Da Ffwebmagazine el 18/06/09
Visi spenti e affranti, stereotipi consumati da bavagli imposti, telefoni muti, voci strozzate, cervelli in stand by. Quante volte ci siamo chiesti il perché di una società così “silenziata”? E quante volte ci siamo chiesti cosa fare per risvegliarla? Se ci sei batti un colpo, recitava la celebre frase di un film, e perché no, oggi quei colpi andrebbero battuti più volte, in mille modi, con mille voci, possibilmente chiare e determinate.
Nel tempo dell’equiparazione emozionale, dell’univocità di pensiero pericolosissima per la sopravvivenza delle menti, di certe dittature dei sogni, con format preconfezionati dal risultato scontato, una nuova ventata di freschezza potrebbe derivare proprio da una società rumorosa. Sì, rumorosa, che si preoccupa di gridare a squarciagola il proprio dissenso, capace di riempire nuovamente le piazze per testimoniare la propria solidarietà, il proprio sdegno, la propria condanna, o il proprio appoggio, la voglia di partecipare e di crogiuolarsi della propria esistenza sociale. Insomma, un paese nuovamente vivo che produce suoni e che finalmente fa rumore per qualcosa, e non solo per un goal della squadra del cuore. Vivo anche se la nazionale perde, come è successo ieri, in Sudafrica, contro l'Egitto.
E a proposito di Africa, Plinio il Vecchio ammoniva: «Dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo» e non sbagliava. Pare che a qualcuno sia dispiaciuto guardare in tivvù le partite della Confederation’s Cup perché disturbato da un particolare ronzio, simile a quello prodotto dalle zanzare. Non è il frutto del passaggio di qualche insetto, ma è l’originale e denso di significato risultato di uno strumento africano chiamato vuvuzela, da qualche tempo è amabilmente suonato negli stadi di calcio, dove se ne trovano di colorazioni differenti, a seconda della squadra di appartenenza.
Il suono rappresentava, secondo la tradizione, il soffio del loro Dio. Ma più recentemente lo strumento veniva utilizzato in occasione delle manifestazioni contro l’apartheid. Era il 16 giugno del 1976 e un gruppo di adolescenti a Soweto scese in piazza per dissentire da un’assurda disposizione della segregazione razziale causata dall’apartheid. In diecimila, suonando i vuvuzela, gridarono il loro no alle forze dell`ordine. Ne morirono centocinquantadue, e l`anno dopo altri settecento, così il governo fu costretto ad annullare l`insegnamento dell’africaans nelle scuole frequentate solo da neri. Fu un trionfo per il movimento anti apartheid.
Ma oggi chi ha paura dei vuvuzela? Forse la Fifa, che ne ha ostacolato l’uso durante le gare della Confederation’s Cup, per poi ammetterli con riserva. O forse alcuni gruppi formatisi su Facebook, che non hanno trovato di meglio da fare che occuparsi di uno strumento che, piaccia o no, è parte integrante del dna di un popolo e delle sue battaglie per la sopravvivenza e per questo, e solo per questo, va rispettato, senza facili ironie e sfottò assolutamente fuori luogo? Francamente quei gruppi, e perché no anche qualche dirigente della Fifa, avrebbero potuto dedicare qualche spicciolo in più del loro tempo a dissertare sulla malaria o sul virus dell’Hiv ancora corposamente presenti nell`intera regione, o su come manifestazioni sportive quali la Confederation’s Cup di questi giorni o il Mondiale di calcio del 2010, possano attirare l`attenzione su ben “altri” problemi locali.
«Non possiamo fare grandi cose – diceva Madre Teresa di Calcutta – possiamo fare piccole cose ma con grande cuore». Che vuvuzela sia, allora, che i cuori riprendano a battere non solo nelle gabbie toraciche dei singoli individui chiusi e repressi nelle proprie case, ammutoliti da un senso di costrizione improduttiva, che sferza gli animi, che chiude le casse di risonanza, che tappa le bocche e orecchie. No, servono invece cuori grandi e pronti a emettere suoni. E per favore, se avremo la fortuna di ascoltare nelle nostre strade e nelle nostre piazze il particolare suono di qualche vuvuzela, e se in quell’occasione il cretino di turno dovesse replicare infastidito, non abbiate timore: regalategliene una cassa, possibilmente multicolore.
"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
domenica 21 giugno 2009
domenica 14 giugno 2009
La casta vista dall'interno
da Ffwebmagazine del 14/06/09
Un piccolo manuale rivoluzionario per far indignare i lettori, nella consapevolezza che la questione etica deve trovare nuovamente e prepotentemente spazio in una politica che andrebbe ridisegnata ex novo. La definizione, che ha strappato il sorriso ad Aldo Forbice e a Giancarlo Mazzuca, è di Piero Sansonetti, l’occasione è la presentazione del volume I faraoni, altra panoramica sulle mille caste al potere, ma questa volta scritta dall’interno. E già, perché uno dei due autori, oltre che essere giornalista, è da un anno anche deputato.
«E allora? - risponde Mazzuca - proprio perché sono parte in causa posso meglio di altri evidenziare, da infiltrato, le discrepanze tra consulenze e produttività di chi le effettua, ma per favore smettiamola con la grande casta dei parlamentari e concentriamoci in quelle castine locali che pesano non poco sullo Stato». Eh sì, perché sfogliando il libro emergono dati sin qui inediti, estremamente interessanti per tipologia di stipendi e soprattutto per benefici postumi, che sono valsi già due querele agli autori, rei solo di aver pubblicato numeri pubblici.
Il pensiero corre ai presidenti della Corte Costituzionale, sovente eletti un attimo prima della pensione, a taluni assessori regionali che guadagnano anche più dei senatori, al Cnel (che in quattro anni di attività ha prodotto solo altrettante proposte di legge, tra l’altro bocciate e che pesa sulle casse dello Stato per 15 milioni annui), alla miriade di enti inutili, passando per due ambiti che potremmo definire nuovi, dal momento che nessuno fino a oggi vi aveva concentrato l’attenzione: il cinema e i quotidiani.
Secondo Aldo Forbice, da quindici anni voce di Zapping su Radio 1, il 90% delle pellicole realizzate con contributi pubblici, stando alle cifre, ha avuto un riscontro modestissimo al botteghino. Inoltre tre quotidiani nazionali che hanno ricevuto ben 48 milioni di finanziamento dallo Stato (ovvero Repubblica, Corriere della Sera e Sole 24 Ore) avrebbero dovuto invece confrontarsi esclusivamente con il mercato, senza usufruire di tali aiuti. Diverso il discorso per i giornali di partito, infatti, tra quelli iscritti ai contributi, oltre alle testate reali che fanno informazione politica, ve ne sono altre fittizie: «Chi nel tempo ha acquisito una testata - ha precisato Sansonetti - gode di quegli euro anche senza utilizzarla, siamo in presenza di veri e propri affaristi che con l’informazione non hanno nulla a che fare».
Ecco che le pagine de I faraoni innescano la miccia del dibattito sul senso della politica nostrana e non solo risalendo al classico e scontato canovaccio del “teniamo famiglia” di longanesiana memoria, ma piuttosto aprendo, come ha osservato il direttore del Secolo Luciano Lanna, un «problema di strati di responsabilità. L’idea weberiana di politica come professione non va demonizzata, e a questo punto mi chiedo come mai la questione stenti a decollare nell’opinione pubblica». Proprio la cittadinanza sta progressivamente metabolizzando pubblicazioni di questo tipo, è sufficiente analizzare il milione e mezzo di copie vendute da La Casta di Rizzo e Stella, passando per Il costo della democrazia di Salvi e Villone, ma affinché muti la percezione rispetto alla res publica occorre che l’anima di questo paese venga rivoltata come un calzino, facendo emergere quanto di buono e di limpido c’è.
Lanna ha poi citato Maometto II il quale, interrogato sul significato della politica, rispose che essa è quell’arte di costruire città e riempire di gioia il cuore della gente. Quindi sforzandosi di edificare e amministrare provvedendo anche alla qualità emozionale dei cittadini.
Cosa osta quindi a una riforma seria e condivisa che abbatta caste e castine, veri impacci alla democrazia moderna e funzionale? Magari iniziando proprio da norme che vietino il cumulo di più incarichi (deputati che sono anche sindaci o presidenti di province). Secondo Raffaele Iannuzzi, consigliere del ministro per i Beni Culturali, i vari riformisti nel tempo hanno giocato questo tipo di partita, cavalcando di volta in volta proposte e iniziative, dando prova provata che un cambiamento è istituzionalmente possibile. Perché una tale rivoluzione non ha seguito nei fatti? «Francamente non vedo gente per le strade che vuol prendere a forconate questa classe dirigente. La soluzione è un ritorno alla politica in quanto tale, legittimata da una sovranità popolare che ponga mano realmente a riforme simili».
Ma allora, se l’intero sistema andrebbe rifondato dalla base, sarebbe utile ripartire da un modo diverso di formare e selezionare la classe dirigente? Iannuzzi in questo senso richiama alla mente eventi lontani un ventennio: «La caduta del muro di Berlino ci ha detto che la fine delle ideologie ha generato un’ennesima ideologia. Con questa classe dirigente forse l’intelligenza politica si ferma. Storicamente non è mai esistita una classe che si sia autoriformata, ma è la storia che produce effetti sistemici».
