Da Ffwebmagazine del 07/09/10
Stavolta c’è da ridere. Non che fino a ieri il “fu Pdl” abbia stimolato lacrime di commozione o reazioni improntate a una triste compostezza. Come dimenticare il ministro lampo Brancher, i corsi di preparazione politica a veline taccododici in odor di lista, o gli indici di gradimento al 70% sventolati mensilmente fino a poco tempo fa, o gli editti bulgari e successivamente romani, o la campagna acquisti condotta, pare, per sottrarre teste alle minoranze, o le riunioni “politiche” a bordo piscina con tanto di fotografi semi ufficiali e premier stranieri in deshabillé?
Oggi, dopo le gesta giudiziarie del dottor Stranamore, - il deputato che coniò la mitica espressione di “utilizzatore finale” (perché, ve ne sarebbe anche uno intermedio?) - o quelle illusorie del Mistificatore Sallusti, c’è proprio da ridere. Perché dalle parti di via dell’Umiltà c’è chi si diverte a giocare con gli specchi. Insomma, e qui verrebbe in soccorso un vecchio detto popolare (“sulu t’ha soni, sulu t’ha canti”) assistiamo al trionfo dell’autoreferenzialità, degna di certe convention aziendali e di quelle riunioni casalinghe dove si presentano stock di aspirapolveri o macchine per fare il gelato.
E dato che nel “partito dell’amore” ci si aiuta, ci si ama, ci si sostiene, si inglobano i voltagabbana, si cacciano i cofondatori, è giusto prodursi in ringraziamenti e cordialità.
Parliamo di Daniele Capezzone, megafono nazionale del fu Pdl, quello per intenderci che pochi anni fa asseriva: «Berlusconi si paragona a Napoleone e Churchill. Mi ricorda la barzelletta dei due matti: uno dice “Io sono Mosè e Iddio mi ha dato le tavole della legge” e l’altro, offeso: “Ma guarda che io non ti ho dato niente!”. Ecco, lui potrebbe essere il secondo matto, mentre per il novello Mosè bisogna scegliere tra Bondi e Fede». Sì, proprio “quel” Capezzone, che in fondo già manifestava una certa assonanza a quello che sarebbe diventato il suo futuro datore di lavoro, in quanto a barzellette e raccontini gioviali.
Ecco, questa mattina rivolge al Giornale del fratello del premier parole dense di gratitudine: “Grazie di cuore a voi del Giornale - scrive in un appassionato editoriale di spalla - che non smettete mai di fare qualche domanda scomoda a nome di molti italiani, stanchi di essere smaccatamente, e direi quasi programmaticamente, presi in giro”. Mielosa commozione politica, solidarietà socio-politico-mediatica, libertà di espressione.
Ma ve l’immaginate il portavoce di Obama che ringrazia il giornale di proprietà dell’inquilino della Casa Bianca (circostanze ovviamente assurde da quel lato dell’Oceano) per la campagna diffamatoria condotta contro un esponente politico che osa alzare un dito e proporre un’idea che non sia militarmente e aziendalmente allineata con il capo supremo?
Nell’appassionato intervento di oggi, che dovrebbe essere oggetto di studio nelle scuole di giornalismo (per imparare cosa non fare), Capezzone ringrazia praticamente se stesso, si genuflette di fronte all’inchiostro del Giornale di proprietà della famiglia del premier. Ecco gli specchi, ecco la presa in giro, ecco il gioco delle parti. E fa di più, appoggiando la richiesta di dimissioni nei confronti del presidente della Camera, (concretizzata poi nella richiesta di un incontro con il Capo dello Stato avanzata dalla ditta B&B, Bossi e Berlusconi).
Capezzone parla, nel cappello iniziale del pezzo, dell’esigenza di “una decenza istituzionale”. Senza essere sufficientemente consapevole che, questi due passaggi, dimostrano la latitanza non solo della decenza delle idee, quanto delle nozioni minime di diritto costituzionale, che in molti hanno ampiamente dimostrato di non possedere affatto nel fu Pdl.
Diceva Victor Hugo che “la libertà comincia dall’ironia”. Quindi se valesse tale principio, il Megafonatore Capezzone ne dovrebbe possedere a tonnellate, visto il tenore di certe dichiarazioni, diciamo cangianti dopo solo mezzo lustro. Ma per l’occasione, dopo essersi asciugati le lacrime seguite alle roboanti risate post editoriale capezzoniano di questa mattina, varrebbe forse la pena di tornare seri per un secondo, il tempo necessario a scomodare Otto Von Bismarck, quando dice che “la libertà è un lusso che non tutti si possono permettere”.
Senza offesa, s’intende.
"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
martedì 7 settembre 2010
Ecco a voi la controrealtà del Mistificatore Sallusti

Da Ffwebmagazine del 06/09/10
Va bene la campagna elettorale permanente, passi questo stato ansiogeno degno di qualche gravidanza isterica. Però altro che controcanto, qui è andata in scena la controrealtà, come certi fogli informativi russi, cinesi, coreani o iraniani sapevano e sanno ancora fare bene. Non bastava il dottor Stranamore, ecco che un’altra pittoresca figura fa capolino nella tivvù italiana: il mistificatore. E sì, perché questa mattina a Omnibus su La7 non si è solo discusso di idee, contenuti, valutazioni e analisi, ma si è assistito alla mistificazione del reale e dei fatti. Ovvero, quando il vicedirettore del Giornale Sallusti ha sciorinato alcune affermazioni che appaiono per quel che sono: invenzioni.
La prima: Gianfranco Fini è sceso dall'autobus del Pdl. Forse dalle parti di via Negri 4 non hanno vissuto quella giornata che resterà nella storia dell’antidemocrazia italiana. Forse erano in ferie lo scorso 29 luglio, quando Berlusconi ha cacciato dal Pdl chi aveva contribuito a fondarlo, adducendo come motivazione il fatto che le posizioni dell’onorevole Fini fossero «assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Popolo della Libertà, con gli impegni assunti con gli elettori e con l’attività politica del Pdl: di conseguenza viene meno anche la fiducia del Pdl nei confronti del ruolo di garanzia di presidente della Camera indicato dalla maggioranza che ha vinto le elezioni». Chi è sceso da cosa?
La seconda: Berlusconi non ha fatto nulla, è Fini che si è fatto cacciare. Se il farsi cacciare, se il farsi espellere è direttamente proporzionale alla libertà di espressione, di dissenso, di proposta, beh, allora il Pdl ha fatto un balzo indietro a cinquant’anni fa, quando il molti paesi del mondo le idee non allineate o le elaborazioni “differenti” erano un alito di vento da stanare e spegnere. Lecito chiedersi e chiedere a Sallusti: avanzare miglioramenti a leggi antiumane - come quella sui medici spia o sui presidi spia - è farsi cacciare? O lo è proporre stimoli da inserire nella manovra economica, o avanzare idee per le piccole e medie imprese, o preoccuparsi dei diritti umani dei “clandestini” che arrivano in fin di vita sulle nostre coste, o entusiasmarsi per gli immigrati che ce la fanno, che si integrano e che contribuiscono con quel 10% del Pil al sistema Italia? È farsi cacciare immaginare una green economy seria e ponderata, che sfrutti al meglio le energie alternative, che non sia genuflessa verso i proprietari di giacimenti petroliferi, che invece, come ha ribadito ieri Gianfranco Fini a Mirabello, punti con decisione sui giacimenti culturali?
La terza: Libero e Giornale avanzano solo proposte, ma poi da diciotto anni Silvio Berlusconi fa di testa sua. Vogliono farci credere che la campagna di agosto, fatta di colpi bassi, di inseguimenti tra mobilifici e tra ombrelloni, sia frutto di un colpo di sole estivo? Che la mano sinistra non sappia cosa faccia - e soprattutto come e con quali metodi - quella destra? Sì, proprio quella destra, dal momento che il Pdl (e assieme ad esso i due quotidiani di riferimento, tra cui quello della famiglia Berlusconi) è di fatto diventato un partito di estrema destra, xenofobo, illiberale così come diagnosticato da illustri liberali della prima ora, a trazione leghista, con la bandiera del manganello e del metodo Boffo in bella evidenza, con tonnellate di titoli contro, senza assolvere al ruolo di contenitore moderno e plurale, tralasciando le grandi questioni, come il mancato introito da parte dello Stato di quattro miliardi di euro per il digitale - così come avviene in Usa e in Germania - o come l’assenza della banda larga, con molte zone del paese ancora in alto mare, costretti ad usare internet mobile ad intermittenza.
La quarta, in verità la più divertente: il presidente della Camera deve agevolare l'azione del governo. Ma l’articolo 8 del Regolamento della Camera, facilmente scaricabile dal sito internet della stessa, dice invece che «il Presidente rappresenta la Camera. Assicura il buon andamento dei suoi lavori, facendo osservare il Regolamento, e dell'amministrazione interna. Sovrintende a tal fine alle funzioni attribuite ai Questori e ai Segretari. In applicazione delle norme del Regolamento, il Presidente dà la parola, dirige e modera la discussione, mantiene l'ordine, pone le questioni, stabilisce l'ordine delle votazioni, chiarisce il significato del voto e ne annunzia il risultato».
È del tutto evidente che da nessuna parte c’è scritto ciò che Sallusti ha dato per certo, mistificando ancora una volta la realtà. Dando, certamente, un giudizio personale, ma spacciandolo per vero e prescritto dalla legge. Sta tutta qui l’anomalia di certa informazione italiana. E non ci vuole poi molto per smascherarla.
domenica 5 settembre 2010
Rivoluzione Obama: la vera "politica del fare"

