intatto uno status quo. In quanto rompe posizioni prestabilite, privilegi incrostati in un tessuto sociale e produttivo.

Ma cosa è accaduto di tanto grave? Forse quella cosa chiamata globalizzazione, o quell’altra cosa, strana, vituperata e spesso proposta ma non attuata, che si chiama libertà: di scegliere, di preferire, di provare, di sperimentare, di metterci anche una bella fetta di salmone sul panettone. Chi limita il gusto o la curiosità di verificare incroci di sapori e tendenze personalissime?

Chi si eleva a giudice supremo della voglia di tentare, di avventurarsi, di vagliare alchimie e miscugli in quello straordinario laboratorio naturale che si chiama vita? Chi elogia il vecchio dualismo, invece, finge di non ricordare che proprio da eventi e scenari improbabili, anche osceni, obliqui, improponibili, sono scaturite le migliori invenzioni di questo paese, le soluzioni più azzeccate. Insomma, l’unione di poli agli antipodi, l’interscambio di competenze e peculiarità distanti anni luce, in un impeto di civiltà che nella storia è quella che poi alla fine lascia tracce e pagine nei volumi enciclopedici.

Magari rammentando quelle parole scritte da Nikolaj A. Berdjaev: «La libertà è innanzitutto il diritto alla disuguaglianza».

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