Dovremo quindi attenderci eventi sovranaturali, o semplicemente auspicarci che, anche grazie a pubblicazioni come questa, un gruppo di parlamentari prenda finalmente il coraggio a due mani e avanzi una proposta di legge che almeno avrà il merito di rimanere ben impressa nella storia di questo paese.
Aldo Forbice e Giancarlo Mazzucca
I faraoni. Come le mille caste del potere pubblico stanno dissanguando l'Italia
Piemme
pp. 299, euro 17,50
Un piccolo manuale rivoluzionario per far indignare i lettori, nella consapevolezza che la questione etica deve trovare nuovamente e prepotentemente spazio in una politica che andrebbe ridisegnata ex novo. La definizione, che ha strappato il sorriso ad Aldo Forbice e a Giancarlo Mazzuca, è di Piero Sansonetti, l’occasione è la presentazione del volume I faraoni, altra panoramica sulle mille caste al potere, ma questa volta scritta dall’interno. E già, perché uno dei due autori, oltre che essere giornalista, è da un anno anche deputato.
«E allora? - risponde Mazzuca - proprio perché sono parte in causa posso meglio di altri evidenziare, da infiltrato, le discrepanze tra consulenze e produttività di chi le effettua, ma per favore smettiamola con la grande casta dei parlamentari e concentriamoci in quelle castine locali che pesano non poco sullo Stato». Eh sì, perché sfogliando il libro emergono dati sin qui inediti, estremamente interessanti per tipologia di stipendi e soprattutto per benefici postumi, che sono valsi già due querele agli autori, rei solo di aver pubblicato numeri pubblici.
Il pensiero corre ai presidenti della Corte Costituzionale, sovente eletti un attimo prima della pensione, a taluni assessori regionali che guadagnano anche più dei senatori, al Cnel (che in quattro anni di attività ha prodotto solo altrettante proposte di legge, tra l’altro bocciate e che pesa sulle casse dello Stato per 15 milioni annui), alla miriade di enti inutili, passando per due ambiti che potremmo definire nuovi, dal momento che nessuno fino a oggi vi aveva concentrato l’attenzione: il cinema e i quotidiani.
Secondo Aldo Forbice, da quindici anni voce di Zapping su Radio 1, il 90% delle pellicole realizzate con contributi pubblici, stando alle cifre, ha avuto un riscontro modestissimo al botteghino. Inoltre tre quotidiani nazionali che hanno ricevuto ben 48 milioni di finanziamento dallo Stato (ovvero Repubblica, Corriere della Sera e Sole 24 Ore) avrebbero dovuto invece confrontarsi esclusivamente con il mercato, senza usufruire di tali aiuti. Diverso il discorso per i giornali di partito, infatti, tra quelli iscritti ai contributi, oltre alle testate reali che fanno informazione politica, ve ne sono altre fittizie: «Chi nel tempo ha acquisito una testata - ha precisato Sansonetti - gode di quegli euro anche senza utilizzarla, siamo in presenza di veri e propri affaristi che con l’informazione non hanno nulla a che fare».
Ecco che le pagine de I faraoni innescano la miccia del dibattito sul senso della politica nostrana e non solo risalendo al classico e scontato canovaccio del “teniamo famiglia” di longanesiana memoria, ma piuttosto aprendo, come ha osservato il direttore del Secolo Luciano Lanna, un «problema di strati di responsabilità. L’idea weberiana di politica come professione non va demonizzata, e a questo punto mi chiedo come mai la questione stenti a decollare nell’opinione pubblica». Proprio la cittadinanza sta progressivamente metabolizzando pubblicazioni di questo tipo, è sufficiente analizzare il milione e mezzo di copie vendute da La Casta di Rizzo e Stella, passando per Il costo della democrazia di Salvi e Villone, ma affinché muti la percezione rispetto alla res publica occorre che l’anima di questo paese venga rivoltata come un calzino, facendo emergere quanto di buono e di limpido c’è.
Lanna ha poi citato Maometto II il quale, interrogato sul significato della politica, rispose che essa è quell’arte di costruire città e riempire di gioia il cuore della gente. Quindi sforzandosi di edificare e amministrare provvedendo anche alla qualità emozionale dei cittadini.
Cosa osta quindi a una riforma seria e condivisa che abbatta caste e castine, veri impacci alla democrazia moderna e funzionale? Magari iniziando proprio da norme che vietino il cumulo di più incarichi (deputati che sono anche sindaci o presidenti di province). Secondo Raffaele Iannuzzi, consigliere del ministro per i Beni Culturali, i vari riformisti nel tempo hanno giocato questo tipo di partita, cavalcando di volta in volta proposte e iniziative, dando prova provata che un cambiamento è istituzionalmente possibile. Perché una tale rivoluzione non ha seguito nei fatti? «Francamente non vedo gente per le strade che vuol prendere a forconate questa classe dirigente. La soluzione è un ritorno alla politica in quanto tale, legittimata da una sovranità popolare che ponga mano realmente a riforme simili».
Ma allora, se l’intero sistema andrebbe rifondato dalla base, sarebbe utile ripartire da un modo diverso di formare e selezionare la classe dirigente? Iannuzzi in questo senso richiama alla mente eventi lontani un ventennio: «La caduta del muro di Berlino ci ha detto che la fine delle ideologie ha generato un’ennesima ideologia. Con questa classe dirigente forse l’intelligenza politica si ferma. Storicamente non è mai esistita una classe che si sia autoriformata, ma è la storia che produce effetti sistemici».
Dovremo quindi attenderci eventi sovranaturali, o semplicemente auspicarci che, anche grazie a pubblicazioni come questa, un gruppo di parlamentari prenda finalmente il coraggio a due mani e avanzi una proposta di legge che almeno avrà il merito di rimanere ben impressa nella storia di questo paese.
Aldo Forbice e Giancarlo Mazzucca
I faraoni. Come le mille caste del potere pubblico stanno dissanguando l'Italia
Piemme
pp. 299, euro 17,50
giovedì 11 giugno 2009
QUANDO IL MURO CROLLO`PER FAR SGORGARE LA LIBERTA`
Da FFwebmagazine dell` 11/06/09
Muri di cemento, iconografia dei blocchi socio-culturali, impedimenti al libero scambio e alla condivisione, non solo a causa del filo spinato in sé , ma in virtù di quell’atmosfera di infertilità umana che ne scaturisce. Tra qualche mese si celebreranno i vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, e L’Europeo ha dato il via a un viaggio itinerante su quelle colonne di cemento armato, attraverso vite spezzate, unioni ritrovate e quotidiana convivenza con un universo contrapposto.
No, non si tratta del solito stucchevole revival di ciò che fu, intriso di quella inutile nostalgia dietrologica che spesso produce più danni che benefici. Ma attraverso reportage di illustri firme (Montanelli, Fallaci, Stille, Cancogni, Bocca, Vertone, Valentino, Monicelli, Pannunzio, Benedetti) corredati da memorabili servizi fotografici di Capa, Garrubba, Toscani, Fusar, si è inteso descrivere il muro e il mondo che determinò dal suo anno zero, da quando venne aperto il primo pertugio, a ritroso sino alle cause della guerra fredda, sotto il comune denominatore del concetto di libertà. “Il” concetto, l'elefteria, liberté, Freiheit, freedom, libertad, quell’affascinante e spericolata sensazione che fa vibrare le menti, volare i pensieri, spaziare le idee e gli animi in completa assenza di gravità.
Anche grazie a chi in quei frangenti ha respirato l’aria del muro, le sue polveri, le prime percezioni di gioia miste a incredulità e a voglia di ripartire. Ma cosa è stato il muro? Franco Venturini, firma del Corsera, intervenuto alla presentazione del numero speciale de L’Europeo al Goethe Institut assieme a Daniele Protti, lo ha scansionato in tre rappresentazioni. Ovvero un monumento alla prigione dei popoli («perche`impedisce il confronto e lo scambio tra le genti, di muri ce n’erano in tutto l’est»); all’isolamento economico («l’unica cosa che lo scavalcava erano le onde televisive, impossibile erigere un muro nell’aria. Fu un monumento all’autarchia sovietica che lo indebolì dal suo interno»); all’irriformabilità del sistema («impediva ai cittadini di vedere cosa ci fosse al di là del cemento, quali abiti indossassero, quali auto guidassero, quali e quante industrie meno inquinanti funzionassero»).
Tre elementi caratterizzanti che trovano la sintesi in un aspetto niente affatto secondario: gli studenti della Germania est scesero in piazza manifestando, evento che a Berlino est non si verificava dal '53 rammenta Venturini, in quei giorni e per i successivi tre mesi, inviato nella capitale. Fu uno choc per le istituzioni, che chiesero a Mosca di far muovere i trentamila uomini di stanza in Germania. Ma Berlino est non ebbe mai risposta, Gorbaciov si oppose a una prova di forza. «Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto - riflette Venturini - se l’uomo della Perestrojka avesse risposto da anziché niet, una guerra certa avrebbe avuto inizio».