Da Ffwebmagazinje del 05/09/10
Lo avevano dato per spacciato. Troppe aspettative, troppe promesse sul presidente più abbronzato del mondo, luci e flash puntati su di lui da ogni parte del globo. “Si sta sgonfiando”, ammonivano. “Non ce la farà mai”, oppure, “prepariamoci ad un altro flop”, “ormai ha tutti contro”, “cala nei consensi”. Strana la storia, strani i suoi interpreti, strane certe dinamiche e soprattutto i soliti commenti affrettati. Che non possono basarsi su una piccola porzione di azione e provvedimenti, ma devono gioco forza assemblare una valutazione complessiva delle cose.
Barack Obama sembrava sull’orlo del baratro. Le lobbies lo contrastavano per la paventata riforma sanitaria, le grandi multinazionali e gli ambientalisti per il disastro nel golfo del Messico, i sindacati per la recessione, i pacifisti per i conflitti in Iraq, illustri politologi per la situazione in Medio Oriente. Ma lui, noncurante della pioggia di parole e sferzanti analisi, ha tirato dritto per la sua strada. Non una strada di sfavillanti premesse, o di retoriche enunciazioni. Non di giustificazioni con l’opinione pubblica per la congiuntura economica o per la concomitanza di un evento ambientale unico nella storia. Non una parola polemica su questo o quell’avversario, non una sola ricerca affannosa di giustificazioni, o una sola lamentela affidata ad un comunicato stampa o pronunciata vis-à- vis nello splendido giardino delle rose.
Ma lavoro, lavoro e solo lavoro. Quello vero, quello puro, quello fatto da staff che contribuiscono a studiare dossier, a valutarli, provvedendo a fornire un quadro analitico. Senza buchi nell’esecutivo, soprattutto in un dicastero strategico come può essere l’industria o le attività produttive. Senza perdersi dietro presunte strategie di persecuzione o di tradimenti, o dietro gli stucchevoli poteri forti che impediscono la rivoluzione immaginata. Senza concentrarsi sui fatti propri, o su quelli personali degli avversari politici. Senza erigersi a risolutore di tutto ciò che accade fuori dai confini nazionali, senza lasciare che qualche eccentrico personaggio entri nel territorio nazionale e si comporti come se fosse al circo.
Ma, almeno nelle intenzioni e anche un po’ nei fatti, un modo di fare politica seriamente. L’accordo con la Fiat: solo un mese fa l’amministratore delegato Sergio Marchionne è stato accolto da Obama in uno stabilimento della Chrysler a Detroit che, grazie ad un lavoro intenso e proficuo, continuerà la produzione (con modalità differenti) anziché chiudere. Nuovo pacchetto economico: a breve verranno presentate una serie di iniziative di stimolo all’economia, per impedire che la crisi venga combattuta con uno sterile blocco, utile all’inizio per saldare i conti, ma poi deleterio perché impedisce una ripartenza. Dinamica corroborata dagli ultimi dati sulla disoccupazione negli Usa, che cresce meno del previsto, con posti di lavoro in tenue aumento, anche nel settore privato.
Come si evince, Obama prende spunto dai primi cenni di ripresa per favorire politiche di iniziativa industriale. Senza affannarsi nella conservazione dello status quo, valido solo a riempire i giornali di meste ammissioni di responsabilità o tristi valutazioni sullo stato dei conti. Guerra in Iraq: alzi la mano chi avrebbe scommesso un dollaro sulla fine dei combattimenti in quel lembo del pianeta. Eppure la notizia c’è. Medio Oriente: altra mano tesa per innescare una stagione di dialogo, di spiegazioni, di discussioni. Aspre e dure, come è giusto che sia, ma in qualche modo un nuovo inizio dopo il tentativo di Camp David da parte di Bill Clinton.
Questi sono i fatti, i dati sui quali costruire convinzioni e pubbliche opinioni. Nessuno saprà come i problemi sul tavolo della Casa Bianca evolveranno. Se la sterzata economica sarà sufficiente a impedire l’emorragia di investimenti; se l’accordo Chrysler-Fiat aprirà scenari inimmaginabili solo sino a pochi anni fa; se l’ipotesi di dialogo tra Netanyahu e Abu Mazen potrebbe alleggerire l’atmosfera tra israeliani e palestinesi; se la riforma sanitaria riuscirà nell’impresa di dare dignità alle fasce deboli.
Quel che è certo è che, nonostante flussi di gradimenti e sondaggi dietro l’angolo, si denota la politica del fare. La si tocca, la si immagina per poi un minuto dopo scorgerla oggettivamente. La si valuta perché è reale, concreta. E non miseramente annunciata, o rimandata di una settimana o in attesa di giorni migliori, o fatta dipendere dagli umori di altri interlocutori. Sempre con quella noiosa cantilena dell’ “io non c’entro”, o del “vorrei ma non posso, perché non me lo fanno fare”. Questi ritornelli, dall’altro lato dell’oceano, non li canta proprio nessuno.
giovedì 2 settembre 2010
Vargas Llosa, il liberalismo e l'illusione berlusconiana
Da Ffwebmagazinhe del 02/09/10
di Francesco De Palo
«Sono uno schiavo volontario e felice della letteratura». Così si definì anni fa Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano tra i più noti, fresco vincitore del Premio Internazionale “Viareggio-Versilia”, attribuendo a quello straordinario dono che è la scrittura una missione puntuale, perché essa non può «isolarsi dalla vita sociale». E che oggi, dopo anni di inchiostro versato su storie e romanzi caratterizzati da un impatto descrittivo unico nel suo genere, volge lo sguardo su quella che chiama illusione italiana.
Ovvero come un liberale vero - per nulla imparentato con quelli che invece attuano il frequente liberalismo a intermittenza - osserva il berlusconismo, la sua straripante immagine, la sua evoluzione tortuosamente fuorviante, la sua plastica raffigurazione nelle vite degli italiani. Quel fenomeno che ha solcato quindici anni di storia. Proprio il popolo nostrano, in un’intervista all’Unità, viene definito dallo scrittore come «illuso», in quanto sono le derive populiste e le infatuazioni presenti massicce nel paese a comporre un mosaico fasullo. Che comprende la sfera dei pericoli corsi da una democrazia occidentale, utili come materia di studio e di approfondimento. O come la speranza che «un uomo forte ricercato dalla gente, potesse far fronte ai problemi lasciati irrisolti dai governi precedenti». Problemi che, nonostante leggi, leggine e leggi ad personam, permangono intatti. Facendo leva sull’aspetto ottimistico di quell’impostazione politica, sull’impatto aziendale del risultato e del profitto, sul circuito propagandistico che si innesca quando, commercialmente parlando, serve convincere qualcuno della bontà di un prodotto.
Ma sono appunto applicazioni manageriali, utili in altre vesti diverse da quelle istituzionali. E perché Llosa considera tutto ciò un’illusione? Per il semplice motivo che «l’autoritarismo non risolve affatto i problemi, ne crea di nuovi». Questa volta ben più gravosi, perché strozzano il dibattito, animano il pensiero unico, livellano le diversificazioni, accorpano le idee sotto lo stesso forzato ombrello. L’interessante provocazione dello scrittore peruviano, che provocazione non è, bensì analisi secca e scevra da timori reverenziali, apre un’interessante fronte nel già traballante universo del berlusconismo. In quanto riflette sul fatto che non è sufficiente il ghe pensi mi a tutto spiano per dare risposte e offrire soluzioni, quando invece, una squadra di calcio, per fare un paragone sportivo, è fatta di undici elementi, e non solo di uno che mette il pallone e magari, poi, se lo riporta a casa interrompendo la partita sul più bello.
Tra l’altro in una conversazione con il Corsera del settembre 2008, Vargas Llosa denunciò una sorta di ostracismo nei suoi confronti da parte dell’Italia, in quanto veniva «oscurato il mio pensiero liberale». Infatti, non tanto i suoi romanzi, ma i suoi pamphlet politici si possono trovare solo in lingua francese, per merito dell’editore Gallimard, e non in italiano. Come La tentazione dell’impossibile e L’utopia arcaica, dove si schiera contro il cosiddetto indigenismo. O come Sfida alla libertà, sobria miscellanea di riflessioni ispirate ad Aron.
«In Italia non piaccio - rivelò in quell’occasione - perché sono un uccello tropicale. Secondo gli italiani gli scrittori sudamericani devono essere amici dei dittatori in odore di socialismo, come Castro o Chàvez». Ma non solo una questione di nomi o di appartenenze. Vargas Llosa si incunea nell’intimo del liberalismo quando afferma che «nel progresso della libertà risiede l’umanizzazione della vita e delle relazioni sociali. L’errore fatale della mia generazione di scrittori è stato quello di giustificare le autocrazie, le dittature e di accettare la visione rivoluzionaria marxista come panacea di tutti i mali».
La sua attenzione si concentra sul raggio di azione della letteratura all’interno di una visione liberale di massa. Nell’intervista all’Unità prosegue sostenendo che la letteratura ha un ruolo politico, un compito civile, «dal momento che i libri e le poesie sostengono la fantasia e l’immaginazione, ovvero lo spirito critico della gente. Di conseguenza si comincia a divenire critici verso ciò che ci circonda. Per questo – annota - le dittature cercano sempre di mantenere il controllo sulla produzione letteraria e sugli scrittori».
Controllo, critica, eresia, intercultura, convivenza. Diceva Margherite Yourcenar che «fondare biblioteche è un po’come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito, che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». È proprio quell’inverno la prospettiva da evitare, è quella stagione di buio e di cieli inondati da cirri tediosi il panorama da allontanare, ma solo una politica aperta e pronta a una spinta liberale potrà farlo con serietà e convinzione. Quella politica che, in un anno e mezzo di vita, il Pdl non è riuscito ad attuare.
di Francesco De Palo
«Sono uno schiavo volontario e felice della letteratura». Così si definì anni fa Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano tra i più noti, fresco vincitore del Premio Internazionale “Viareggio-Versilia”, attribuendo a quello straordinario dono che è la scrittura una missione puntuale, perché essa non può «isolarsi dalla vita sociale». E che oggi, dopo anni di inchiostro versato su storie e romanzi caratterizzati da un impatto descrittivo unico nel suo genere, volge lo sguardo su quella che chiama illusione italiana.
Ovvero come un liberale vero - per nulla imparentato con quelli che invece attuano il frequente liberalismo a intermittenza - osserva il berlusconismo, la sua straripante immagine, la sua evoluzione tortuosamente fuorviante, la sua plastica raffigurazione nelle vite degli italiani. Quel fenomeno che ha solcato quindici anni di storia. Proprio il popolo nostrano, in un’intervista all’Unità, viene definito dallo scrittore come «illuso», in quanto sono le derive populiste e le infatuazioni presenti massicce nel paese a comporre un mosaico fasullo. Che comprende la sfera dei pericoli corsi da una democrazia occidentale, utili come materia di studio e di approfondimento. O come la speranza che «un uomo forte ricercato dalla gente, potesse far fronte ai problemi lasciati irrisolti dai governi precedenti». Problemi che, nonostante leggi, leggine e leggi ad personam, permangono intatti. Facendo leva sull’aspetto ottimistico di quell’impostazione politica, sull’impatto aziendale del risultato e del profitto, sul circuito propagandistico che si innesca quando, commercialmente parlando, serve convincere qualcuno della bontà di un prodotto.
Ma sono appunto applicazioni manageriali, utili in altre vesti diverse da quelle istituzionali. E perché Llosa considera tutto ciò un’illusione? Per il semplice motivo che «l’autoritarismo non risolve affatto i problemi, ne crea di nuovi». Questa volta ben più gravosi, perché strozzano il dibattito, animano il pensiero unico, livellano le diversificazioni, accorpano le idee sotto lo stesso forzato ombrello. L’interessante provocazione dello scrittore peruviano, che provocazione non è, bensì analisi secca e scevra da timori reverenziali, apre un’interessante fronte nel già traballante universo del berlusconismo. In quanto riflette sul fatto che non è sufficiente il ghe pensi mi a tutto spiano per dare risposte e offrire soluzioni, quando invece, una squadra di calcio, per fare un paragone sportivo, è fatta di undici elementi, e non solo di uno che mette il pallone e magari, poi, se lo riporta a casa interrompendo la partita sul più bello.
Tra l’altro in una conversazione con il Corsera del settembre 2008, Vargas Llosa denunciò una sorta di ostracismo nei suoi confronti da parte dell’Italia, in quanto veniva «oscurato il mio pensiero liberale». Infatti, non tanto i suoi romanzi, ma i suoi pamphlet politici si possono trovare solo in lingua francese, per merito dell’editore Gallimard, e non in italiano. Come La tentazione dell’impossibile e L’utopia arcaica, dove si schiera contro il cosiddetto indigenismo. O come Sfida alla libertà, sobria miscellanea di riflessioni ispirate ad Aron.
«In Italia non piaccio - rivelò in quell’occasione - perché sono un uccello tropicale. Secondo gli italiani gli scrittori sudamericani devono essere amici dei dittatori in odore di socialismo, come Castro o Chàvez». Ma non solo una questione di nomi o di appartenenze. Vargas Llosa si incunea nell’intimo del liberalismo quando afferma che «nel progresso della libertà risiede l’umanizzazione della vita e delle relazioni sociali. L’errore fatale della mia generazione di scrittori è stato quello di giustificare le autocrazie, le dittature e di accettare la visione rivoluzionaria marxista come panacea di tutti i mali».
La sua attenzione si concentra sul raggio di azione della letteratura all’interno di una visione liberale di massa. Nell’intervista all’Unità prosegue sostenendo che la letteratura ha un ruolo politico, un compito civile, «dal momento che i libri e le poesie sostengono la fantasia e l’immaginazione, ovvero lo spirito critico della gente. Di conseguenza si comincia a divenire critici verso ciò che ci circonda. Per questo – annota - le dittature cercano sempre di mantenere il controllo sulla produzione letteraria e sugli scrittori».
Controllo, critica, eresia, intercultura, convivenza. Diceva Margherite Yourcenar che «fondare biblioteche è un po’come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito, che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire». È proprio quell’inverno la prospettiva da evitare, è quella stagione di buio e di cieli inondati da cirri tediosi il panorama da allontanare, ma solo una politica aperta e pronta a una spinta liberale potrà farlo con serietà e convinzione. Quella politica che, in un anno e mezzo di vita, il Pdl non è riuscito ad attuare.
giovedì 26 agosto 2010
24-08-10
Questa è la storia di un viaggio. Iniziato molti anni fa e mai interrotto.
Un viaggio accidentato, con mille peripezie, inconvenienti, fermate impreviste. Con sconfinamenti, lunghe pause, interminabili attese, infiniti perché.
Ma anche un viaggio di affermazioni, di ripartenze, di speranze, di decolli.
Di gioie, tante. Di stimoli e soprattutto di amore.
Un viaggio faticoso ma entusiasmante. Una cavalcata continua. Senza soste.
Ha scritto Hemingway che “l’uomo non è fatto per la disfatta, può essere distrutto ma non vinto”.
Questa è la storia di un viaggio. Un viaggio di vittoria.
Questa è la storia di un viaggio. Iniziato molti anni fa e mai interrotto.
Un viaggio accidentato, con mille peripezie, inconvenienti, fermate impreviste. Con sconfinamenti, lunghe pause, interminabili attese, infiniti perché.
Ma anche un viaggio di affermazioni, di ripartenze, di speranze, di decolli.
Di gioie, tante. Di stimoli e soprattutto di amore.
Un viaggio faticoso ma entusiasmante. Una cavalcata continua. Senza soste.
Ha scritto Hemingway che “l’uomo non è fatto per la disfatta, può essere distrutto ma non vinto”.
Questa è la storia di un viaggio. Un viaggio di vittoria.
sabato 21 agosto 2010
Perdersi ad Atene per ritrovare un paese al bivio