È da quel niet che bisogna ripartire per comprendere l'essenza per nulla scontata del muro. Non solo storia, ideologie, culture che da quel momento subirono un incrocio e una fusione improvvisa e per tanto auspicata, ma vera e propria commistione umana, incontro salvifico, o ricongiungimento di un popolo in fondo sì diviso ma pur sempre in contatto metafisico. In un articolo del 1989 firmato da Saverio Vertone che vale la pena di riprendere, si percepisce il senso dell`apertura di quelle paratie: «e così dai buchi iniziali - si legge nel reportage apparso sul n.47 de L’Europeo - in principio cinque, poi sette, presto innumerevoli come le strade che univano e torneranno a unire i quartieri dell’antica capitale, insomma prima delle falle aperte, anzi delle chiuse alzate, e poi colabrodo del Muro, la Germania orientale ha cominciato a sprizzare, a sgorgare, a scorrere, a scrosciare nella Germania occidentale, vale a dire nell’unica Germania, nella vera Germania, nella Germania del passato e del futuro. E l’ha allagata. Ora le acque sono mescolate, la povertà sudamericana portata con dignità degli orientali e la ricchezza supereuropea, che nasconde una potenza tecnologica per il momento non ancora arrogante, degli occidentali si sono abbracciate e incastrate nell’immobilità dei motori. Non sarà facile separarle. Anzi, sarà impossibile».
Sprizzare, sgorgare, scorrere, scrosciare, tutti termini che concretizzano oltremodo il flusso di spostamento inclusivo non solo delle genti ma dei loro pensieri, delle paure, delle proposizioni future che quelle falle aperte hanno plasticamente incentivato e spronato alla concretizzazione. Sino ad allagare, con questo flusso imponente, il solo paese che ne rimaneva, l’unico alveo per le genti tedesche, la sola Germania unita. Il luogo del passato ma soprattutto del futuro, luogo di quella libertà che, diceva don Chisciotte della Mancia, «è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini».
Muri di cemento, iconografia dei blocchi socio-culturali, impedimenti al libero scambio e alla condivisione, non solo a causa del filo spinato in sé , ma in virtù di quell’atmosfera di infertilità umana che ne scaturisce. Tra qualche mese si celebreranno i vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, e L’Europeo ha dato il via a un viaggio itinerante su quelle colonne di cemento armato, attraverso vite spezzate, unioni ritrovate e quotidiana convivenza con un universo contrapposto.
No, non si tratta del solito stucchevole revival di ciò che fu, intriso di quella inutile nostalgia dietrologica che spesso produce più danni che benefici. Ma attraverso reportage di illustri firme (Montanelli, Fallaci, Stille, Cancogni, Bocca, Vertone, Valentino, Monicelli, Pannunzio, Benedetti) corredati da memorabili servizi fotografici di Capa, Garrubba, Toscani, Fusar, si è inteso descrivere il muro e il mondo che determinò dal suo anno zero, da quando venne aperto il primo pertugio, a ritroso sino alle cause della guerra fredda, sotto il comune denominatore del concetto di libertà. “Il” concetto, l'elefteria, liberté, Freiheit, freedom, libertad, quell’affascinante e spericolata sensazione che fa vibrare le menti, volare i pensieri, spaziare le idee e gli animi in completa assenza di gravità.
Anche grazie a chi in quei frangenti ha respirato l’aria del muro, le sue polveri, le prime percezioni di gioia miste a incredulità e a voglia di ripartire. Ma cosa è stato il muro? Franco Venturini, firma del Corsera, intervenuto alla presentazione del numero speciale de L’Europeo al Goethe Institut assieme a Daniele Protti, lo ha scansionato in tre rappresentazioni. Ovvero un monumento alla prigione dei popoli («perche`impedisce il confronto e lo scambio tra le genti, di muri ce n’erano in tutto l’est»); all’isolamento economico («l’unica cosa che lo scavalcava erano le onde televisive, impossibile erigere un muro nell’aria. Fu un monumento all’autarchia sovietica che lo indebolì dal suo interno»); all’irriformabilità del sistema («impediva ai cittadini di vedere cosa ci fosse al di là del cemento, quali abiti indossassero, quali auto guidassero, quali e quante industrie meno inquinanti funzionassero»).
Tre elementi caratterizzanti che trovano la sintesi in un aspetto niente affatto secondario: gli studenti della Germania est scesero in piazza manifestando, evento che a Berlino est non si verificava dal '53 rammenta Venturini, in quei giorni e per i successivi tre mesi, inviato nella capitale. Fu uno choc per le istituzioni, che chiesero a Mosca di far muovere i trentamila uomini di stanza in Germania. Ma Berlino est non ebbe mai risposta, Gorbaciov si oppose a una prova di forza. «Proviamo a immaginare che cosa sarebbe accaduto - riflette Venturini - se l’uomo della Perestrojka avesse risposto da anziché niet, una guerra certa avrebbe avuto inizio».
È da quel niet che bisogna ripartire per comprendere l'essenza per nulla scontata del muro. Non solo storia, ideologie, culture che da quel momento subirono un incrocio e una fusione improvvisa e per tanto auspicata, ma vera e propria commistione umana, incontro salvifico, o ricongiungimento di un popolo in fondo sì diviso ma pur sempre in contatto metafisico. In un articolo del 1989 firmato da Saverio Vertone che vale la pena di riprendere, si percepisce il senso dell`apertura di quelle paratie: «e così dai buchi iniziali - si legge nel reportage apparso sul n.47 de L’Europeo - in principio cinque, poi sette, presto innumerevoli come le strade che univano e torneranno a unire i quartieri dell’antica capitale, insomma prima delle falle aperte, anzi delle chiuse alzate, e poi colabrodo del Muro, la Germania orientale ha cominciato a sprizzare, a sgorgare, a scorrere, a scrosciare nella Germania occidentale, vale a dire nell’unica Germania, nella vera Germania, nella Germania del passato e del futuro. E l’ha allagata. Ora le acque sono mescolate, la povertà sudamericana portata con dignità degli orientali e la ricchezza supereuropea, che nasconde una potenza tecnologica per il momento non ancora arrogante, degli occidentali si sono abbracciate e incastrate nell’immobilità dei motori. Non sarà facile separarle. Anzi, sarà impossibile».
Sprizzare, sgorgare, scorrere, scrosciare, tutti termini che concretizzano oltremodo il flusso di spostamento inclusivo non solo delle genti ma dei loro pensieri, delle paure, delle proposizioni future che quelle falle aperte hanno plasticamente incentivato e spronato alla concretizzazione. Sino ad allagare, con questo flusso imponente, il solo paese che ne rimaneva, l’unico alveo per le genti tedesche, la sola Germania unita. Il luogo del passato ma soprattutto del futuro, luogo di quella libertà che, diceva don Chisciotte della Mancia, «è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini».
lunedì 8 giugno 2009
La politica e quella voglia di prendere il largo...
da Ffwebmagazine del 08/06/09
Tutti di nuovo in aula, la ricreazione è finita. Come non condividere il richiamo del vertice di Confindustria a mettere da parte la parentesi elettorale, per tornare “imprenditorialmente” a occuparci di progetti e cose concrete, spinti da quell’entusiasmo e da quella carica emozionale in assenza delle quali si forgiano cristalliere drammaticamente vuote, castelli principeschi dove all’interno troneggiano solitudine e rassegnazione. È un monito rivolto a un’ampia platea: alla classe politica, che si è intestardita in una campagna elettorale “incarognita”, volendo rammentare uno dei recenti epiteti quirinaleschi; alla stampa, a volte distratta da dibattiti fuorvianti e pericolosamente inutili; e forse anche ai cittadini, spesso trincerati dietro la comoda insussistenza di alcune istituzioni, che li legittima al disimpegno, “tanto va tutto male”.
La campanella che segna la ripresa delle lezioni, invece, è stata suonata al momento giusto da Emma Marcegaglia, che non a caso ha scelto il primo giorno utile per votare. Come dire, vi ho avvisati, tutti, altre ventiquattr’ore di tempo e poi basta. Basta al muro contro muro, basta con i manifesti sempre più offensivi e sempre meno comunicativi di qualcosa, basta con le tribune politiche urlate e insultate, basta con i comizi senza programmi, basta con lo screditamento automatico (la nuova frontiera del dibattito sprovvisto di idee, che prevede il divieto assoluto di fare proposte e pensare soluzioni, ma contempla l’obbligo del “no” a priori condito da una sana delegittimazione dell’avversario). Insomma, mettiamo un punto e voltiamo pagina.
Certo non sarebbe saggio mettere anacronisticamente in secondo piano la valenza di questa tornata elettorale, non solo interna, (con i risvolti equilibristici delle amministrative), ma soprattutto esterna ai confini nazionali, con il rinnovo di un Parlamento europeo finalmente munito di stipendi standard, dal momento che proprio l’Europa (ma anche questo lo si sente da anni) rappresenta un nodo cruciale per i destini delle singole economie. E qui sarebbe utile aprire una riflessione sul ruolo dell’istituzione comunitaria, sugli sforzi compiuti e da compiere per implementarne efficacia e risolutività. «L’Europa non è un tesoro che va scoperto - ammoniva Zygmunt Bauman - ma una statua che deve essere scolpita». Ma è un passo che andrà fatto assieme agli Stati membri.
Il punto adesso è che dalle Alpi a Pantelleria sembra si stia diffondendo uno strano virus, che affonda le menti e svilisce i cuori. Quello della campagna elettorale perenne, che dura dodici (e sovente anche tredici) mesi all’anno, nella quale proliferano slogan prestampati, promesse assurde, attenzioni improvvisate a dettagli insignificanti (come i blog di alcuni candidati, rigorosamente disabitati già dal giorno successivo alla proclamazione) e che non rappresentano un investimento né per la politica né per gli elettori. Semplicemente perché sono fasulli, vuoti, freddi, e non hanno invece al loro interno il seme germogliato della “buona politica”, quella viva, fresca, che progetta a lunga scadenza, che trasforma i boccioli in fiori rigogliosi, che forgia cervelli e anime sociali, che risponde “presente” alle esigenze sempre più cangianti di un paese desideroso di attenzioni ed effusioni vere.
Passione, quindi, e soprattutto voglia di rimettere in moto menti e idee, perché il paese non può nutrirsi esclusivamente di campagne elettorali, di contrapposizioni eterne figlie di bandiere e schieramenti. I problemi sul tavolo rimangono drammaticamente irrisolti. Gli ammortizzatori sociali spesso non sufficientemente efficaci, il fotovoltaico e l’eolico in colposo ritardo, i trasporti collassati e sotto la media europea, il Mediterraneo non sfruttato adeguatamente (dal punto di vista culturale ed economico), l’ambiente ancora sfregiato con il 40% di acqua dispersa dalla rete idrica. Appunti che non possono essere solo trascritti su programmi e dichiarazioni di agenzie, ma devono essere tradotti rapidamente in atti, potendo contare su iniziative forti, insomma volendolo veramente.
«Se vuoi costruire un’imbarcazione non preoccuparti tanto di distribuire il lavoro tra gli uomini, vedi piuttosto di risvegliare in loro la voglia del mare», diceva De Saint- Exupery. Beh, l’auspicio è che dal prossimo martedì, a urne svuotate e a schede finalmente scrutinate, la “voglia del mare” ritorni al centro del dibattito e non in attesa che giunga, come un invitato sgradito, la prossima campagna elettorale (ricordiamo che tra un anno esatto ci sono le regionali), ma per rimettere in moto un sistema che procede a singhiozzo e che non è scansionato da quei rintocchi che servono realmente, ovvero obiettivi da raggiungere e progetti da realizzare.
Tutti di nuovo in aula, la ricreazione è finita. Come non condividere il richiamo del vertice di Confindustria a mettere da parte la parentesi elettorale, per tornare “imprenditorialmente” a occuparci di progetti e cose concrete, spinti da quell’entusiasmo e da quella carica emozionale in assenza delle quali si forgiano cristalliere drammaticamente vuote, castelli principeschi dove all’interno troneggiano solitudine e rassegnazione. È un monito rivolto a un’ampia platea: alla classe politica, che si è intestardita in una campagna elettorale “incarognita”, volendo rammentare uno dei recenti epiteti quirinaleschi; alla stampa, a volte distratta da dibattiti fuorvianti e pericolosamente inutili; e forse anche ai cittadini, spesso trincerati dietro la comoda insussistenza di alcune istituzioni, che li legittima al disimpegno, “tanto va tutto male”.
La campanella che segna la ripresa delle lezioni, invece, è stata suonata al momento giusto da Emma Marcegaglia, che non a caso ha scelto il primo giorno utile per votare. Come dire, vi ho avvisati, tutti, altre ventiquattr’ore di tempo e poi basta. Basta al muro contro muro, basta con i manifesti sempre più offensivi e sempre meno comunicativi di qualcosa, basta con le tribune politiche urlate e insultate, basta con i comizi senza programmi, basta con lo screditamento automatico (la nuova frontiera del dibattito sprovvisto di idee, che prevede il divieto assoluto di fare proposte e pensare soluzioni, ma contempla l’obbligo del “no” a priori condito da una sana delegittimazione dell’avversario). Insomma, mettiamo un punto e voltiamo pagina.
Certo non sarebbe saggio mettere anacronisticamente in secondo piano la valenza di questa tornata elettorale, non solo interna, (con i risvolti equilibristici delle amministrative), ma soprattutto esterna ai confini nazionali, con il rinnovo di un Parlamento europeo finalmente munito di stipendi standard, dal momento che proprio l’Europa (ma anche questo lo si sente da anni) rappresenta un nodo cruciale per i destini delle singole economie. E qui sarebbe utile aprire una riflessione sul ruolo dell’istituzione comunitaria, sugli sforzi compiuti e da compiere per implementarne efficacia e risolutività. «L’Europa non è un tesoro che va scoperto - ammoniva Zygmunt Bauman - ma una statua che deve essere scolpita». Ma è un passo che andrà fatto assieme agli Stati membri.
Il punto adesso è che dalle Alpi a Pantelleria sembra si stia diffondendo uno strano virus, che affonda le menti e svilisce i cuori. Quello della campagna elettorale perenne, che dura dodici (e sovente anche tredici) mesi all’anno, nella quale proliferano slogan prestampati, promesse assurde, attenzioni improvvisate a dettagli insignificanti (come i blog di alcuni candidati, rigorosamente disabitati già dal giorno successivo alla proclamazione) e che non rappresentano un investimento né per la politica né per gli elettori. Semplicemente perché sono fasulli, vuoti, freddi, e non hanno invece al loro interno il seme germogliato della “buona politica”, quella viva, fresca, che progetta a lunga scadenza, che trasforma i boccioli in fiori rigogliosi, che forgia cervelli e anime sociali, che risponde “presente” alle esigenze sempre più cangianti di un paese desideroso di attenzioni ed effusioni vere.
Passione, quindi, e soprattutto voglia di rimettere in moto menti e idee, perché il paese non può nutrirsi esclusivamente di campagne elettorali, di contrapposizioni eterne figlie di bandiere e schieramenti. I problemi sul tavolo rimangono drammaticamente irrisolti. Gli ammortizzatori sociali spesso non sufficientemente efficaci, il fotovoltaico e l’eolico in colposo ritardo, i trasporti collassati e sotto la media europea, il Mediterraneo non sfruttato adeguatamente (dal punto di vista culturale ed economico), l’ambiente ancora sfregiato con il 40% di acqua dispersa dalla rete idrica. Appunti che non possono essere solo trascritti su programmi e dichiarazioni di agenzie, ma devono essere tradotti rapidamente in atti, potendo contare su iniziative forti, insomma volendolo veramente.
«Se vuoi costruire un’imbarcazione non preoccuparti tanto di distribuire il lavoro tra gli uomini, vedi piuttosto di risvegliare in loro la voglia del mare», diceva De Saint- Exupery. Beh, l’auspicio è che dal prossimo martedì, a urne svuotate e a schede finalmente scrutinate, la “voglia del mare” ritorni al centro del dibattito e non in attesa che giunga, come un invitato sgradito, la prossima campagna elettorale (ricordiamo che tra un anno esatto ci sono le regionali), ma per rimettere in moto un sistema che procede a singhiozzo e che non è scansionato da quei rintocchi che servono realmente, ovvero obiettivi da raggiungere e progetti da realizzare.
venerdì 5 giugno 2009
Contro gli amarcord, provvediamo alla “fame futura”

Da Ffwebmagazine del 05/06/09
«L’uomo - diceva Hobbes - a differenza dell’animale provvede anche per la fame futura», testimoniando una sua propensione naturale al nuovo e all’innovativo. Sembra però che negli ultimi tempi si sia imboccata una certa inclinazione al conservatorismo in taluni ambiti, che non può che suscitare perplessità e punti interrogativi mentali, se rapportato alle esigenze cangianti e moderne. C’è forse chi ha paura del domani e di quello che le scelte di oggi potrebbero determinare? Magari fosse così, almeno vorrebbe significare l’esistenza di un minimo di programmazione e di lungimiranza, che al momento latita.
Sembra invece che da più parti si inneschi il messaggio del voler vivere alla giornata, concedendosi il lusso estremo di riprendere di tanto in tanto spunti e costumi del passato.Colpa delle paure dettate da un’inclinazione all’incertezza e da una congiuntura di eventi che tolgono il senso dell’orientamento? Può darsi, ma forse c’è da chiedersi come mai in un frangente di difficoltà si preferisca ripiegare nelle retrovie, o per usare una metafora calcistica difendere lo zero a due in casa, così da evitare una debâcle.
È questa la strada da seguire? È in queste insenature decisionali che si scopre l’uovo di Colombo che consente di attaccare il domani, magari cercando anche di vincerlo? No, non sarà la difesa a oltranza del recinto che indurrà all’ottimismo, non sarà per merito di qualche conquista passata che si otterrà un’iniezione di energia utile per progredire.Tutt’intorno si registra un pullulare di rivisitazioni, ricordi, frammenti, manifestazioni legate a ieri e non a dopodomani. Ad esempio, è sufficiente scorrere i programmi estivi di alcuni Comuni italiani che riservano, giustamente, grande attenzione a eventi lontani nel tempo, senza però manifestare eguale sforzo (in termini di iniziative) per pensare a come sarà quella stessa comunità fra cinquant’anni.
Medesimo scenario in alcuni accadimenti legati ai costumi della società, che rischia di ergersi a paladina del falso amarcord, così come annotato sul Corriere Magazine da Isabella Bossi Fedrigotti, ovvero il buontempo andato che sembra oggi più in auge: la messa in latino proposta dalla Chiesa, il dialetto tanto caro alla Lega che la compagine padana vorrebbe prepotentemente inserire come materia di studio, la moda che rispolvera gli anni Quaranta, addirittura la cucina che si impantana nella rievocazione stucchevole dei metodi che furono. E si potrebbero aggiungere le rivisitazioni metodologiche dell’insegnamento e tanto altro. Sì, ma poi? E le proposte? Le iniziative? Le scoperte? Le nuove immaginazioni?