Da Ffwebmagazine del 21/08/10
Ad Atene ti potrà capitare di vedere qualsiasi cosa. Lustrascarpe che ascoltano musica classica, ristoranti all’interno di cimiteri, miscellanea di suoni e profumi, razze in transito. E poi visi, occhi interrogati, mani tese e porte socchiuse. Non è uno spot dell’ente nazionale del turismo, ma ciò che sguardi attenti e olfatti anche non necessariamente raffinati potranno notare subito transitando per odòs Ermoù o per le viuzze di Plaka, arrampicandosi su fino al Lycavittou, scendendo fino al Pireo. O sfogliando le pagine di alcuni romanzi gialli in salsa ellenica, incubatori di quella new wave mediterranea unica nel suo genere. Una sorta di neofilone letterario, ambientato all’ombra del Partenone, lì sotto l’Acropoli dove fanno capolino gli ultimi alberi che precedono una mostruosa colata di cemento. Caldo, opprimente, afoso. Che dopo il tramonto, però, si trasforma in vita, in emozioni e sentimenti, in storie. Anche tristi. Ma che sono abilmente raccontate, romanzate e “sentite”.
La penna di Petros Markaris, il Camilleri greco, non si è fermata alle gesta del commissario di polizia Kostas Charitos, originale personaggio dai modi sobri e dalle intenzioni umane. Ma è andata oltre l’ottimo risultato raggiunto con i quattro precedenti romanzi, incuneandosi in un neorealismo dal quale non si sfugge, perché è maledettamente intrigante, e dove addirittura si respirano quei profumi, si riconoscono certe inflessioni di voci e bisbigli, si mescolano sentimenti e abitudini gastronomiche, si valutano le conseguenze di scelte sociali e strategie politiche. Dove emerge una Grecia diametralmente opposta a quella più conosciuta delle isole e della movida estiva. Una Grecia che si trova di fronte il macigno della crisi economica, con sperequazioni sociali mostruose, con flotte di immigrati che transitano a più non posso, si fermano, ripartono, ritornano. E nidificano, per poi decidere, magari, di dividere il proprio nucleo familiare in più tronconi. Integrandosi, e spesso male, in un tessuto sociale che un bel giorno si è svegliato dal torpore del benessere, rendendosi conto di come non fosse più abituato a correre.
Le otto storie gialle del romanziere nato a Costantinopoli, già collaboratore di Theo Anghelopulos e vincitore di una Palma d’Oro a Cannes nel 1998 per la sceneggiatura di L’eternità è un giorno, rappresentano un passo in avanti. D’accordo la saga del personaggio noto e al quale i lettori sono affezionati, d’accordo le sue movenze, i suoi pensieri ritmici, scansionati dal caffè del mattino, dalle urla in commissariato, dai riti della vita ateniese. I labirinti di Atene, però, sono un’altra cosa.
Perché vanno oltre lo stereotipo, raccontano altre storie, questa volta con l’accento sul degrado sociale. Come quella di due musicisti, un bulgaro e un’albanese, giunti in Grecia per sbarcare il lunario, ma che alla fine dopo essersi amati, litigano furiosamente nei locali dove si esibiscono. Fino a quando passanti e clienti delle taverne decidono di sbarazzarsi definitivamente della loro presenza ingombrante. O come quella di un greco-russo a cui la mafia russa vorrebbe imporre il pizzo per il suo ristorante. E che, dopo i primi rifiuti, si ritrova con il locale incendiato e con la figlia che si “accasa” con il boss russo, diventando poi direttrice artistica del ristorante stesso rimesso a nuovo. O come la lotta feroce di due extracomunitari, che si contendono a colpi di coltello la nicchia dove vendere frutta al mercato cittadino.
Non solo uno spaccato di vita sociale ed economica di uno stato a un bivio, dunque, non solo spruzzi di folklore e di quotidianità da terzo millennio globalizzato sino al midollo, ma decisamente un qualcosa di più. Perché Markaris affonda le sue storie in un paese lacerato da mille contraddizioni, dove un caffè al tradizionale cafeneio può costare anche tre euro, dove in una serata al rebetadiko, luogo in cui cinquant’anni fa si esibivano grandi artisti come Tsitsannis o Vamvakaris alla presenza di Melina Mercouri e Ugo Tognazzi, si possono spendere anche cinquemila euro di fiori. Dove, in un recente sondaggio sul greco più grande di tutti i tempi, i cittadini ellenici hanno votato al primo posto Alessandro Magno, subito dopo il prof. Giorgios Papanikolaou, inventore del famoso pap-test per la diagnosi del cancro all`utero, ma fuori dai dieci Aristotele.
Sancendo l`assenza dal ‘podio’ di personaggi legati alla filosofia ed alla cultura classica che tutto il mondo indivia e accosta direttamente alla Grecia, segno che il popolo ellenico (moderno) ha preferito fare a meno di eroi della mente, preferendo invece eroi della forza. Scelta che, nei fatti, si sta rivelando un pericoloso boomerang in quanto svilisce quell’incredibile bagaglio di conoscenze da cui oggi il paese potrebbe ripartire.
Ma che contribuisce ad affrescare un quadro originalissimo: dove perdersi è finanche affascinante, dove puntare i sobborghi del Pireo in cerca di caffè-letterari è un’esperienza da provare. Dove piccole boutique musicali, seminascoste da vecchie insegne, allietano la visita di chi ama vagare nell’intimità di una città. Ecco, Markaris rende pubblica la veste più intima e celata della capitale ellenica, e il fatto che le storie raccontate siano improntate a vicende dure e ripide, rende ancora più credibile lo sforzo letterario dell’autore.
mercoledì 18 agosto 2010
La lettera di Frattini all'Europa e le vere anomalie italiane

Da Ffwebmagazine del 18/08/10
Per la serie facciamoci conoscere, orgogliosamente, di più. Il Giornale riferisce che il ministro degli Esteri Franco Frattini sembra intenzionato a recuperare una missiva piuttosto impegnativa, che illustra una posizione ufficiale del governo italiano. Per il piano di pace in Medio Oriente? - verrebbe da chiedersi. Sulla moschea a Ground Zero? A proposito del disastro ambientale nel golfo del Messico? O magari una posizione sul pericoloso trinomio Brasile-Turchia-Iran degli ultimi mesi? No, niente di tutto questo. Ma molto, molto di più.
Pare che il titolare della Farnesina, sempre secondo le informatissime ricostruzioni del Giornale, voglia riprendere una lettera che sarebbe dovuta partire con posta prioritaria già all’inizio 2010, rivolta ai ventisei ministri degli Esteri dell' Unione europea per informare le cancellerie degli stati membri di una peculiarità tutta italiana, sempre stando alla versione offerta dal quotidiano di famiglia del premier. Ovvero il fatto che da noi, Patria del diritto oltre che delle arti, “le inchieste giudiziarie sono soggette a un grave condizionamento politico”. Ohibò.
Sarebbe interessante conoscere, prima delle acute osservazioni presenti nella preziosa pergamena che a breve farà il suo ingresso negli studi dei ministri europei, su quali spunti processuali si basino tali condizionamenti. Se vi siano stati o meno cittadini innocenti condannati, o se qualcuno abbia manipolato colposamente intercettazioni e tabulati telefonici, o se siano stati pedinati senza motivo alcuni esponenti politici, o se siano stati confezionati falsi dossier sulle abitudini sessuali di questo o di quello, o se sugli stessi siano state avanzate indagini conoscitive sulla situazione patrimoniale in assenza di un reato o di un fascicolo processuale.
E sarebbe interessante almeno per due motivi. Innanzitutto perché, se fosse vero, il ministro Frattini non dovrebbe limitarsi a una lettera indirizzata ai colleghi di tutta Europa, ma dovrebbe fare molto di più. Rivolgendosi a organi di controllo giudiziario ben più rilevanti, persino all’Onu se vi fosse in pericolo la democrazia politica in Italia. Ma al momento non sembra intenzionato a farlo.
In secondo luogo, cosa potrebbero fare le cancellerie europee, una volta terminata la illuminante lettura? Disporre verifiche, inviando messi controllori? Se così fosse, gli ispettori si troverebbero di fronte a un panorama veramente singolare, con inchieste su elettrodomestici elevate al rango probatorio, o invocazioni di dossieraggio da parte di parlamentari della Repubblica, o campagne mediatiche ad hoc con sullo sfondo macroscopici conflitti di interessi. E poi che s’inventeranno per sminuire il lavoro degli ispettori europei? Diranno che anche loro sono condizionati politicamente, sotto l’occulta regia di qualche magistrato deviato?
Ecco la politica del corto circuito, quella che scollega i poli, che autolesionisticamente non fa ciò che deve. Senza domandarsi quali conseguenze porteranno tali discrepanze, quali opportunità andranno perse, quanto il nome dell’Italia subirà danni di immagine e di sostanza.
Forse un ministro degli Esteri, tra le altre cose, dovrebbe preoccuparsi, magari nei ritagli di tempo, di affrontare anche una serie di questioni maggiormente pregnanti per il paese. Come il fatto che la Germania per concedere il prestito ponte alla Grecia le abbia “consigliato” l’acquisto di due sommergibili; come il sorpasso dell’economia cinese su quella giapponese, con conseguente bilanciamento della politica commerciale italiana; come la tediosa dipendenza nostrana dalle fonti di energia non rinnovabili, facilmente bypassabile con un piano di green economy rapido e produttivo; come lo stato dei lavori dei due gasdotti transcontinentali, che dalla Russia porteranno il prezioso combustibile in Europa; come la politica dei respingimenti in mare non allineata ad alcuni aspetti umanitari. Di materiale ce n’è a sufficienza.
È chiaro, poi, che se la strategia della lettera sullo stato politico della giustizia italiana dovesse rientrare in un più ampio piano di intervento, per far conoscere all’Europa lo stato delle cose nel nostro paese (ad esempio, gettando luce su come si fa a espellere stalinisticamente presunti dissidenti o traditori dal partito che hanno cofondato), beh, allora c’è da sperare che la missiva venga letta dai destinatari quanto prima.
sabato 14 agosto 2010
Che tristezza la schizofrenia del Pdl

Da Ffwebmagazine del 14/08/10
La politica dei berluscones è schizofrenica. Non è un’opinione offensiva o una convinzione personale, ma ciò che oggettivamente si deduce leggendo dichiarazioni e valutando nel merito prese di posizione non tanto velate. Sembra quasi che la mano destra del fu Pdl non sappia cosa faccia la sinistra, quasi come una squadra di calcio senza metronomo di centrocampo, ma con un’accozzaglia di attaccanti che corrono di qua e di là senza senso tattico. O che forse lo celano colposamente.
Anche oggi Il Giornale dedica le consuete tredici pagine di fango a Gianfranco Fini e ai suoi familiari, con risvolti prima personali e, solo marginalmente, politici: è francamente molto difficile non considerare il premier come mandante della campagna mediatica abbattutasi contro il presidente della Camera. Almeno a volersi limitare alla carta, che canta sempre: gli scripta che non sono confutabili, non sono parole da smentire o da capovolgere con voli pindarici. Pare invece che, nonostante manchino due anni alle prossime Olimpiadi, ci sia più di qualcuno che abbia già iniziato a fare incredibili capriole e salti con l’asta, autoprovocandosi intense nevralgie, con conseguente confusione di pensieri e di piani d’azione.
Sarebbe ora di farla finita con i doppi registri, semplicemente perché non sono credibili. Quel che conta non sono i fiumi di parole vomitati dagli uffici stampa che, giustamente, li diffondono alle agenzie. Né le interviste doppie, quasi stessimo di fronte a una puntata delle Iene caratterizzata dalla doppiezza degli intervistati e delle domande; nemmeno le migliaia di indiscrezioni riferite (rigorosamente sotto l’anonimato) da questo o da quel peones di Palazzo Grazioli, circa l’ultima barzelletta berlusconiana sul presidente della Camera e signora, o sulle tiepide rassicurazioni che da Palazzo Chigi partono alla volta delle Stromboli o di Castel Porziano, alle orecchie di un Capo dello Stato prima invocato e poi offeso, sempre sulle pagine di quel Giornale là.
Ciò che realmente resta sul campo di battaglia sono i titoli di quel Giornale là. Perché nasconderlo? E a nulla servono queste benedette colombe che, allo stato delle cose, servono solo a spargere una fitta nebbia in uno scenario di cui non si riconoscono più nemmeno i contorni. Di esempi se ne potrebbero citare molti. Sterzate, correzioni, bastoni e carote: sintomi di una politica arruffata e perennemente mascherata, ma dal cui interstizio è facilmente riconoscibile la vera centrale di comando. È fra i menabò del Giornale, di quella che un tempo era la nave ammiraglia del liberalismo, di quel giornalismo di qualità mai asservito, montanellianamente con la schiena dritta. E che oggi non è più tale, tramutata in un bunker sempre in stato di altissimo defcom, per citare una metafora cara agli amanti della guerra fredda. Da lì si avvia la stoccata quotidiana, la traccia mediatico-politica nella quale, poi, far confluire con comodo e solo con il passare delle ore pomeridiane le smentite, le correzioni, i non volevo, i non pensavo, i non credevo, ma che alla fine è meglio che faccia un passo indietro, perché, per come, e così.
Esempio lampante è l’ennesimo teatrino andato in scena due giorni fa: riferiscono i quotidiani che Berlusconi abbia sentito telefonicamente Giorgio Napolitano, rassicurando personalmente il Capo dello Stato sulla “volontà di proseguire la legislatura rafforzando l’azione di governo”. Ma poi che fa il presidente operaio, ad interim, ancora ministro dello Sviluppo economico? Pensa bene di minacciare i dissidenti finiani, agitando lo spettro delle urne anticipate, o della campagna acquisti (ma, lo avvisiamo, solo fino al 31 agosto, perché poi inizia il Campionato), lasciando che sul Giornale di famiglia sia avallata una raccolta di firme per far dimettere una carica istituzionale (non un consigliere dell’associazione “Amici del provolone”, con tutto il rispetto per il pregiato prodotto caseario), nemmeno fosse un coupon per la raccolta di punti carburante.
Ecco, loro pensano che tutto sia svilibile, aggiustabile, accomodabile. Che l’intera questione sia né più né meno come la tessera carburante, da riempire (con le firme) per avere diritto ai regali. La cosa di cui si discute, invece, si chiama politica. E non si fa in questo barbaro modo.
venerdì 13 agosto 2010
Volano le colombe? Ma vale quel che dice il Giornale
Da Ffwebmagazine del 13/08/10
Falchi, colombe. Colombe e falchi. E poi passerotti, cornacchie, canarini, gazze ladre e piccioni viaggiatori. Al di là di possibili interessi ornitologici, sempre legittimi per carità, ciò che resta della politica agostana non è quel che sembra arrivare dagli uffici stampa o quel che filtra diplomaticamente da dichiarazioni o interviste a trecentosessanta gradi, ma molto più semplicemente quel che è.
Un vecchio detto rabbinico dice che “se Dio ci ha dato una bocca e due orecchie è per ricordarci che dobbiamo saper ascoltare il doppio di quanto parliamo”. Tradotto dalle parti di questa Italietta di inizio millennio, significa che è inutile far volare colombe portatrici di ramoscelli di ulivo (stagionato e ormai secco), quando poi nell’immaginario collettivo permangono gli ettolitri di veleno irrorati puntualmente dal Giornale, nemmeno fosse uno di quegli aerei da turismo riconvertiti in spargi-fertilizzanti.
Quando le colombe berlusconiane si dilettano in analisi e colloqui che vorrebbero, nelle intenzioni, distendere, non tengono nella debita considerazione le consuete manganellate mediatiche di chiara derivazione, già richiamate su queste colonne. Che appartengono a un giornalismo che non è giornalismo. Ad esempio, il Presidente del Senato auspica giustamente la «cessazione del conflitto politico-istituzionale e il ricompattamento della maggioranza». E aggiunge: «Si depongano le armi e prevalga il senso di responsabilità, vengano bandite forme di rivalsa e di ritorsione, questo scambio di accuse violente che ha superato ogni limite. Va cercata una mediazione: ce n’è la possibilità e ce n’è l’esigenza nell’interesse generale». Ma poi come la mettiamo con i pedinamenti o con le supposte "missioni informative", come quella ventilata in Sicilia sulle tracce del pericoloso Fabio Granata e delle sue cartelle esattoriali?
Era dello stesso tono quella nota ufficiale di Palazzo Chigi con cui si dichiarava di «apprezzare l’apertura dei senatori finiani e di confidare ancora in una ritrovata unità». Ma ecco che parte, sotto la direzione di Feltri, la produzione di un’ingente dose di non-informazione (chiamarla informazione sarebbe un insulto ai maestri del passato): come chiamarla? Si potrebbe provare con deduzioni faziose, accostamenti assurdi, campagne diffamatorie. Liberi di scegliere.
Piero Ostellino in un fondo di ieri sul Corsera, rammentando Alexis de Tocqueville e uno dei grandi pilastri della democrazia liberale, ovvero la libera informazione, ha scritto che «non è compito dei media indipendenti organizzare e condurre campagne pro o contro uomini e partiti politici per delegittimarne il ruolo istituzionale. Dovere dei media è riferire fatti ed esprimere giudizi verificabili nei fatti. Il resto è militanza politica. Legittima- ha concluso- ma altra cosa dal giornalismo».
È da ingenui, dunque, non voler vedere questa sorta di tenaglia: da un lato si mette in moto la quotidiana rotativa spargi fiele del Giornale (che non sembra comunque appartenere a quella schiera di “stampa indipendente”, almeno stando ai dati che si evincono dalla lettura della gerenza). E dall’altro, si inviano timidi e ipocriti segnali pseudo-distentivi. Ma insomma, a cosa serve fare il gesto di porfere la mano e intanto fiancheggiare fabbriche di fango, magari con qualche scrollata di spalle? Ecco, questo è niente altro che un fatto e, come diceva Aldous Huxley, «i fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo».
Falchi, colombe. Colombe e falchi. E poi passerotti, cornacchie, canarini, gazze ladre e piccioni viaggiatori. Al di là di possibili interessi ornitologici, sempre legittimi per carità, ciò che resta della politica agostana non è quel che sembra arrivare dagli uffici stampa o quel che filtra diplomaticamente da dichiarazioni o interviste a trecentosessanta gradi, ma molto più semplicemente quel che è.
Un vecchio detto rabbinico dice che “se Dio ci ha dato una bocca e due orecchie è per ricordarci che dobbiamo saper ascoltare il doppio di quanto parliamo”. Tradotto dalle parti di questa Italietta di inizio millennio, significa che è inutile far volare colombe portatrici di ramoscelli di ulivo (stagionato e ormai secco), quando poi nell’immaginario collettivo permangono gli ettolitri di veleno irrorati puntualmente dal Giornale, nemmeno fosse uno di quegli aerei da turismo riconvertiti in spargi-fertilizzanti.
Quando le colombe berlusconiane si dilettano in analisi e colloqui che vorrebbero, nelle intenzioni, distendere, non tengono nella debita considerazione le consuete manganellate mediatiche di chiara derivazione, già richiamate su queste colonne. Che appartengono a un giornalismo che non è giornalismo. Ad esempio, il Presidente del Senato auspica giustamente la «cessazione del conflitto politico-istituzionale e il ricompattamento della maggioranza». E aggiunge: «Si depongano le armi e prevalga il senso di responsabilità, vengano bandite forme di rivalsa e di ritorsione, questo scambio di accuse violente che ha superato ogni limite. Va cercata una mediazione: ce n’è la possibilità e ce n’è l’esigenza nell’interesse generale». Ma poi come la mettiamo con i pedinamenti o con le supposte "missioni informative", come quella ventilata in Sicilia sulle tracce del pericoloso Fabio Granata e delle sue cartelle esattoriali?
Era dello stesso tono quella nota ufficiale di Palazzo Chigi con cui si dichiarava di «apprezzare l’apertura dei senatori finiani e di confidare ancora in una ritrovata unità». Ma ecco che parte, sotto la direzione di Feltri, la produzione di un’ingente dose di non-informazione (chiamarla informazione sarebbe un insulto ai maestri del passato): come chiamarla? Si potrebbe provare con deduzioni faziose, accostamenti assurdi, campagne diffamatorie. Liberi di scegliere.
Piero Ostellino in un fondo di ieri sul Corsera, rammentando Alexis de Tocqueville e uno dei grandi pilastri della democrazia liberale, ovvero la libera informazione, ha scritto che «non è compito dei media indipendenti organizzare e condurre campagne pro o contro uomini e partiti politici per delegittimarne il ruolo istituzionale. Dovere dei media è riferire fatti ed esprimere giudizi verificabili nei fatti. Il resto è militanza politica. Legittima- ha concluso- ma altra cosa dal giornalismo».
È da ingenui, dunque, non voler vedere questa sorta di tenaglia: da un lato si mette in moto la quotidiana rotativa spargi fiele del Giornale (che non sembra comunque appartenere a quella schiera di “stampa indipendente”, almeno stando ai dati che si evincono dalla lettura della gerenza). E dall’altro, si inviano timidi e ipocriti segnali pseudo-distentivi. Ma insomma, a cosa serve fare il gesto di porfere la mano e intanto fiancheggiare fabbriche di fango, magari con qualche scrollata di spalle? Ecco, questo è niente altro che un fatto e, come diceva Aldous Huxley, «i fatti non cessano di esistere solo perché noi li ignoriamo».
giovedì 12 agosto 2010
Quel lavoro, tra "oikos" e "nomos"
Da Ffwebmagazine del 12/08/10
Diceva Marcuse che «il lavoro è la prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo, con cui l’uomo diventa per sé ciò che egli è». Oggi assistiamo alla fine del valore sociale del lavoro? Se lo chiede, assieme ad altre interessanti questioni, Daniele Ranieri nel pamphlet Preferirei di no- Lavoro e condizioni di lavoro alle radici del XXI secolo. Il titolo riprende il detto dello scrivano Bartleby, nel racconto di Melville.
La debole governance globale dell’ultimo ventennio è alla base dello status quo. Crisi della democrazia e crisi del lavoro procedono quindi di pari passo. E negarlo sarebbe da sprovveduti. È altrettanto evidente che non si può abbozzare una soluzione al problema occupazionale senza riflettere sulla democrazia economica, sulle forme di partecipazione dei lavoratori. Ricordando Bruno Trentin, Ranieri dice che il lavoro è questione di identità e liberazione. Di conseguenza appare fondamentale «un diritto allo sguardo, cioè all’informazione, alla consultazione ed al controllo sull’oggetto del proprio lavoro, che ricomprende al proprio interno le dinamiche organizzative, il tempo delle singole attività, della formazione, sino al prodotto finale».
Nel libro vengono raffrontate vicende passate e presenti, modelli fordisti e quelli più attuali legati alla flessibilità delle risorse umane. Se il lavoro è una merce, il lavoratore è una persona integra, questo sarebbe utile tenerlo sempre a mente. La frase di Bartleby, «Preferirei di no», altro non è che il timore di trasformarsi in uno scarto produttivo, in una lettera morta. Ranieri riprende un’osservazione di Hannah Arendt, secondo cui pensieri e idee non sono solo autoriflessioni delle persone, ma la base delle relazioni umane. E la loro legittimazione è strettamente proporzionale alla diffusione da parte degli stessi uomini.
Quando tale processo, definito da Arendt di reificazione, viene stoppato o cassato, quell’idea resta come inespressa. Allo stesso modo, riflette l’autore, nel lavoro vi è l’apporto del lavoratore che, se viene a mancare, fa bloccare l’identificazione tra la persona e l’attività che svolge. Determinando di fatto un impoverimento sociale. Quello a cui si assiste quotidianamente nell’epoca della globalizzazione, della delocalizzazione, della elasticità dei rapporti e dei contratti.
Lecito chiedersi: che cosa rappresenta dunque il lavoro? Fonte di disparità e sofferenze? O realizzazione di un principio costituzionale? E’un’attività o una mera funzione Heideggeriana? E ancora: il lavoro serve per concretizzare un reddito o per formare una persona? Oggi continua ad essere il «principale contenitore dove concimare identità sociale, strutturando la propri esistenza». Il libro si dirama in due parti. Nella prima ci si affaccia in una panoramica sulla concezione del lavoro nelle differenti società: greca, romana, cristiana, medievale, luterana. E nella seconda si affrontano i nodi sociali che con il lavoro sono legati a doppia mandata, come la felicità, la realizzazione intima, la convivenza d’insieme.
Proprio Lutero scrisse che «la vita non è riposo, ma trasformazione del buono in meglio. Questo è il compito del lavoro che già in sé è grave». Esprimendo un distacco evidente dalla concezione ellenica che puntava invece più intrinsecamente sul senso di civilizzazione. Un’interessante fonte di riflessione si ritrova proprio nella considerazione che del lavoro aveva la società antica. Come l’uomo zoon politikòn di derivazione Aristotelica, sino alle differenze linguistiche tra latini, francesi, tedeschi che chiamavano il lavoro rispettivamente opus, travaille, werk. Diceva Aristotele che «non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano», in quanto egli non ha tempo libero, dipende dal suo lavoro e dai clienti. Tale condizione di dipendenza economica altrui non lo rende adatto alla piena cittadinanza ellenica. È utile ricordare, inoltre, che il termine economia, dal greco oikos (casa) e nomos (legge) fa riferimento al concetto di ambito familiare, quell’insieme di principi per la regolamentazione domestica. Ranieri conduce il lettore all’interno di un approfondimento irto di quesiti, che stimolano diagnosi precise.
Provando ad abbozzare una qualche risposta, si potrebbe perchè no riprendere il doppio principio ellenico citato. Quello che parte da un sentimento amministrativo familiare, per giungere ad un lavoro che non si risolva nel semplice strumento per ottenere un salario. Ma che, facendo tesoro anche dello spunto di Heidegger e della Costituzione italiana, così qualifichi il cittadino nella sua professione. Al di là di classificazioni più o meno ideologiche, Ranieri conclude con un inno alla lungimiranza. Perfino troppo facile sottolineare come il lavoro sia il frutto di una qualche programmazione a lunga gittata, priva della spasmodica attenzione al quotidiano. Slegata da logiche momentanee. E non per una non tanto velata tendenza al futuro, quanto per un’oggettiva logica razionale.
Lo stesso Gramsci, nei Quaderni, ammoniva che «prevedere non significa sapere quello che avverrà, ma fare in modo che avvenga, cioè predisporsi a progettare il futuro”. Anche il comico Groucho Marx aveva a cuore il futuro, quando sosteneva: «Per il futuro serve ricordare il passato, così almeno non ripeterai gli stessi errori: ne inventerai di nuovi». Due modi, diversi ma convergenti, di rimarcare che l’autoingannamento del presente, quello per intenderci dei paracocchi, della condizione ottusa dovuta alla contingenza, altro non fa se non disarmare gli interpreti. Spogliarli della forza necessaria a gridare «preferirei di sì», anziché mestamente «di no», come lo scrivano Bartleby nel raccolto di Melville.
Daniele Ranieri
Preferirei di no
Edizioni Ediesse 2009
160 pp. 10,00 euro
Diceva Marcuse che «il lavoro è la prassi specifica dell’esistenza umana nel mondo, con cui l’uomo diventa per sé ciò che egli è». Oggi assistiamo alla fine del valore sociale del lavoro? Se lo chiede, assieme ad altre interessanti questioni, Daniele Ranieri nel pamphlet Preferirei di no- Lavoro e condizioni di lavoro alle radici del XXI secolo. Il titolo riprende il detto dello scrivano Bartleby, nel racconto di Melville.
La debole governance globale dell’ultimo ventennio è alla base dello status quo. Crisi della democrazia e crisi del lavoro procedono quindi di pari passo. E negarlo sarebbe da sprovveduti. È altrettanto evidente che non si può abbozzare una soluzione al problema occupazionale senza riflettere sulla democrazia economica, sulle forme di partecipazione dei lavoratori. Ricordando Bruno Trentin, Ranieri dice che il lavoro è questione di identità e liberazione. Di conseguenza appare fondamentale «un diritto allo sguardo, cioè all’informazione, alla consultazione ed al controllo sull’oggetto del proprio lavoro, che ricomprende al proprio interno le dinamiche organizzative, il tempo delle singole attività, della formazione, sino al prodotto finale».
Nel libro vengono raffrontate vicende passate e presenti, modelli fordisti e quelli più attuali legati alla flessibilità delle risorse umane. Se il lavoro è una merce, il lavoratore è una persona integra, questo sarebbe utile tenerlo sempre a mente. La frase di Bartleby, «Preferirei di no», altro non è che il timore di trasformarsi in uno scarto produttivo, in una lettera morta. Ranieri riprende un’osservazione di Hannah Arendt, secondo cui pensieri e idee non sono solo autoriflessioni delle persone, ma la base delle relazioni umane. E la loro legittimazione è strettamente proporzionale alla diffusione da parte degli stessi uomini.
Quando tale processo, definito da Arendt di reificazione, viene stoppato o cassato, quell’idea resta come inespressa. Allo stesso modo, riflette l’autore, nel lavoro vi è l’apporto del lavoratore che, se viene a mancare, fa bloccare l’identificazione tra la persona e l’attività che svolge. Determinando di fatto un impoverimento sociale. Quello a cui si assiste quotidianamente nell’epoca della globalizzazione, della delocalizzazione, della elasticità dei rapporti e dei contratti.
Lecito chiedersi: che cosa rappresenta dunque il lavoro? Fonte di disparità e sofferenze? O realizzazione di un principio costituzionale? E’un’attività o una mera funzione Heideggeriana? E ancora: il lavoro serve per concretizzare un reddito o per formare una persona? Oggi continua ad essere il «principale contenitore dove concimare identità sociale, strutturando la propri esistenza». Il libro si dirama in due parti. Nella prima ci si affaccia in una panoramica sulla concezione del lavoro nelle differenti società: greca, romana, cristiana, medievale, luterana. E nella seconda si affrontano i nodi sociali che con il lavoro sono legati a doppia mandata, come la felicità, la realizzazione intima, la convivenza d’insieme.
Proprio Lutero scrisse che «la vita non è riposo, ma trasformazione del buono in meglio. Questo è il compito del lavoro che già in sé è grave». Esprimendo un distacco evidente dalla concezione ellenica che puntava invece più intrinsecamente sul senso di civilizzazione. Un’interessante fonte di riflessione si ritrova proprio nella considerazione che del lavoro aveva la società antica. Come l’uomo zoon politikòn di derivazione Aristotelica, sino alle differenze linguistiche tra latini, francesi, tedeschi che chiamavano il lavoro rispettivamente opus, travaille, werk. Diceva Aristotele che «non è possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano», in quanto egli non ha tempo libero, dipende dal suo lavoro e dai clienti. Tale condizione di dipendenza economica altrui non lo rende adatto alla piena cittadinanza ellenica. È utile ricordare, inoltre, che il termine economia, dal greco oikos (casa) e nomos (legge) fa riferimento al concetto di ambito familiare, quell’insieme di principi per la regolamentazione domestica. Ranieri conduce il lettore all’interno di un approfondimento irto di quesiti, che stimolano diagnosi precise.
Provando ad abbozzare una qualche risposta, si potrebbe perchè no riprendere il doppio principio ellenico citato. Quello che parte da un sentimento amministrativo familiare, per giungere ad un lavoro che non si risolva nel semplice strumento per ottenere un salario. Ma che, facendo tesoro anche dello spunto di Heidegger e della Costituzione italiana, così qualifichi il cittadino nella sua professione. Al di là di classificazioni più o meno ideologiche, Ranieri conclude con un inno alla lungimiranza. Perfino troppo facile sottolineare come il lavoro sia il frutto di una qualche programmazione a lunga gittata, priva della spasmodica attenzione al quotidiano. Slegata da logiche momentanee. E non per una non tanto velata tendenza al futuro, quanto per un’oggettiva logica razionale.
Lo stesso Gramsci, nei Quaderni, ammoniva che «prevedere non significa sapere quello che avverrà, ma fare in modo che avvenga, cioè predisporsi a progettare il futuro”. Anche il comico Groucho Marx aveva a cuore il futuro, quando sosteneva: «Per il futuro serve ricordare il passato, così almeno non ripeterai gli stessi errori: ne inventerai di nuovi». Due modi, diversi ma convergenti, di rimarcare che l’autoingannamento del presente, quello per intenderci dei paracocchi, della condizione ottusa dovuta alla contingenza, altro non fa se non disarmare gli interpreti. Spogliarli della forza necessaria a gridare «preferirei di sì», anziché mestamente «di no», come lo scrivano Bartleby nel raccolto di Melville.
Daniele Ranieri
Preferirei di no
Edizioni Ediesse 2009
160 pp. 10,00 euro
Anagrafe scolastica. Altro spot estivo?