Tutte testimonianze care di un’Italia passata, della società di ieri, di un mondo che non c’è e che non ritornerà, che ci piaccia o no. Il punto è focalizzare attentamente quella sottile linea tracciata dalla storia e dai modi di essere. Le conquiste, i diritti acquisiti, le peculiarità dei singoli appartengono al bagaglio socio culturale e come tale devono essere giustamente metabolizzati, ma non quotidianamente richiamati alla mente per declinare le scelte future.
Perché si rischierebbe di perdere di vista i parametri di attuazione reale di quelle scelte. Oggi è irrinunciabile interrogarsi sulla mancanza di una declinazione futura, che invece sarebbe auspicabile semplicemente perché senza di essa si rimarrebbe fuori da tutto.La spinta al domani, scavalcando gli steccati, gettando ponti anziché erigere barriere, sarà inoltre tanto più utile se sarà concepita in una fase difficile come questa, in quanto è proprio nei momenti bui che si accende quella fiamma propulsiva che si rileva utile per guardare avanti.
Diceva il Generale De Gaulle «lasciate che gli eventi si rivelino difficili, il danno incombente, che la salvezza generale richieda improvvisamente una iniziativa. Una sorta di onda di marea spingerà in primo piano l’uomo di carattere». Quante volte abbiamo riflettuto su cause ed effetti della crisi economica, su una società che vede sempre allontanarsi la meritocrazia, su una classe dirigente sovente distratta e propensa all’autocelebrazione? Senza però fare uno sforzo vero per andare oltre quegli stessi stereotipi di cui non ci fidiamo e che vorremmo cambiare. È questo il momento buono per compiere una maturazione globale, e non solo all’interno delle classi dirigenti e degli addetti ai lavori, ma anche all’interno del sentire comune dei cittadini. Che ogni giorno si trovano prigionieri in una sorta di limbo surreale, in sospeso tra un passato sterile e un presente spesso fasullo.
Il sociologo francese Maffesoli solo pochi giorni fa ammoniva che «la nostra specie animale dovrebbe reperire parole pertinenti per dire ciò che pensa». Chiaro il riferimento a uno stato umano sprovvisto della modalità di esprimere correttamente emozioni, sensazioni, paure, sogni, sempre più distratti o forse colpevolmente rifugiati in quella modernità apparente che produce un universo fasullo, come i reality, la tv spazzatura, certi falsi miti, dopo quali gli uomini si ritrovano a fare i conti con se stessi e con i propri errori.
Per questo bisognerebbe riempire di contenuti innovativi i contenitori di oggi, preparandoli a contenere i contenuti di domani.E vale la pena di citare una frase di Bob Dylan: «Essere giovani significa tenere aperto l’oblò della speranza anche quando il mare è cattivo e il cielo si è stancato di essere azzurro».
Menti e animi giovani servono a questo paese, per guardare oltre, per liberarsi non del proprio bagaglio storico e culturale che ormai appartiene al dna di ognuno di noi, ma per staccarsi da concezioni vecchie e stantìe che, avvitandosi pericolosamente su se stesse, evitano accuratamente di lasciare che i pensieri corrano al domani, che le idee si riproducano in una libertà feconda e funzionale, che le professionalità si concentrino sulle nuove scoperte, insomma che gli uomini provvedano «alla fame futura».
martedì 26 maggio 2009
SCIASCIA, UNA VOCE CIVILE
« Una grande coscienza e voce civile del Paese », un rappresentante di ‘quei’ valori civici. L`epiteto che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha rivolto alla figura di Leonardo Sciascia in occasione della sua visita a Racalmuto, testimonia la stima e la considerazione verso una voce libera e vivace, focalizzandone il pregio dell`etica con il preciso riferimento a La scomparsa di Majorana.
Visitando la sede della Fondazione Sciascia, il Capo dello Stato ha operato una sorta di pellegrinaggio in luoghi e ricordi non solo dello scrittore ma anche personali. L‘occasione e`una lettera che Napolitano invio’ all`autore il 5 marzo del ’75, all`indomani della polemica sulla teoria circa la scomparsa del fisico italiano allievo di Enrico Fermi, nella quale esprimeva « grande interesse e adesione, oltre che vero godimento » per la lettura del volume.
Ma e` il fattore etico che e’stato rimarcato piu`degli altri in quella Sicilia della ragione, dove ogni passo era ricamato da sagge e profonde menti, rari esempi di sensibilita` artistica, di cui Sciascia ha lasciato ampie testimonianze. « Ce ne ricorderemo di questo pianeta », rifletteva, concentrando i propri sforzi sull`indagine di quella piazza isolana, si`ebbra di contraddizioni ed ambiguita` (si veda La corda pazza 1970) ma anche capace di contenere al suo interno la forza razionalizzante di una terra che e’stata al centro degli studi di Sciascia, si puo`dire, senza sosta.
Quella coscienza e quella voce civile del Paese (che ha firmato tra gli altri l’Affaire Moro, Nero su nero, Il Contesto, I pugnalatori,) ha segnato un punto di riferimento vero e veritiero circa un modo di condurre indagini e analisi, circa una visione d’insieme della sicilitudine, apprezzata in un legame intenso che Sciascia aveva con Pirandello, il quale fra le righe di Berretto a sonagli, cogitava sul fatto che ogni uomo possiede nella propria mente tre corde di orologio : una civile, una seria ed una pazza.
Nel 1975 pubblico` La scomparsa di Majorana, ovvero una ricerca teorizzata sulla scomparsa del fisico siciliano avvenuta nel 1938, che lo stesso Enrico Fermi paragonava per genialita` e spirito intuitivo a Newton o Galilei.
Sciascia fondo`il suo romanzo sulla retromarcia etica che Majorana innesto`, basata su una volontaria e consapevole fuga dal mondo e dai possibili e terribli sviluppi della tecnologia, con esplicito riferimento alla bomba atomica. Uno scenario nel quale ancora una volta la Sicilia con i suoi ermetismi, non rappresentava certo solo una semplice cornice ambientale, ma era parte integrante di quelle scelte e di quei ragionamenti, un minimo comun denominatore socio-culturale onnipresente. Sciascia e`probabile che in Majorana individuasse il senso di indipendenza dell`individuo, padrone del proprio agire e della propria mente, libero di effettuare le proprie scelte anche in antitesi rispetto a richieste o aspirazioni degli altri individui.
« Credo sia giusto e necessario risollevare con forza in tutte le forme- scriveva di suo pugno Giorgio Napolitano in quella missiva ritrovata da un nipote dello scrittore, Vito Catalano - la questione della responsabilita`dello scienziato,oltre che delle classi dirigenti, dei poteri pubblici e delle diverse forze sociali, per l`orientamento della scienza e per l`uso delle sue conquiste ». Ovvero quel rapporto tra ricerca scientifica e potere che Brecht illustrava nella commeda Vita di Galileo (1938), con particolare riferimento alla sottile linea che intercorre tra cultura nascente e cultura governativa.
Napolitano sentiva quindi il bisogno di « dover richiamare i rischi di regressione che la rivoluzione tecnico-scientifica comporta in assenza di un controllo sociale sullo sviluppo », maturando l`esigenza di dover necessariamente provvedere ad una « regolazione consapevole, nell`interesse della collettivita` ». Due accenni, diretti ed inequivocabili ad altrettanti concetti fondanti e attualissimi, ovvero quel controllo sociale che impedisca stravolgimenti e storture, e soprattutto una visione improntata all`interesse comune piuttosto che del singolo.
Una lezione di democrazia, approfondita e raffinata, datata piu`di trent`ani fa che oggi sarebbe utile tenere bene a mente allorquando le differenti sfide del quotidiano impongono scelte e valutazioni. Per la collettivita`.
Visitando la sede della Fondazione Sciascia, il Capo dello Stato ha operato una sorta di pellegrinaggio in luoghi e ricordi non solo dello scrittore ma anche personali. L‘occasione e`una lettera che Napolitano invio’ all`autore il 5 marzo del ’75, all`indomani della polemica sulla teoria circa la scomparsa del fisico italiano allievo di Enrico Fermi, nella quale esprimeva « grande interesse e adesione, oltre che vero godimento » per la lettura del volume.
Ma e` il fattore etico che e’stato rimarcato piu`degli altri in quella Sicilia della ragione, dove ogni passo era ricamato da sagge e profonde menti, rari esempi di sensibilita` artistica, di cui Sciascia ha lasciato ampie testimonianze. « Ce ne ricorderemo di questo pianeta », rifletteva, concentrando i propri sforzi sull`indagine di quella piazza isolana, si`ebbra di contraddizioni ed ambiguita` (si veda La corda pazza 1970) ma anche capace di contenere al suo interno la forza razionalizzante di una terra che e’stata al centro degli studi di Sciascia, si puo`dire, senza sosta.