Da Ffwebmagazine dell'11/08/10
Povera Gelmini, saranno le voci di una sua candidatura al posto dei triumviri del Pdl in aggiunta ad altri giovani delfini (mai trote); saranno le responsabilità pressanti di occupare il ministero che fu di Giovanni Gentile; sarà che dopo aver proposto la laurea honoris causa a Umberto Bossi in comunicazione, qualche politico straniero avrà pensato di iscriversi anch’egli al club del dito medio, per ambire al prestigioso riconoscimento. Fatto sta che non è un periodo facile per Maria Stella, a detta almeno di quello che riportano i quotidiani italiani. L’ultima nata è la proposta dell’anagrafe degli studenti, a cui già si sono opposte non poche voci contrarie.
Si tratta della raccolta di molteplici dati che, nelle intenzioni, vorrebbe rappresentare il biglietto da visita di ogni studente, per ottenere una banca informativa che lo tenga d’occhio anche sotto il profilo della eventuale dispersione scolastica. Peccato che accanto alle informazioni squisitamente curriculari, come voti, materie, crediti, debiti, vi siano anche il credo religioso, lo stato di salute, i rilievi giudiziari. Inserendo in un qualsiasi dizionario on line o cartaceo queste voci, il risultato che viene fuori è: dati sensibili. Ovvero dati personali, la cui raccolta o trattamento è subordinata all’autorizzazione della persona interessata, oltre a quella preventiva del Garante per la protezione dei dati personali stessi. Quest’ultimo tranquillizza tutti, dal momento che sarà proprio il Ministero a definire modi, tempi e soggetti incaricati di trattare i dati ovviamente individuali. E, asserendo, che verranno impiegati solo per fini statistici.
Ma il punto è un altro: è davvero indispensabile impiegare risorse economiche ed umane per un’iniziativa del genere che addirittura faccia luce su quale rito domenicale o infrasettimanale lo studente frequenti? Davvero è con queste idee strampalate che l’istruzione verrà sanata, assieme alle sue oggettive criticità che hanno portato, ad esempio, gli studenti italiani a scendere verticalmente nelle classifiche di rendimento europee? O non sarebbe stato più funzionale inaugurare magari gli stati generali della scuola, interpellando docenti, alunni e famiglie, per stimare dove intervenire e in che misura, anziché affidarsi a interventi secondari, anziché riproporre quel senso di caserma e di controllo vagamente fuori luogo?
È stato calcolato che saranno circa sei milioni gli studenti monitorati le cui informazioni verranno inserite nei computer del ministero, da cui dicono di volere solo effettuare una sorta di monitoraggio dell’evasione scolastica e della irregolarità della frequenza. Lo scopo- continuano da viale Trastevere- è fare prevenzione circa il fenomeno della dispersione. Tanto di cappello per il nobile intento, ma se impedire una fuga dei cervellini italiani dalle scuole nostrane deve passare da una violazione così invasiva delle proprie vite, allora significa che i problemi della scuola sono altrove. Forse nell’approssimazione di qualche dirigente che stende nuovi programmi e linee guida. A cosa serve voler conoscere quale religione si professi, o quali malattie esantematiche si siano riscontrate?
Si legge nella proposta esplicativa dell’anagrafe che verranno inseriti una serie di dati sensibili, utili a determinare lo stato di salute, le convinzioni religiose o di altro genere e notizie giudiziarie, indispensabili per individuare gli istituti dove lo studente svolge il proprio obbligo scolastico. Ci si dovrà preparare ad una schedatura simil- questura per gli alunni di tutta Italia? Ciò che preoccupa maggiormente non è l’effetto mediatico di iniziative simili, che a tratti possono apparire estemporanee o addirittura degne di qualche titolo divertente, ma il tenore o lo spessore. A cui fa da contraltare una certa sottovalutazione dei problemi basilari del comparto educazione: non sarà con la violazione della privacy degli studenti che li si inviterà a non abbandonare gli studi, o a profondere un maggiore impegno in questa o quella materia. Ma sarà il caso di lavorare su strutture più accoglienti, su un sostegno ai docenti impegnati in territori difficili, su risorse che scarseggiano drammaticamente per stipendi e spese generali, su libri di testo troppo frettolosamente cambiati in barba alle difficili condizioni economiche delle famiglie.
Meno privacy uguale più frequenza degli studenti? Mah, il dubbio rimane, anzi si rafforza, ed ecco che in soccorso dell’interrogativo estivo giunge un’esortazione di Ugo Foscolo: «Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete al fine conoscervi fra di voi ed assumere il coraggio della concordia». Magari per ottenere risultati migliori, invece che scomodare detective ministeriali che indaghino su religioni e salute dei ragazzi, sarà sufficiente invogliarli a studiare di più.
martedì 10 agosto 2010
Elogio della rete, dove la leggerezza è modificabile

Da Ffwebmagazine del 10/08/10
Diceva Miroslaw Balka: «La comprensione è un’esperienza di costruzione che ricomincia sempre da capo». Ovvero non è sufficiente giungere ad un punto fermo e, con il risultato acquisito in tasca, spegnere il cervello e affidarsi alla rendita di conoscenze. Ma serve sbirciare oltre, puntare al prossimo nodo, azzerare il certo e imbarcarsi in un altro viaggio di comprensione.Da dove passa il futuro della cultura? Certamente dai libri, e certamente da menti pronte al cambiamento e a nuovi strumenti. Come la rete, fino ad oggi per la verità bistrattata dalle nostre parti: sia dagli italiani ancora pigri circa un suo uso costante, sia dalle istituzioni ancora in ritardo tecnologico, quanto a provvedimenti su banda larga e internet mobile.
Quanti non hanno ancora consultato la rete per dettagli storici, curricula di personaggi ed esponenti passati e presenti, o semplicemente per avere conferme su date o eventi? C’è chi dice che le enciclopedie online non siano propriamente attendibili, nè filologicamente corrette. Manca un controllo, lamentano i puristi, troppa libertà e semplicità di inserimento. Perché troppo facili preda di manipolazioni, di esagerazioni o imprecisioni. Sì, ma proprio per questo anche intercambiabili contenutisticamente al proprio interno, pronte a fare un passo indietro e a farsi correggere. Non cementificate nei secoli, ma rapidamente mutabili e, così, attuali ed elastiche.
Interessante, anzi, doveroso, accostarvi una metafora politica. La rete è sinonimo di cultura nuova, futura, perché aperta a resettarsi se sbaglia o se si rende conto di aver prodotto qualche imprecisione. L’enciclopedia online è modificabile, mentre un libro no. Perché rimane prigioniero di ciò che è stato scritto e dato per acquisito, e nessuno lo confuta. Tutto in rete è leggero: sì, e allora? Ma mentre la leggerezza è trasformabile, migliorabile, il libro no. Meglio quindi un riscontro personale, collettivo e continuo, all’immobilità dell’immodificabile. Di pari passo va anche il pensiero individuale: chi pensa con cultura libraia è destinato ad un’esasperazione identitaria, poco avvezza al cambiamento, alla discussione, alla critica anche aspra ma efficace, perché veritiera in quanto fa luce sui nervi scoperti. Perché lo stantìo e il definitivo altro non fanno se non bloccare le masse in movimento. Semplicemente offrono lo spunto per non fare.
Il passo che andrebbe fatto, con serietà ma senza paura, è nella direzione di un’apertura intelligente alla modernità della rete, al momento sottostimata e sottoutilizzata in Italia. Quasi che inducesse timori, che spaventasse anche alcune elite. Che invece, in virtù del proprio stato, ne potrebbero essere diffusori determinanti. Tornando alla cultura, questo non significa che si faccia il tifo per la scomparsa dei libri o della carta, ci mancherebbe. Né che si consideri inattuale la filologia, l’approfondimento di cognizioni del passato, la rilettura di opere e scritti, le ristampe di libri di ieri. Rappresentano un incredibile bagaglio, non da portare come una zavorra immobile, ma funzionalmente alla comprensione del domani. Sta tutta qui la difficoltà di armonizzare sapere e rete. Ma perché, qualcuno pensava che fosse tanto semplice la fusione tecnologica e intellettuale del vecchio con il nuovo? Certamente no, magari però ci si sarebbe aspettato un po’più di collaborazione, di apertura, di coraggio.
Ha ragione lo storico della filosofia Tullio Gregory quando dice che la rete oggi è afflitta da alcuni problemi: l’impossibilità di controllare la moltitudine di dati che si diffondono a getto continuo, la manipolazione dell’opinione pubblica. Ma non sarebbe una risposta convincente scartarla a priori come strumento moderno e funzionale. Per questo è utile un suo rafforzamento, una verifica qualitativa, che non svilisca quel sottile ma pervasivo fruscìo di libertà che la caratterizza. E, accanto ad essa, un rafforzamento delle menti. Perché per quanta rete potrà essere disponibile e fruibile a tutti, se mancheranno occhi e neuroni aperti e disposti a sfruttarla non si potrà compiere il vero progresso scientifico-mentale del secolo.
Se i liberali della prima ora prendono le distanze