Quella coscienza e quella voce civile del Paese (che ha firmato tra gli altri l’Affaire Moro, Nero su nero, Il Contesto, I pugnalatori,) ha segnato un punto di riferimento vero e veritiero circa un modo di condurre indagini e analisi, circa una visione d’insieme della sicilitudine, apprezzata in un legame intenso che Sciascia aveva con Pirandello, il quale fra le righe di Berretto a sonagli, cogitava sul fatto che ogni uomo possiede nella propria mente tre corde di orologio : una civile, una seria ed una pazza.
Nel 1975 pubblico` La scomparsa di Majorana, ovvero una ricerca teorizzata sulla scomparsa del fisico siciliano avvenuta nel 1938, che lo stesso Enrico Fermi paragonava per genialita` e spirito intuitivo a Newton o Galilei.
Sciascia fondo`il suo romanzo sulla retromarcia etica che Majorana innesto`, basata su una volontaria e consapevole fuga dal mondo e dai possibili e terribli sviluppi della tecnologia, con esplicito riferimento alla bomba atomica. Uno scenario nel quale ancora una volta la Sicilia con i suoi ermetismi, non rappresentava certo solo una semplice cornice ambientale, ma era parte integrante di quelle scelte e di quei ragionamenti, un minimo comun denominatore socio-culturale onnipresente. Sciascia e`probabile che in Majorana individuasse il senso di indipendenza dell`individuo, padrone del proprio agire e della propria mente, libero di effettuare le proprie scelte anche in antitesi rispetto a richieste o aspirazioni degli altri individui.
« Credo sia giusto e necessario risollevare con forza in tutte le forme- scriveva di suo pugno Giorgio Napolitano in quella missiva ritrovata da un nipote dello scrittore, Vito Catalano - la questione della responsabilita`dello scienziato,oltre che delle classi dirigenti, dei poteri pubblici e delle diverse forze sociali, per l`orientamento della scienza e per l`uso delle sue conquiste ». Ovvero quel rapporto tra ricerca scientifica e potere che Brecht illustrava nella commeda Vita di Galileo (1938), con particolare riferimento alla sottile linea che intercorre tra cultura nascente e cultura governativa.
Napolitano sentiva quindi il bisogno di « dover richiamare i rischi di regressione che la rivoluzione tecnico-scientifica comporta in assenza di un controllo sociale sullo sviluppo », maturando l`esigenza di dover necessariamente provvedere ad una « regolazione consapevole, nell`interesse della collettivita` ». Due accenni, diretti ed inequivocabili ad altrettanti concetti fondanti e attualissimi, ovvero quel controllo sociale che impedisca stravolgimenti e storture, e soprattutto una visione improntata all`interesse comune piuttosto che del singolo.
Una lezione di democrazia, approfondita e raffinata, datata piu`di trent`ani fa che oggi sarebbe utile tenere bene a mente allorquando le differenti sfide del quotidiano impongono scelte e valutazioni. Per la collettivita`.
venerdì 22 maggio 2009
La postmodernità e la saturazione del mito del progresso
Da Ffwebmagazine del 22/05/09
Tornare alla dimensione organica, alla koinè aistesis, dove il senso comune sia bene supremo e dove non sia più l’individuo che pensi da monocefalo, ma il gruppo pensi nella sua interezza utilizzando tutti i sensi. È nella conclusione del suo intervento che Michel Maffesoli riserva la ricetta per affrontare le sfide sociali che il domani, anzi l’oggi, ci propone.
Il sociologo francese, teorico del neotribalismo, docente di scienze umane alla Sorbona, è stato ospite di una conferenza organizzata da Farefuturo in occasione dell'uscita dei volumi Icone d'oggi. I nostri idoli postmoderni (Sellerio editore) e La trasfigurazione del politico. L'effervescenza dell'immaginario postmoderno (Bevivino editore). Al centro della scena, gli idoli quotidiani, ovvero quelle icone della postmodernità nella politica e non solo, alla presenza di Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma, Giuliano da Empoli, sociologo ed editorialista del Sole 24 ore e Angelo Mellone, editorialista del Giornale e direttore editoriale di Farefuturo. Maffesoli sostiene che la modernità sia scomparsa, ha precisato Mellone introducendo il tema, utilizzando la metafora del ritorno dell’emozione. Ne è testimonianza il fatto che nella politica di oggi risultino vincenti leader carismatici che fondano sull’originalità il proprio rapporto con l’elettorato.
Ma che cos’è la postmodernità secondo Maffesoli? Non possiamo più pensare a una società con una dicotomizzazione così come è stato fatto sino a oggi. Nietzsche sosteneva che la vera rivoluzione sta nei passi dei colombi, ovvero in quegli elementi che sembrano in apparenza secondari ma nei quali invece risultano sedimentati i veri cambiamenti e che animano il popolo e il suo modo di approcciarsi alla convivenza comune. Su questa procedura analitica si basa la tecnologia, ha puntualizzato il sociologo, e la postmodernità è da definirsi come «la congiunzione di cose che non c’erano».
Inoltre non bisogna sottovalutare un dato: ci troviamo in una fase di saturazione del mito del progresso. L’analisi poggia sul fatto che Maffesoli intende cogitare su «quali siano le vene sotterranee che animano la società», per questo si chiede: cos’è un uomo che non ha più ombra? Forse, sostiene, alla fine della corsa vi è questa concezione schizofrenica del mondo, in virtù della quale egli propone nel suo libro un viaggio itinerante nelle icone di oggi, da Henry Potter a Zidane, da Che Guevara all’Abbé Pierre. «La postmodernità nascente - riflette il docente della Sorbona, impegnato sei mesi l’anno in seminari in giro per il mondo e gli altri mesi nel suo rifugio di montagna dal quale firma i suoi libri - si comprende confrontando l’oggi con il quarto secolo a Roma, quello che definiamo Tarda Antichità, ma che invece dovremmo più volgarmente chiamare Decadenza romana. Il paradosso assoluto, dunque, sta nella sinergia tra arcaico e tecnologia, tra icone e internet. Il vero nodo del pensiero è di essere paradossale».
Ma il primo paradosso è, secondo Giuliano da Empoli, che Masseroli viva in Francia e non in Italia, dal momento che proprio Oltralpe si trova il luogo «maggiormente contestato dell’illuminismo, aggrappato con le unghie a questa icona della modernità». Il fatto che egli sia un apolitico, quasi un anarchico, secondo da Empoli, offre la cifra del suo modo unico e assolutamente calzante di spiegare la politica meglio di quanto non facciano i politologi stessi. In questo risiede la sua concezione ad esempio di Nicolas Sarkozy, interprete di una visione ludica della politica, legata a doppia mandata, non al programma governativo lontano nel tempo, ma al suo modus personale di oggi, del quotidiano più vicino, permeato di elementi tangibili con i quali si mostra vivo all’elettorato.
Croppi però non condivide la visione di Maffesoli secondo la quale la scissione del pensiero si vada pian piano ricomponendo, «dal momento che proprio in questa fase storica che ha nella crisi la sua protagonista indiscussa, vi è la concreta possibilità data alle élite di portare la politica lì dove per molto tempo è stata assente». Rimane il problema di cosa fare e come farlo, sostiene l’assessore alla Cultura della Giunta Alemanno, perché è innegabile che «viviamo una fase di passaggio in cui si è chiusa una forma del pensiero ma noi abbiamo la possibilità di ricostruirla ex novo, producendo un pensiero che non solo interpreti, ma sia autore di questa modificazione in atto».
Il finale è tutto riservato alla crisi economica che, secondo Masseroli, nella evoluzione sociale, dovrebbe incentivare il ritorno delle élite alla realtà, dal momento che a oggi esse si sono drammaticamente disconnesse, vivendo una sorta di limbo parallelo. Inoltre «la nostra specie animale dovrebbe reperire parole pertinenti per dire ciò che pensa», facendo riferimento a una corteccia di uomini a cui manca forse la modalità di esprimere correttamente emozioni, sensazioni, paure, sogni, avviluppati in quella modernità che sovente crea un universo fasullo, come i reality, la tv spazzatura, certi falsi miti, al termine dei quali (perché tali rappresentazioni hanno più di altre una fine) la società si ritrova sola e spaesata, a fare i conti con se stessa e con i propri errori, nella consapevolezza che solo con una visione legata al collettivo sarà possibile, o meglio, più utile, reperire una voce univoca per esprimersi e per godere di “quel” bene comune.
Tornare alla dimensione organica, alla koinè aistesis, dove il senso comune sia bene supremo e dove non sia più l’individuo che pensi da monocefalo, ma il gruppo pensi nella sua interezza utilizzando tutti i sensi. È nella conclusione del suo intervento che Michel Maffesoli riserva la ricetta per affrontare le sfide sociali che il domani, anzi l’oggi, ci propone.
Il sociologo francese, teorico del neotribalismo, docente di scienze umane alla Sorbona, è stato ospite di una conferenza organizzata da Farefuturo in occasione dell'uscita dei volumi Icone d'oggi. I nostri idoli postmoderni (Sellerio editore) e La trasfigurazione del politico. L'effervescenza dell'immaginario postmoderno (Bevivino editore). Al centro della scena, gli idoli quotidiani, ovvero quelle icone della postmodernità nella politica e non solo, alla presenza di Umberto Croppi, assessore alla Cultura del Comune di Roma, Giuliano da Empoli, sociologo ed editorialista del Sole 24 ore e Angelo Mellone, editorialista del Giornale e direttore editoriale di Farefuturo. Maffesoli sostiene che la modernità sia scomparsa, ha precisato Mellone introducendo il tema, utilizzando la metafora del ritorno dell’emozione. Ne è testimonianza il fatto che nella politica di oggi risultino vincenti leader carismatici che fondano sull’originalità il proprio rapporto con l’elettorato.