Da Ffwebmagazine del 10/08/10
Il Pdl non è mai nato. Il partito vive solo di lotte di potere interne. L’espulsione dei finiani incarna un deficit di metodi e comportamenti liberali. C’è insofferenza per il dibattito interno. La rivoluzione liberale di Forza Italia è stata un’illusione. Silvio si circonda di uno sciame sudamericano…
Non sono i titoli di giornali dell’opposizione contro il regime o le riflessioni di qualche tedioso giamburrasca futurista tacciato di fare il controcanto, ma le osservazioni di tre liberali della prima ora, esponenti politici ed intellettuali che, a distanza di tre lustri, hanno tracciato un bilancio di quell’esperienza politica nata nel 1994, constatando quale mostro a sei teste sia venuto fuori oggi. Puntando un fascio di luce non su aneddoti personali o su rivendicazioni egoistiche, come accade spesso circa promesse disattese o sogni infranti. Ma scavando sotto traccia nelle motivazioni che realmente portarono una moltitudine di politici e cittadini italiani a raggrupparsi attorno al sogno di un nuovo contenitore liberale.
Raffaele Della Valle, avvocato penalista noto per la vicenda di Enzo Tortora, è stato tra i fondatori di Forza Italia, diventandone il primo capogruppo alla Camera nel 1994. Ma già 35 anni prima era stato segretario dei giovani Liberali di Monza, in seguito tra gli esponenti di spicco del Pli. Raffaele Costa, immagine e somiglianza del Partito Liberale Italiano, è stato deputato sin dal 1976 e quattro volte ministro, ricoprendo incarichi in vari governi. Nel ’94 in prima fila per la tanto famosa, quanto in questi anni tragicamente disattesa, battaglia per abbassare le tasse. Jas Gawronski, giornalista di lungo corso e contrario ai doppi mandati per sue stessa ammissione, è stato deputato al Parlamento italiano ed europeo, e dal ’94 al ’95 portavoce del premier Berlusconi. In seguito eletto al Senato, incarico che lasciò perché rieletto in Europa nel ’99.
Si tratta di tre figure che non possono essere accusate di trasformismo, o di formazione moscovita, né di senilità galoppante. Più semplicemente sono tre liberali veri, che non hanno timore di esprimere a testa alta e oggettivamente opinioni e rilievi rafforzati da cognizioni e verifiche. Non sulla base di teoremi strampalati o di variopinte ricostruzioni, buone solo per comizi in riva al Po. E non al fine di demonizzare alcuno, né per gettare fango su altri, così come su taluni versanti si fa abitualmente. Ma per avanzare quella che una volta si chiamava critica costruttiva, migliorie all’insieme, aggiustamenti per incrementare l’efficacia di un’azione politica e sociale.
Certo, può darsi che tra qualche giorno verrà schierata la consueta batteria di articoli per sminuire il loro pensiero, ma intanto un paio di cose interessanti le hanno dette. Dunque, l’ex ministro Costa dice di essere amareggiato perché manca nel centrodestra un partito vero, maturo e strutturato e le iniziative di Fini hanno messo in difficoltà un partito che, in pratica, non esiste. E quando esso manca ecco che tragicamente emergono le rivalità personali e di potere «che non hanno mai un lieto fine», ma che come si è visto concimano incomprensioni e tentativi fine a se stessi.
L’avvocato Della Valle lamenta l’assenza di un contenitore che sia aperto alla dialettica e al dissenso interno, in grado di recuperare quelle pulsioni liberali che spinsero l’exploit del 1994 e le speranze legate a quei dettati, ovvero meno tasse, più meritocrazia, più posti di lavoro (anche non arrivando necessariamente a quel milione). E l’espulsione di Fini? «Da ancien regime, o peggio da Oltrecortina», la bolla con decisione l’ex parlamentare.
Sui falsi consiglieri sempre pronti ad elogiare a priori, e a trasformare il brutto in bello e le nubi in sole, si concentra elegantemente Gawronski, epitetando questa pletora di yes man come “sciame sudamericano”. Preoccupati, aggiungiamo, solo di compiacere oltremodo il re e di annuire, così come accade in certi stucchevoli pastoni televisivi, senza concentrarsi sui provvedimenti reali, sulle mosse da realizzare, sugli errori commessi.
Anche loro saranno accusati di remare contro? Anche questi tre liberali, da sempre allergici a derive staliniste e a imprimatur da caserma, verranno alla fine espulsi, ma solo dopo passaggio formale sotto le forche caudine dei Probiviri? Magari coccolati con la stessa formula usata dal Premier lo scorso 29 luglio, cioè che hanno causato una «insanabile divaricazione, che ha creato sconcerto tra i nostri sostenitori, che ha costernato i nostri elettori e che ha creato un grave logoramento dell’immagine del Pdl».
sabato 7 agosto 2010
NAZIONALE, AL VIA LA DISCONTINUITA'METICCIATA
Da Ffwebmagazine del 07/08/10
Da adesso in poi non conteranno la fedeltà di appartenenza, il passato di questo o di quello. Né il ceppo di partenza, nemmeno gli equilibri di casta, o i debiti di riconoscenza post qualcosa o promesse pre vittorie. Qui è stata tracciata una riga da dove ricominciare ex novo, con volti freschi, con talenti allo stato puro, senza calcoli o personalismi periferici. Adesso sembra, anzi è, tutto azzerato. Si misurerà il talento e non la simpatia o gli ammiccamenti serali. E chi più ne avrà- di talento- più avanti andrà.
Speravamo fosse l’inizio di un nuovo corso politico, invece, per ora, è la nuova carta di identità della nazionale italiana di calcio targata Cesare Prandelli, all’insegna della discontinuità meticciata rispetto alla gestione precedente. Discontinuità perché sono stati convocati molti giovani, oltre ai talenti come Balotelli e Cassano, della serie la fantasia contro la gabbia da caserma degli schemi. E poi perché il commissario tecnico ha aperto le convocazioni - e le idee - ai nuovi italiani, o che forse lo sono sempre stati perché casacche e bandiere vanno poi alla fine interpretati con sentimenti e sensazioni di appartenenze ben più di timbri o nullaosta ufficiali.
L’attaccante della Juve Amauri è nato in Brasile e ha sposato una ragazza di origini italiane che ha il doppio passaporto. Da poco anche lui lo ha ottenuto, proprio come un altro juventino, il campione del mondo Camoranesi, fino a ieri nel giro azzurro. Di Balotelli si è scritto e detto di tutto, esempio di quella generazione di nuovi italiani, dal momento che al di là di domande in carta da bollo e richieste agli uffici di mezza Italia, il ragazzo parla il dialetto bresciano, non il congolese. Si sente italiano a tutti gli effetti, qui ha frequentato le scuole e quindici giorni fa si è anche preso il diploma in ragioneria. Se la legge imbriglia vite umane e storie sportive, sarà il caso che qualcuno intervenga con una doppia razione di buon senso. Quel qualcuno oggi ha dato un bel segno, e si chiama Cesare Prandelli. Si tratta di un allenatore sobrio che ha fatto la gavetta seduto su panchine di provincia, prima di arrivare in una piazza prestigiosa come Firenze. Ma ha anche giocato, e bene, a calcio. Vecchia figura di un vecchio calcio in sordina, che badava molto alla sostanza. E che oggi si scopre avere un'altra freccia al proprio arco, quella energia dirompente di ragazzi tutti da scoprire.
La nazionale neometicciata, che il 10 agosto a Londra debutterà in amichevole contro la Costa D’Avorio, si presenta come la prima versione del dopo Lippi. Non mancano reduci più maturi, come De Rossi e Montolivo, ma come non notare l’invasione di novità dei vari Bonucci, Cassani, Motta, Viviano.
È chiaro che non saranno sufficienti solo nomi giovani per stravincere tutto. Ma Balotelli, così come Amauri e perché no domani anche Thiago Motta, rappresentano il simbolo di cambiamento. Di coraggio, nel prendere coscienza delle evoluzioni sociali che si sono insediate anche nello sport, approfittando dell’indiscusso talento che contemporaneamente si guadagna. E che di questi tempi non è poco, vista la magra figura dell’Italia Under 19 agli scorsi Europei, con un secco 3-0 rifilatoci dalla Spagna. E che più in generale a livello giovanile non brilla, confermandosi lontana dalla vetta, avendo nel palmares solo un titolo e una finale di Europeo Under 19 disputata. Mentre Germania, Inghilterra e Spagna mostrano più intraprendenza quando si tratta di scommettere su volti nuovi, e i risultati sono poi confermati in occasioni delle grandi manifestazioni continentali.
I giovani vanno guidati, consigliati, formati. Né si può pretendere che non sbaglino, ma è quella loro verve incosciente che va sfruttata. E’l’entusiasmo di voler strafare che rappresenta quel qualcosa in più. Quel bagliore che squarcia grigiori, quel bagliore che Bob Dylan declinava così: «Essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro».
Da adesso in poi non conteranno la fedeltà di appartenenza, il passato di questo o di quello. Né il ceppo di partenza, nemmeno gli equilibri di casta, o i debiti di riconoscenza post qualcosa o promesse pre vittorie. Qui è stata tracciata una riga da dove ricominciare ex novo, con volti freschi, con talenti allo stato puro, senza calcoli o personalismi periferici. Adesso sembra, anzi è, tutto azzerato. Si misurerà il talento e non la simpatia o gli ammiccamenti serali. E chi più ne avrà- di talento- più avanti andrà.
Speravamo fosse l’inizio di un nuovo corso politico, invece, per ora, è la nuova carta di identità della nazionale italiana di calcio targata Cesare Prandelli, all’insegna della discontinuità meticciata rispetto alla gestione precedente. Discontinuità perché sono stati convocati molti giovani, oltre ai talenti come Balotelli e Cassano, della serie la fantasia contro la gabbia da caserma degli schemi. E poi perché il commissario tecnico ha aperto le convocazioni - e le idee - ai nuovi italiani, o che forse lo sono sempre stati perché casacche e bandiere vanno poi alla fine interpretati con sentimenti e sensazioni di appartenenze ben più di timbri o nullaosta ufficiali.
L’attaccante della Juve Amauri è nato in Brasile e ha sposato una ragazza di origini italiane che ha il doppio passaporto. Da poco anche lui lo ha ottenuto, proprio come un altro juventino, il campione del mondo Camoranesi, fino a ieri nel giro azzurro. Di Balotelli si è scritto e detto di tutto, esempio di quella generazione di nuovi italiani, dal momento che al di là di domande in carta da bollo e richieste agli uffici di mezza Italia, il ragazzo parla il dialetto bresciano, non il congolese. Si sente italiano a tutti gli effetti, qui ha frequentato le scuole e quindici giorni fa si è anche preso il diploma in ragioneria. Se la legge imbriglia vite umane e storie sportive, sarà il caso che qualcuno intervenga con una doppia razione di buon senso. Quel qualcuno oggi ha dato un bel segno, e si chiama Cesare Prandelli. Si tratta di un allenatore sobrio che ha fatto la gavetta seduto su panchine di provincia, prima di arrivare in una piazza prestigiosa come Firenze. Ma ha anche giocato, e bene, a calcio. Vecchia figura di un vecchio calcio in sordina, che badava molto alla sostanza. E che oggi si scopre avere un'altra freccia al proprio arco, quella energia dirompente di ragazzi tutti da scoprire.
La nazionale neometicciata, che il 10 agosto a Londra debutterà in amichevole contro la Costa D’Avorio, si presenta come la prima versione del dopo Lippi. Non mancano reduci più maturi, come De Rossi e Montolivo, ma come non notare l’invasione di novità dei vari Bonucci, Cassani, Motta, Viviano.
È chiaro che non saranno sufficienti solo nomi giovani per stravincere tutto. Ma Balotelli, così come Amauri e perché no domani anche Thiago Motta, rappresentano il simbolo di cambiamento. Di coraggio, nel prendere coscienza delle evoluzioni sociali che si sono insediate anche nello sport, approfittando dell’indiscusso talento che contemporaneamente si guadagna. E che di questi tempi non è poco, vista la magra figura dell’Italia Under 19 agli scorsi Europei, con un secco 3-0 rifilatoci dalla Spagna. E che più in generale a livello giovanile non brilla, confermandosi lontana dalla vetta, avendo nel palmares solo un titolo e una finale di Europeo Under 19 disputata. Mentre Germania, Inghilterra e Spagna mostrano più intraprendenza quando si tratta di scommettere su volti nuovi, e i risultati sono poi confermati in occasioni delle grandi manifestazioni continentali.
I giovani vanno guidati, consigliati, formati. Né si può pretendere che non sbaglino, ma è quella loro verve incosciente che va sfruttata. E’l’entusiasmo di voler strafare che rappresenta quel qualcosa in più. Quel bagliore che squarcia grigiori, quel bagliore che Bob Dylan declinava così: «Essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro».
venerdì 6 agosto 2010
La strategia del dito medio...val bene una laurea

Da Ffwebmagazine del 06/08/10
Che sia un comunicatore questo non può negarlo nessuno. Annuncia, stigmatizza, ammicca, minaccia, fomenta. E poi assicura, fortifica, certifica, preleva (l’acqua del fiume), imbottiglia (la stessa acqua nell’ampolla). Insomma, una grande figura carismatica che veicola il suo pensiero agli elettori da palchi tinti di verde- il colore della speranza, oltre che dell’Onda iraniana- che elargisce consigli non richiesti agli avversari politici e che, non da ultimo, alle sollecitazioni della stampa, mostra il dito medio. Vuoi vedere che la strategia comunicativa del dito medio- quello che si fa allo stadio, o che i ragazzini mostrano a chi ruba loro il pallone, o che l’on. Santanchè esibisce orgogliosamente in piazza Montecitorio, vuoi vedere che proprio quel gesto è il colpo di genio del secolo?
Che fa guadagnare galloni solo pochi anni fa insperati, o che spalanca le porte oscure della conoscenza? Il ministro Gelmini ha proposto la laurea honoris causa ad appannaggio del ministro Bossi: “Voglio proprio vedere – ha detto l’inquilino di viale Trastevere- chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Bossi, che è parte della storia di questo Paese a ricevere una honoris causa”. Nessuno oserà fiatare, immaginiamo, anche perché il nostro la otterrà in comunicazione. Termine commerciale, magari più di casa tra chi oggi si allena ad accusare di bizantinismi. Tra l’altro il luogo del fattaccio sarà molto probabilmente l’Università dell’Insubria di Varese, insomma si gioca in casa. Pare che l’idea sarebbe nata durante un incontro gastronomico tra il rettore Renzo Dionigi e i presidi tutti della facoltà. Galeotta fu quella polenta tra le mura dell’Ateneo, verrebbe da dire.
Ma cosa avrà fatto di tanto meritorio il responsabile del Federalismo? Viene in sostegno lo statuto della Lega, senza dubbio ispirato dal ministro in questione: “Il Movimento politico denominato Lega Nord per l’Indipendenza della Padania ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”. Tra l’altro padri fondatori del movimento sono “coloro che, il 15 settembre 1996 dal palco di Venezia, hanno proclamato l’indipendenza della Padania dando lettura della dichiarazione d’indipendenza e sovranità”. In quell’occasione promosse una manifestazione lungo il Po, partendo dalla sorgente piemontese sino a giungere in Veneto. Lì ammainò il tricolore italiano sostituendolo con il Sole delle Alpi e leggendo una dichiarazione che rimarrà negli annali dei fumetti nostrani: “Noi Popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale, indipendente e sovrana”.
Di contro, sfogliando pagine, di carta e on line, del passato si trovano fior fiori di comunicatori. Per fare qualche esempio, Leonardo da Vinci con “L’Annunciazione” riuscì a comunicare tantissimo, in quanto ad arte, religione, emozioni. Oppure Giotto ne “La Pentecoste” offrì colori e volti a stati d’animo, sorprese, dottrina. Come non pensare poi a Klimt, altro comunicatore doc, la cui strada volle distaccare da quella accademia classica, sancendo con i suoi dipinti una secessione anche comunicativa. Per restare all’ultimo secolo impossibile non citare, tra gli altri, Salvador Dalì, padre del surrealismo, tendenza culturale, politica, artistica che comunicò l’esigenza di porsi molteplici interrogativi. “Ho un sogno- disse un altro straordinario comunicatore, Martin L. King- che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per sé stesse evidenti: che tutti gli uomini solo stati creati uguali”.
E’vero che una laurea honoris causa dalle nostre parti non si nega a nessuno. Nemmeno se a proporla è un Ministro della Repubblica ad appannaggio di un altro Ministro della Repubblica.
Ma suvvia, che almeno ci sia qualcuno che indirizzi l’ambito di cotanto merito: anziché la comunicazione, forse sarebbe stata più indicata la secessione, geografica, politica, e soprattutto mentale.
Almeno ognuno verrebbe premiato per quel che è. E comunque congratulazioni vivissime.
giovedì 5 agosto 2010
Largo ai giovani sì, ma non si riducano a sudditi

Da Ffwebmagazine del 05/08/10
Scriveva Pablo Neruda raccontando Valparaìso: «Nel momento più disordinato della nostra giovinezza, salivamo all’improvviso, sempre all’alba, sempre senza aver dormito, sempre senza un centesimo in tasca, in un vagone di terza classe. Eravamo poeti o pittori di poco più, o poco meno, di vent’anni, provvisti di una forte carica di pazzia irriflessiva che voleva esprimersi, allargarsi, esplodere». Quella pazzia era il sano propellente per nuove avventure, per raggiungere mete e obiettivi, per arrampicarsi sulla scala socio-professionale. Insomma, per realizzare sogni ed ambizioni.
Accade però, che quando alcuni giovani accusano difficoltà e strozzature di spazi e di azione, siano preda prima della paura di non farcela e poi del feudatario di turno. Il quale li attira nel suo regno ammaliandoli con le bellezze, gli agi, le facilitazioni. Sirene di vacuità. Eliminando dal loro cammino crepe e deviazioni, liquidando le determinanti cadute- perché cadere è utile e fortifica- a semplici perdite di equilibrio. Per giungere dritti al compimento finale, ma di fatto sfornando sudditi che all’indomani del “regalo” avranno come per magia smarrito quella deriva di indipendenza. Sudditi inermi, tanto per non dimenticare il dettato di Louis D. Brandeis, ovvero che essi rappresentano «la più grande minaccia alla libertà» .
I sudditi sono quelli che scartano la gestazione, la maturazione, per correre subito al prodotto finito. Esprimono insofferenza verso l’attesa, giustificata dall’iperpropensione ad arrivare in fretta al risultato. Non si preoccupano del mid term, perché sottolineano la stretta connessione tra desiderio iniziale ed effettivo compimento. Ha scritto Baltasar Graciàn y Morales che «ci sono individui composti unicamente di facciata, come case non finite per mancanza di quattrini. Hanno l’ingresso degno di un grande palazzo, ma le stanze interne paragonabili a squallide capanne». Quelle case sono i nuovi sudditi della post modernità, risultato di una società catapultata solo sulla meta, che non investe nulla nel percorso necessario per raggiungerla. Che si concentra su piccole porzioni di sé, tralasciando tutto il resto.
Il rischio, sempre più serio, è che alla fine le qualità scelgano di ingrassare altrove, lasciando sul campo i sudditi. Ma possibile che non ci renda conto di come, proseguendo con tale deriva di annientamento delle menti green, si otterrà un Paese svuotato di emozioni, di nuove leve, di idee scintillanti e produttive. E’come se alla vigilia di una competizione sportiva, uno degli atleti partisse con cento chili di zavorra in più rispetto agli avversari. Diventando amara consuetudine. E’la fotografia di ciò che accade e che in pochi denunciano con forza.
Come Paolo Macchiarini, autore pochi giorni fa di una vera e propria impresa: è stato il primo medico al mondo ad aver effettuato in un nosocomio fiorentino un doppio trapianto di trachea con l’ausilio di cellule staminali. Ma anziché rappresentare, questo storico evento, un trampolino di definitiva affermazione, ha invece segnato la fuga dell’ennesimo cervello nostrano, destinazione Stoccolma. Dopo aver già vagliato personalmente, all’indomani della laurea, le realtà statunitensi, inglesi, spagnole. E che gli ha fatto dire di arrabbiarsi perché l’Italia è sì un contenitore di “divini creatori”, vanificati però da un sistema che semplicemente non funziona come dovrebbe. Anziché privilegiare i migliori li costringe alla migrazione professionale, accomunati da un triste destino anche sociale. In qualche maniera, rifiutati dalla patria di tante eccellenze.
Neruda prosegue il suo racconto su Valparaìso con la visita alla residenza di Novoa, una specie di capanna con due stanze. Mentre i suoi amici ben presto si addormentarono sul pavimento, stesi sui giornali della giornata, il giovane Pablo faticava a prendere sonno. Poi fu preda di una sensazione strana e travolgente, «una fragranza montuosa, di prateria, di vegetazioni che erano cresciute con la mia infanzia». Lo riconciliarono col sonno, nient’altro erano se non piante secche e lisce, «rami puntuti e rotondi: tutto l’arsenale salutare del nostro predicatore vegetariano».
Forse sarebbe interessante rivalutare l’arsenale culturale della formazione, investire non solo nella cultura scolastica e universitaria, ma soprattutto lavorare sul concetto di indipendenza. Sul passaggio determinante che produce personalità staccate dai desiderata dei feudatari. Per tornare a fare spazio ai giovani, alle eccellenze, alle menti. Ma che il “largo ai giovani” non si tramuti in “largo ai sudditi”, evitando di produrre mediocrità industriali.
lunedì 2 agosto 2010
Storia di due città: Roma, Detroit e la vera "politica del fare"

Da Ffwebmagazine del 02/08/10
Roma e Detroit, non sono solo due città lontane ottomilaottocentotrentanove chilometri, ma hanno molto di diverso. Una è la prima metropoli dell’umanità, patria di quella cultura antica alla base del diritto, della letteratura, dell’arte e dell’architettura. Con la più alta concentrazione al mondo di beni architettonici; l’unica ad ospitare al suo interno uno Stato straniero, la Città del Vaticano. Attraversata nei secoli da straordinarie vicissitudini storiche, note a tutti (tranne a qualche leghista integralista). Con svariati simboli di rilevanza mondiale, come la lupa capitolina nel gesto di allattare Romolo e Remo, come il Colosseo, una delle sette meraviglie al mondo. È anche la quarta città per decorazioni con medaglie d’oro come “benemerita” del Risorgimento nazionale italiano. Ha siti archeologici, luoghi di interesse mondiale e, perché no, cibo ricercato ed apprezzato a tutte le latitudini del globo. Giusto per sintetizzare.
Detroit, invece, fu fondata nel 1701 da cacciatori di pellicce francesi, considerata la capitale dell’industria automobilistica e città di produzione musicale come blues, jazz e rock. Ha poco meno di un milione di abitanti, che diventano più di quattro se si considera l’area metropolitana. Dotata di tre casinò, nel 1940 vide la costruzione della prima autostrada al mondo e registrò un fortissimo incremento demografico (pare non vi fosse nemmeno un posto letto libero) durante il secondo conflitto mondiale, con migliaia di lavoratori che si riversarono nelle industrie belliche. Ha dato i natali alla pop star Madonna e al rapper Eminem e presenta cinque squadre che primeggiano ai massimi livelli in altrettante specialità sportive: basket femminile e maschile, baseball, football americano e hockey su ghiaccio.
Ma soprattutto negli ultimi giorni le due città si sono caratterizzate per dinamiche agli antipodi: mentre nella capitale d’Italia ci si trascinava stancamente a colpi di epurazioni, populismi e miopìe decisionali, lì il presidente Obama ringraziava Sergio Marchionne per aver impedito il fallimento della Chrysler; per aver assunto altri mille dipendenti nello stabilimento di Detroit quando vi era il serio rischio di chiusura; per aver attuato il raddoppio della produzione: «Un grazie a Marchionne per il lavoro svolto». Non è piaggeria quella del presidente “abbronzato” , né chiacchiere da bar in riva al mare, o promesse populiste da buontemponi. Ma la vera politica del fare, quella che impedisce, nei fatti, la smobilitazione e dà luce a prospettive e a orizzonti fino a ieri insperati.
Nessuno sa come si evolverà la questione Fiat, tra Pomigliano, Mirafiori, sindacati, governo ancora senza ministro dello Sviluppo economico e tavoli di contrattazione. Se ci sarà- come ci si auspica- una nuova primavera occupazionale o se sarà il caso di prepararsi ad un rigido inverno. Quel che è certo è ciò che resta di quella foto, tutta coraggio e azione, che ritrae Barack Obama in visita allo stabilimento Chrysler di Detroit in compagnia di Sergio Marchionne che ha detto: «Arrivare sin qui non è stato facile, è stato necessario ripartire da zero e strutturare. I sindacati hanno capito, cooperato e il governo ha giocato un ruolo importante in questa ripartenza».
Ecco, sarebbe saggio che tutti comprendessero a pieno la strategicità del concetto di ripartenza. L’intrinseco significato di una fase nuova. Perché più si tarderà, testardamente, a comprenderne i risvolti, più si tarderà a far germogliare quei semi che Pablo Neruda invogliava a spargere nel proprio orto. «Dappertutto saltano i semi, tutte le idee sono esotiche, aspettiamo ogni giorno cambiamenti immensi».
martedì 27 luglio 2010
Ma perchè i blog fanno così paura?

Da Ffwebmagazine del 27/07/10
Jorn Barger, commerciante americano appassionato di caccia, decise un bel giorno di dicembre di mettere on line i propri pensieri e le proprie attitudini. Si trattava di una pagina personale allestita per veicolare informazioni e proposte con altre persone che condividessero con lui la passione venatoria. Era il 1997 e quello fu in assoluto il primo blog a vedere la luce. Quattro anni più tardi venne imitato anche in Italia. Ma adesso non si vuole fare una ricostruzione storico-enciclopedica della socio-rete, bensì ragionare sul fatto che se dovesse essere approvata la norma contenuta nel comma 29 del decreto Alfano, quella, per intenderci, che obbliga i blog alla rettifica entro 48 ore, si realizzerebbe qualcosa di profondamente diverso dallo spirito di quel 23 dicembre 1997. Decisamente contrario al principio di una libertà da coniugare orizzontalmente, senza pregiudizi e senza briglie.
In pratica, si vorrebbero mettere sullo stesso piano la stampa professionale, fatta da quotidiani, siti specializzati, testate registrate, e un mondo che si trova esattamente ai suoi antipodi. Il mondo dei blog, di una rete libera e personale di opinioni, percezioni, sensazioni, sentimenti e idee che viene dal basso. Dalla base, dalla strada, dalle case, dalle persone, dal mondo. Quella roba, per intenderci, che Barack Obama ha capito bene come valorizzare e ascoltare. E da cui trarre spunti. Ma che dalle nostre parti si pensa invece a stanare, quasi fosse un pericoloso nemico di vecchi Politburo del passato. E per giunta con una legge dello Stato. Continuando a ingrassare così quella deriva che fa della paura del nuovo il proprio vessillo inconfutabile.
Questo non vuol dire che i blogger dovrebbero pretendere di avere una sorta di “licenza di offendere”, ci mancherebbe. Ma il comma in questione non entra per niente nel merito del problema (se di problema di può parlare), piuttosto lo elimina direttamente.
L’attentato alla libertà dei blog altro non fa se non confermare l’assoluta arretratezza cultural-legislativa del nostro paese, uni dei pochi ancora a non aver metabolizzato gli effetti e le straordinarie opportunità della rete. Ma perché internet fa così paura? Cosa provoca cotanto tremolìo nelle gambe dei nostri governanti? Forse la condivisione, la trasversalità delle opinioni, il confronto, i paragoni, le divergenze, le convergenze? O le domande?
Fa specie che tali preoccupazioni facciano capolino sui media proprio nei giorni in cui viene alla luce il Diario della guerra in Afghanistan, diffuso dal sito americano Wikileaks, con dettagli e notizie sul conflitto ancora in corso. C’è un qualcosa di macabro in tale contemporaneità: è come se il destino si divertisse a mettere a confronto le deficienze strutturali italiane, culturali, politiche, burocratiche, con l’imprevedibilità delle libertà di altri paesi. Buffo come nessun esecutivo democratico si sia sognato di proporre una legge così antidemocratica, almeno escludendo luoghi ancora off limits per la libertà, come Cina, Iran, o Corea.
Scriveva Pablo Neruda in Confesso che ho vissuto, uno che di libertà e di fughe per la libertà se ne intende, che i contadini e i pescatori del suo paese avevano dimenticato da tempo i nomi delle piccole piante, dei piccoli fiori che «adesso non hanno un nome. L’hanno dimenticato a poco a poco e lentamente i fiori han perso il loro orgoglio. Contadini e pescatori, minatori e contrabbandieri - continuava il poeta cileno, Nobel per la letteratura nel 1971 - hanno continuano a dedicarsi alla propria asprezza, alla continua morte e resurrezione dei loro doveri, delle loro sconfitte». Dimenticando di chiamare le piante con i loro nomi. Dimenticando che «accanto al fiore che muore, ecco un altro fiore titanico che nasce».
Ecco, sembra che a volte anche nella democratica Italia, quella per intenderci dove trionfano le emergenze perenni, i bunker per i grandi tavoli di concertazione e le tragiche psicosi, ecco proprio in quel paese sembra che ci si dimentichi di chiamare le piante con il proprio nome.
C’è una pianta, coloratissima, rigogliosa e dal profumo inebriante, che si chiama libertà. Beh, vale la pena di ricordare a chi scrive le leggi, che ogni tanto va innaffiata. Con acqua fresca, pura. E non relegata in una soffitta ad appassire mestamente.
Chi teme una società insofferente a dogmi precostituiti?