Ma che cos’è la postmodernità secondo Maffesoli? Non possiamo più pensare a una società con una dicotomizzazione così come è stato fatto sino a oggi. Nietzsche sosteneva che la vera rivoluzione sta nei passi dei colombi, ovvero in quegli elementi che sembrano in apparenza secondari ma nei quali invece risultano sedimentati i veri cambiamenti e che animano il popolo e il suo modo di approcciarsi alla convivenza comune. Su questa procedura analitica si basa la tecnologia, ha puntualizzato il sociologo, e la postmodernità è da definirsi come «la congiunzione di cose che non c’erano».
Inoltre non bisogna sottovalutare un dato: ci troviamo in una fase di saturazione del mito del progresso. L’analisi poggia sul fatto che Maffesoli intende cogitare su «quali siano le vene sotterranee che animano la società», per questo si chiede: cos’è un uomo che non ha più ombra? Forse, sostiene, alla fine della corsa vi è questa concezione schizofrenica del mondo, in virtù della quale egli propone nel suo libro un viaggio itinerante nelle icone di oggi, da Henry Potter a Zidane, da Che Guevara all’Abbé Pierre. «La postmodernità nascente - riflette il docente della Sorbona, impegnato sei mesi l’anno in seminari in giro per il mondo e gli altri mesi nel suo rifugio di montagna dal quale firma i suoi libri - si comprende confrontando l’oggi con il quarto secolo a Roma, quello che definiamo Tarda Antichità, ma che invece dovremmo più volgarmente chiamare Decadenza romana. Il paradosso assoluto, dunque, sta nella sinergia tra arcaico e tecnologia, tra icone e internet. Il vero nodo del pensiero è di essere paradossale».
Ma il primo paradosso è, secondo Giuliano da Empoli, che Masseroli viva in Francia e non in Italia, dal momento che proprio Oltralpe si trova il luogo «maggiormente contestato dell’illuminismo, aggrappato con le unghie a questa icona della modernità». Il fatto che egli sia un apolitico, quasi un anarchico, secondo da Empoli, offre la cifra del suo modo unico e assolutamente calzante di spiegare la politica meglio di quanto non facciano i politologi stessi. In questo risiede la sua concezione ad esempio di Nicolas Sarkozy, interprete di una visione ludica della politica, legata a doppia mandata, non al programma governativo lontano nel tempo, ma al suo modus personale di oggi, del quotidiano più vicino, permeato di elementi tangibili con i quali si mostra vivo all’elettorato.
Croppi però non condivide la visione di Maffesoli secondo la quale la scissione del pensiero si vada pian piano ricomponendo, «dal momento che proprio in questa fase storica che ha nella crisi la sua protagonista indiscussa, vi è la concreta possibilità data alle élite di portare la politica lì dove per molto tempo è stata assente». Rimane il problema di cosa fare e come farlo, sostiene l’assessore alla Cultura della Giunta Alemanno, perché è innegabile che «viviamo una fase di passaggio in cui si è chiusa una forma del pensiero ma noi abbiamo la possibilità di ricostruirla ex novo, producendo un pensiero che non solo interpreti, ma sia autore di questa modificazione in atto».
Il finale è tutto riservato alla crisi economica che, secondo Masseroli, nella evoluzione sociale, dovrebbe incentivare il ritorno delle élite alla realtà, dal momento che a oggi esse si sono drammaticamente disconnesse, vivendo una sorta di limbo parallelo. Inoltre «la nostra specie animale dovrebbe reperire parole pertinenti per dire ciò che pensa», facendo riferimento a una corteccia di uomini a cui manca forse la modalità di esprimere correttamente emozioni, sensazioni, paure, sogni, avviluppati in quella modernità che sovente crea un universo fasullo, come i reality, la tv spazzatura, certi falsi miti, al termine dei quali (perché tali rappresentazioni hanno più di altre una fine) la società si ritrova sola e spaesata, a fare i conti con se stessa e con i propri errori, nella consapevolezza che solo con una visione legata al collettivo sarà possibile, o meglio, più utile, reperire una voce univoca per esprimersi e per godere di “quel” bene comune.
mercoledì 20 maggio 2009
I CONTI NON TORNANO
Da Mondo Greco del 20/05/09
Dunque, i cittadini ellenici hanno votato, in un sondaggio lanciato negli ultimi dodici mesi dall`emittente televisiva Skai, il greco piu`grande di tutti i tempi, e le soprese non sono mancate. Al primo posto il condottiero Alessandro Magno, grande figura carismatica e militare, primo a spingersi in quell`oriente cosi`diverso per cultura e costumi dalla madre patria greca.
Subito dopo il prof. Giorgios Papanikolaou, inventore del famoso pap-test per la diagnosi del cancro all`utero. Al terzo posto Teodoros Kolokotronis, che guido`la lotta di indipendenza contro l`invasore turco. Solo quarto Socrate, quinto Platone. Fuori dai dieci Aristotele.
Al di la`di personali scelte e di soggettive simpatie e valutazioni piu`o meno legate al gradimento, un elemento sconcerta sopra tutti: l`assenza sul ‘podio’ di personaggi legati alla filosofia ed alla cultura classica che tutto il mondo indivia e accosta direttamente e senza indugi alla Grecia. Che significa, che il popolo ellenico (moderno) ha preferito innalzare una corona di alloro a chi, avendo comunque e meritatamente lasciato un segno indissolubile nella storia, ha fondato il proprio personale impegno sulla guerra (Alessandro Magno) e sulla scienza (Papanikolaou)? Non solo, direi, dal momento che le motivazioni vertono forse su piu`piani differenti.
Innanzitutto questo sondaggio offre uno spaccato attuale e fortemente significativo della societa`greca di oggi, debole e preda di facili emozioni, a causa delle quali smarrisce forse il senso della storia e le sue implicazioni nel tempo. La figura di Alessandro Magno non ha quasi avuto eguali per la vastita`delle sue conquiste, esso e`un dato inconfutabile, al pari della grandissima opera del medico nato nel 1883 il cui viso era stampato anche sulle vecchie banconote da diecimila dracme. Il punto e`che, per quanto determinanti e fondanti siano stati i contributi dei suddetti personaggi, appare quantomeno riduttivo confinare il pensatore, il filosofo, la pietra miliare delle menti elleniche, ovvero Socrate, cosi`lontano dalla vetta. E a nulla valgono le giustificazioni sul fatto che in molti programmi scolastici la figura del pensatore non sia approfondita accuramente, dal momento che appartiene al Dna della nazione.
Il padre fondatore dell`etica o filosofia morale, figlio di uno scultore e di una levatrice, sanci`la nascita di quel modo di pensare che avrebbe portato alla riflessione razionale ed astratta. Investigando e ricercando, mostro`l`insufficienza della classe dirigente di allora, dialogando con tutti quelli che erano definiti sapienti. Senza dimenticare il ‘conosci te stesso’, dove il significato era da ricercare nell`analisi dei limiti personali di ognuno, senza presumere di essere di piu`.
Senza voler in questa sede effettuare un panegirico (tanto per rimenere in tema) del grande pensatore nato nel 469 a.c. e che fu sposato con Santippe, appare evidente come la societa`di oggi, che vive e lavora in quella terra che diede le origini a grandi filosofi e letterati (non compaiono in questa top ten, solo per fare qualche nome, Erodoto, Aristotele, Eraclito, Leonida, Achille, Omero, Aristofane, Parmenide) non ne conosce realmente la portata storica mondiale, che invero pare sia piu`apprezzata e riconosciuta all`estero, piuttosto che in Patria.
Tale sondaggio, per quanto possa apparire un episodio legato a gusti personali e a inclinazioni sociali quantomeno discutibili, come lo epitetavano alcune trasmissioni televisive greche di questi giorni, rappresenta la drammatica fotografia della ‘kinonia’ odierna, alla quale contribuisce la cittadinanza e la classe politica. La prima e’sempre piu`preda di falsi miti (si veda il numero di ore televisive dedicate all`Eurovision, spropositate rispetto ad una programmazione, ad esempio, di approfondimento giornalistico o di inchiesta), intenta a trastullarsi per ore intere ai cafenia, sovente all`oscuro di quali capisaldi della civilta`proprio la Grecia abbia prodotto.
La classe dirigente, invece, si e`smarrita in improduttive fasi alterne di cronica mancanza di certezze, di una programmazione lungimirante, di un`assenza drammatica di riforme strutturali in mancanza delle quali il paese sconta piu`di altri la catastrofica crisi economica, contro la quale appaiono soluzioni placebo l`insieme delle misure adottate nell`ultimo semestre. Semplicemente perche`non concorreranno ne`finanziamenti e ne`prestiti alla soluzione di questo tsunami mondiale, ma servira`un ripensamento complessivo della societa`in se`, nell`intimo dell`educazione civica di ognuno, dall`ultimo degli spazzini al primo dei ministri.