Da Ffwebmagazine del 27/07/10
E se fosse la lussuria, non solo semplicisticamente un vizio, ma vera forza dirompente della natura, a farci ritrovare una primavera culturale? E se fosse la lussuria, intesa come intimo desiderio di esplorazione e di apprendimento, quella combinazione ancora ignota per scardinare le casseforti dell’apatia e dell’abulia sociale che caratterizzano il primo decennio del secolo? E poi, può essere attuale la rappresentazione plastica di una figura come il Don Giovanni? Il teorema, tutt’altro che azzardato, è trattato nel volume Lussuria. La passione della conoscenza da Giulio Giorello, docente di Filosofia della Scienza all’università degli Studi di Milano, direttore della collana “Scienze ed idee” ed elzevirista per il Corriere della sera, ma anche sostenitore di un principio tanto elementare quanto poco applicato: quello del coraggio di contrattaccare, anziché solo di ripiegare. Di pensare liberamente, anziché di controllare la direzione del vento. Di preservare le idee, perché spesso hanno più forza delle cose.
Il libro percorre un doppio sentiero: il desiderio di giungere alla conoscenza, al sapere. Ed il raggiungimento interiore di quel traguardo, che poi è base indispensabile per forgiare una comunità aperta. Un viaggio all’indietro nel tempo e in personaggi assolutamente irripetibili, da dove spicca la profondità della lussuria, come emerge dai due punti di vista iniziali, quello della futurista Valentine de Saint-Point, e dell’esponente del primo femminismo liberale Harriet Taylor. Ovvero lussuria che non trascina nella strada del peccato, come apparso in scritti passati e in ragionamenti tragicamente religiocentrici. Bensì lume nella ricerca della ragione, spinta centrifuga che si affaccia sull’essenza delle cose e delle anime, molla che rende libere menti appannate dalla consuetudine.
Giorello cita figure inaspettate in questa sua cavalcata storico-letteraria, come i protagonisti delle epopee di un tempo: dai Sumeri agli Egizi, dai Greci ad Agostino d’Ippona (annoverato fra i padri della Chiesa). E poi Dante, Giordano Bruno, il rigorista Calvino che ha coniato lo stereotipo del libertino; tutti diventano compagni di viaggio di Giorello, accomunati da una vivacità elettrizzante, assieme ad una folta schiera di pittori, disegnatori di fumetti, scultori. L’autore, nel suo ventisettesimo libro, insinua il dubbio che forse il vero Don Giovanni potrebbe essere una donna. Perché ha un’energia unica, perché sprigiona molecole di vita. Noi lo conosciamo soprattutto attraverso la commedia di Molière e l’opera di Mozart, ma si tratta di un personaggio tutt’ora attuale, diventando oggi anche «oggetto di polemica politica». Come riflette l’autore, «egli ha la capacità di coniugare insieme sesso e potenza. È colui che non si stanca mai e viene schiacciato solo dal potere che vuole fermarlo». Don Giovanni è «un grande mito del mondo moderno, nato nella Spagna della post riforma e diventato universale». Un’icona multicolore nel grigiore della post modernità.
Natura, idee, strumenti: la libertà passa anche dagli spunti tecnologici. Quest’anno tra l’altro, ricorre l’anniversario dell’osservazione lunare fatta con il cannocchiale da Galileo. Giorello sostiene che le idee nella scienza sanno incarnarsi in congegni materiali, e diventano ancor più imprescindibili quando l’uomo, così come accade oggi, per comodità cede il proprio cervello ad altri che pensano al posto suo. E cede anche alla mistificazione delle realtà, dal momento che non ne comprende i contorni veritieri. E’ingannato, depistato, fuorviato. Per questo, definito da Giorello un “animale abitudinario”, l’uomo dovrà essere costretto gioco forza a ricominciare a pensare, anche per non farsi ammaliare dalla retorica scientista. Per capire, e perché no, per sopravvivere.
Chi teme la lussuria e la passione di sapere, dunque, teme una società aperta, libertaria, insofferente a dogmi precostituiti? Sì, se capace di discernere tra i mille prodotti preconfezionati che le vengono propinati, tra il tutto pronto e subito che appare nella vita quotidiana come uno spot pubblicitario martellante. Perché difficilmente influenzabile e controllabile, dotata di antenne indipendenti che ragionino con logica e buon senso sui mille scenari che si insinuano come fiumiciattoli carsici nelle esistenze di ognuno. Chi ha paura della libertà e di una conoscenza più diffusa e incoraggiata teme nient’altro che la continuazione di una specie umana diversa da quella animale, perché meno incline all’istinto della bava alla bocca e più vicina a esempi che hanno fatto grande il passato. Perché, come scriveva Pablo Neruda, «la vita è più forte e più testarda dei precetti».
E A BOLOGNA IL BASKET SI GIOCA TRA I LIBRI

Da Ffwebmagazine del 26/07/10
Nascondere, criptare, coprire. Quante volte nella storia passata governi e società passive hanno fatto di tutto per impedire conoscenza e idee? Sperando che la gente comune, quella che si incontra per strada, quella che è migliore di quanto si possa credere, non avesse abbastanza voglia di sapere. Di approfondire, di toccare con mano, di paragonare, di scoperchiare vecchi teloni e vedere cosa c’è sotto. E così da rimanere standardizzata e controllabile. Mansueta.
Scriveva Pablo Neruda nelle sue memorie che quando la stampa francese dette notizia della sua presenza a Parigi, il governo cileno si affrettò a bollare la notizia come falsa, si trattava semplicemente di un sosia. Allora Neruda ricordò che in una discussione se Shakespeare avesse scritto o meno le sue opere, Mark Twain aveva ironicamente notato: «Veramente non è stato Shakespeare a scrivere quelle opere ma un altro inglese, nato lo stesso giorno e la stessa ora, morto per giunta alla stessa data e che, per colmo di coincidenze, si chiamava anche lui William Shakespeare».
Lontani, per fortuna, i tempi in cui bisognava guardarsi negli occhi e dire: è un sosia. Lontani dalle nostre parti, perché purtroppo in molte zone del globo permangono ancora sacche di repressione culturale, di paura della rete, e dei giovani, come l’Onda iraniana testimonia. Ma il punto è un altro: davvero conviene continuare a ignorare come la risposta possibile alla domanda di una nuova primavera stia tutta in una cultura nuova? Che sia multilivello, multiforme, che parta dal basso, ma pur sempre cultura? E poi: chi l’ha detto, per scendere nella concretezza del quotidiano, che essa non possa essere predicata orizzontalmente?
Un esempio di come questa esigenza sia avvertita intimamente in più ambiti, viene dalle cronache sportive degli ultimi giorni. Il presidente della squadra di basket Virtus Bologna, Claudio Sabatini, ha deciso di inserire nei contratti dei suoi giocatori la cosiddetta clausola università: saranno preferiti giocatori sì forti, ma che scelgano di non interrompere gli studi, visto che a Bologna l'università è una delle migliori d'Italia. «Chi gioca in Virtus - ha detto - è obbligato a studiare anche perché io preferisco parlare con giovani acculturati». E ancora: «La nostra politica è questa, cominciammo qualche anno fa a premiare con la prima squadra chi andava bene a scuola». La risposta del nuovo acquisto Nicolò Martinoni non si è fatta attendere: «A Varese studiavo economia, ma ho lasciato. Qui a Bologna, dove c'è una storia quasi millenaria e un ateneo di primo livello e con tante possibilità, riprenderò. Ma non ho ancora deciso in quale facoltà. Credo che un giocatore possa giocare fino a 30-35 anni: dopo c'è bisogno di saper fare qualcos'altro».
Alla faccia dello stereotipo che accosta sport a non-conoscenza. Il seme è stato gettato, c’è chi si è precipitato a innaffiarlo. Significa che una volta aperto il pertugio, non tarderanno a spalancarsi altri buchi. Che squarceranno varchi, che vorranno dire la loro. Tutto sta a iniziare, poi il seguito verrà da solo. In questi giorni, per passare al calcio, il difensore della Juve e della Nazionale Giorgio Chiellini si è laureato in Economia. Due volte bravo, perché non è facile studiare e praticare professionalmente uno sport ad altissimi livelli. Ma il suo merito non è stato solo quello di essersi conquistato un titolo accademico, ma di aver compreso come la conoscenza non può essere aprioristicamente preclusa. E non mancano, negli ultimi due lustri, altri sportivi impegnati sui libri. Andrebbero solo stimolati a fare meglio, incoraggiati a non tirarsi indietro e non solo a fare canestro o a segnare gol importanti. Così come fatto dal presidente della Virtus Bologna.
Perché la cultura non è fine a se stessa, non serve solo a forgiare professionisti o ad arricchire curricula e percorsi formativi. Essa aiuta a comprendere, armonizza cittadini e cittadine, sostiene il progresso di una comunità, contribuisce allo sviluppo di interi Paesi. E poi apre le menti, plasma personalità, rafforza idee e prospettive. Insinua dubbi, provoca domande e curiosità. Come non ricordare le parole del filosofo norvegese Jobtein Gaarder: «Non devi mai piegarti davanti ad una risposta - ammoniva -. Una risposta è il tratto di strada che ti sei lasciato alle spalle. Solo una domanda può puntare oltre». Fare domande, e ancora altre, senza fermarsi. Anche a questo serve una cultura trasversale, senza lucchetti che la rendano irraggiungibile. Ma a patto di volerla veramente.
mercoledì 21 luglio 2010
Qualcuno ascolti Polanyi senza paura per il nuovo

Da Ffwebmagazine del 21/07/10
In Europa c’è un Paese che ha paura: non solo del terrorismo, della crisi economica, della scarsa natalità infantile, della diversità e delle minoranze. Ma anche del progresso e dei vantaggi derivanti dalle tecnologie. Il passaggio al digitale nel resto del mondo è visto come una straordinaria opportunità di sviluppo e di guadagni, ma in Italia no, perché si rischia addirittura di ottenere un mancato incasso per lo Stato di circa quattro miliardi di euro. Il cosiddetto “switchover” consentirà di liberare spazi nelle frequenze, in virtù del passaggio dall’analogico al digitale. Le porzioni di frequenze che si renderanno disponibili, quindi, verranno messe all’asta, per arricchire l’offerta e per migliorare l’intero sistema delle telecomunicazioni.
Gli Usa si sono mossi per tempo. Già da due anni hanno messo all’asta frequenze pari a venti miliardi di dollari. Pochi mesi fa è stata la volta della Germania, che ha offerto agli operatori telefonici alcune frequenze in precedenza occupate dalle tv, con un incasso complessivo di quattro miliardi e mezzo di euro per le casse dello Stato. Dunque il mercato si è improvvisamente aperto, sta all’intelligenza dei singoli Paesi non farsi sfuggire occasioni irripetibili come questa. Pare che in Italia le aste sulle frequenze non si vogliano fare. Ma come, verrebbe da chiedersi? Nell’anno della recessione e della rigida manovra economica, dove moltissime categorie produttive assistono a sforbiciate orizzontali, proprio in tale frangente l’erario si disinteressa di un guadagno così ingente? Sulla materia si va avanti a colpi di delibere emesse dall’Agcom.
Le reti nazionali ammontano complessivamente a 25, ottenute dalla tecnologia digitale. Di queste, 20 sono state assegnate di diritto a chi già possedeva le frequenze analogiche. Quindi 5 a Rai e Mediaset, 3 a Telecom Italia, e poi Europa7, ReteA e Telecapri. Le restanti 5, che rappresentano il “dividendo digitale interno”, sarebbero da assegnare a operatori televisivi alternativi, così come esplicitamente prescritto dall’Ue. E qui si riscontra l’anomalia tutta italiana, perché esse non verranno messe all’asta, bensì, come dichiarato da Corrado Calabrò, a capo dell’Agcom, saranno soggette a una procedura comparativa.
Una giuria, composta da membri del Governo, sceglierà in base a parametri “autonomamente definiti”.
Sembra che alla fine di questo procedimento, a decidere sarà il ministro per lo sviluppo economico, a oggi - dopo il caso Scajola - ancora nelle mani del presidente del Consiglio, che è praticamente proprietario di uno dei due maggiori poli televisivi nazionali. L’anomalia nostrana sta nel fatto che la procedura in questione non sarà allestita solo per nuovi operatori, ma estesa anche a Rai e Mediaset, che in questo modo potranno arricchire il proprio bagaglio con altre due di quelle cinque reti, ciascuna con la possibilità di diffondere sino a sei canali. E mantenendo così lo status quo antecedente all’ingresso sul mercato delle nuove tecnologie legate al digitale, dal momento che si rafforzerebbe inevitabilmente il vecchio duopolio. Escludendo di fatto nuovi soggetti. Il digitale, anziché essere un volano di novità, si potrebbe tramutare in un’occasione sprecata da tutti, Stato che non incassa e nuovi operatori che non vengono investiti di nuove opportunità. Continuando a ingrassare il ritardo tutto italiano nel cogliere le sfide della modernità, in questo caso tecnologica.
Ma non è tutto: perché sembra che da questa situazione siano stati esclusi gli operatori di telefonia, che avrebbero invece potuto utilizzare la porzione di banda larga resasi disponibile dal digitale, per portare internet mobile veloce lì dove in Italia ancora non c’è. Con lo scenario descritto, quelle regioni non potranno nemmeno migliorare il proprio strumento tecnologico, perché la banda che si è liberata verrà occupata dalle tv. È stato stimato che se in Italia, al netto di commi e di procedure delle varie autorità, si decidesse finalmente di mettere all’asta per gli operatori telefonici alcune porzioni di quel grande agglomerato di frequenze che si è liberato, lo Stato potrebbe incassare circa quattro miliardi di euro.
Ma a oggi sembra che questa prospettiva non entusiasmi i cassieri dello Stato, che in qualsiasi altro Paese del mondo farebbero l’impossibile per non farsi sfuggire una cifra del genere e un’occasione di sviluppo tecnologico simile. Diceva Michael Polanyi, «l’uomo è innovatore ed esploratore per natura»: ma chi lo ascolta da queste parti?
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