Nella consapevolezza che la culla della civilta`, quella Grecia che e`stata alfa della filosofia, della medicina, della scienza, della guerra, quel mondo che insomma e`stato il `pan`, non e`accettabile che oggi sia ridotto a un cumulo di scalmanati che lanciano bombe, o a miseri scandali che infangano il quotidiano, o a stuole di giovani che popolano i caffe`, senza rendersi conto che il resto del mondo ha messo la freccia, vedi Cina e India, e sta tentando il sorpasso. Riuscendoci.
Dunque, i cittadini ellenici hanno votato, in un sondaggio lanciato negli ultimi dodici mesi dall`emittente televisiva Skai, il greco piu`grande di tutti i tempi, e le soprese non sono mancate. Al primo posto il condottiero Alessandro Magno, grande figura carismatica e militare, primo a spingersi in quell`oriente cosi`diverso per cultura e costumi dalla madre patria greca.
Subito dopo il prof. Giorgios Papanikolaou, inventore del famoso pap-test per la diagnosi del cancro all`utero. Al terzo posto Teodoros Kolokotronis, che guido`la lotta di indipendenza contro l`invasore turco. Solo quarto Socrate, quinto Platone. Fuori dai dieci Aristotele.
Al di la`di personali scelte e di soggettive simpatie e valutazioni piu`o meno legate al gradimento, un elemento sconcerta sopra tutti: l`assenza sul ‘podio’ di personaggi legati alla filosofia ed alla cultura classica che tutto il mondo indivia e accosta direttamente e senza indugi alla Grecia. Che significa, che il popolo ellenico (moderno) ha preferito innalzare una corona di alloro a chi, avendo comunque e meritatamente lasciato un segno indissolubile nella storia, ha fondato il proprio personale impegno sulla guerra (Alessandro Magno) e sulla scienza (Papanikolaou)? Non solo, direi, dal momento che le motivazioni vertono forse su piu`piani differenti.
Innanzitutto questo sondaggio offre uno spaccato attuale e fortemente significativo della societa`greca di oggi, debole e preda di facili emozioni, a causa delle quali smarrisce forse il senso della storia e le sue implicazioni nel tempo. La figura di Alessandro Magno non ha quasi avuto eguali per la vastita`delle sue conquiste, esso e`un dato inconfutabile, al pari della grandissima opera del medico nato nel 1883 il cui viso era stampato anche sulle vecchie banconote da diecimila dracme. Il punto e`che, per quanto determinanti e fondanti siano stati i contributi dei suddetti personaggi, appare quantomeno riduttivo confinare il pensatore, il filosofo, la pietra miliare delle menti elleniche, ovvero Socrate, cosi`lontano dalla vetta. E a nulla valgono le giustificazioni sul fatto che in molti programmi scolastici la figura del pensatore non sia approfondita accuramente, dal momento che appartiene al Dna della nazione.
Il padre fondatore dell`etica o filosofia morale, figlio di uno scultore e di una levatrice, sanci`la nascita di quel modo di pensare che avrebbe portato alla riflessione razionale ed astratta. Investigando e ricercando, mostro`l`insufficienza della classe dirigente di allora, dialogando con tutti quelli che erano definiti sapienti. Senza dimenticare il ‘conosci te stesso’, dove il significato era da ricercare nell`analisi dei limiti personali di ognuno, senza presumere di essere di piu`.
Senza voler in questa sede effettuare un panegirico (tanto per rimenere in tema) del grande pensatore nato nel 469 a.c. e che fu sposato con Santippe, appare evidente come la societa`di oggi, che vive e lavora in quella terra che diede le origini a grandi filosofi e letterati (non compaiono in questa top ten, solo per fare qualche nome, Erodoto, Aristotele, Eraclito, Leonida, Achille, Omero, Aristofane, Parmenide) non ne conosce realmente la portata storica mondiale, che invero pare sia piu`apprezzata e riconosciuta all`estero, piuttosto che in Patria.
Tale sondaggio, per quanto possa apparire un episodio legato a gusti personali e a inclinazioni sociali quantomeno discutibili, come lo epitetavano alcune trasmissioni televisive greche di questi giorni, rappresenta la drammatica fotografia della ‘kinonia’ odierna, alla quale contribuisce la cittadinanza e la classe politica. La prima e’sempre piu`preda di falsi miti (si veda il numero di ore televisive dedicate all`Eurovision, spropositate rispetto ad una programmazione, ad esempio, di approfondimento giornalistico o di inchiesta), intenta a trastullarsi per ore intere ai cafenia, sovente all`oscuro di quali capisaldi della civilta`proprio la Grecia abbia prodotto.
La classe dirigente, invece, si e`smarrita in improduttive fasi alterne di cronica mancanza di certezze, di una programmazione lungimirante, di un`assenza drammatica di riforme strutturali in mancanza delle quali il paese sconta piu`di altri la catastrofica crisi economica, contro la quale appaiono soluzioni placebo l`insieme delle misure adottate nell`ultimo semestre. Semplicemente perche`non concorreranno ne`finanziamenti e ne`prestiti alla soluzione di questo tsunami mondiale, ma servira`un ripensamento complessivo della societa`in se`, nell`intimo dell`educazione civica di ognuno, dall`ultimo degli spazzini al primo dei ministri.
Nella consapevolezza che la culla della civilta`, quella Grecia che e`stata alfa della filosofia, della medicina, della scienza, della guerra, quel mondo che insomma e`stato il `pan`, non e`accettabile che oggi sia ridotto a un cumulo di scalmanati che lanciano bombe, o a miseri scandali che infangano il quotidiano, o a stuole di giovani che popolano i caffe`, senza rendersi conto che il resto del mondo ha messo la freccia, vedi Cina e India, e sta tentando il sorpasso. Riuscendoci.
De Gaulle: la storia guidata dalla volontà
Da Farefuturo webmagazine del 20/05/09
Le idee prima dei fatti, da manifestare a testa alta, nonostante a volte esse producessero frizioni e malumori. Il Generale Charles de Gaulle non ci pensò due volte nel gennaio 1964: la Francia fu il primo paese occidentale a riconocere ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese perché «dal momento che nulla poteva essere regolato in Asia senza l'accordo di Pechino, era necessario abbandonare una sterile quanto anacronistica intransigenza e fare i conti con il mondo così com'è».
Ecco la figura di uno dei personaggi chiave della storia politica del Novecento, descritta da Riccardo Brizzi e Michele Marchi in Charles de Gaulle, autore di quel gollismo che prendendo spunto dalle difficoltà oggettive e partitiche figlie delle due guerre mondiali, riuscì con tenacia e varie fasi di legittimazione, a ergersi a garante della libertà, della democrazia e della governabilità della Francia grazie a un approccio innovativo, con intuizioni lungimiranti. Portatore sano di una terza via riformista e moderna, tra capitalismo e socialismo, si avvicinò da subito agli ambienti pogressisti, che all'epoca erano rappresentati dalla rivista Temps present.
Il volume ha inizio con il generale Pétain che firma una citazione di merito per de Gaulle come ufficiale senza eguali sotto ogni punto di vista: era il 7 maggio del 1916, e quello che avrebbe riportato quarantasei anni dopo la nazione alla grandeur, era stato ferito nel corso dei combattimenti ed era recluso nel campo di prgionia tedesco di Osnabruck.
Nato a Lille nel 1890 il Generale aveva assorbito il culto nazionale di genitori, entrambi espressione della borghesia conservatrice francese: «l’amor di patria - gli ripeteva il padre - non deve essere un proclama di facciata, non esiste onore senza giustizia». Appassionato di autori nazionalisti, come Charles Péguy e Maurice Barrès, allacciò le due guerre mondiali sotto la dicitura “guerra dei trent’anni”, comprendendo come la pace della conferenza di Versailles fosse un armistizio provvisorio, una modesta «coperta riposta su ambizioni insoddisfatte».
Il suo tratto caratteriale, assai vicino a quello di uomo giudice di se stesso e artefice delle evoluzioni della propria storia, emerge da una frase che il Generale ripeteva ai suoi allievi militari nel 1921: «La storia non insegna il fatalismo, esistono momenti in cui la volontà di qualche uomo rompe il determinismo ed apre nuove strade». Il nuovo, ovvero la soluzione alternativa alla deriva che in quell’attimo sta prendendo il sopravvento. Un ragionamento che sarà il leit motiv del suo credo politico, avvalorato nel '34 dalla pubblicazione del più importante dei suoi scritti, Vers l’armèe de métier. In quel momento la Germania si mostrava irrequieta uscendo dalla Conferenza sul riarmo e lo Stato militare francese denotava indubbi cedimenti, concretizzati nel degrado dell’apparato militare. Erano gli anni in cui Hitler reintrodusse il servizio di leva obbligatorio fino a occupare la Renania e, contemporaneamente, in Francia si susseguirono quattordici ministeri in sei anni, a dimostrazione di un sistema ancora fragile.
Inizialmente, tenne sempre a precisare la sua distanza dai partiti politici, in virtù del sentimento di sfiducia che molti repubblicani nutrivano nei suoi confronti. Anche a causa del fatto che, almeno nelle prime fasi, il gollismo della France libre appariva più vicino al bonapartismo nazionalista che al repubblicanesimo post 1870, un'importante fetta della sua legittimazione politica sarebbe passata da una graduale e costante accettazione dei principi democratici. La vera consacrazione politica del Generale si verificò nel biennio '41-'42 con la nascita del Comité national français e soprattutto con la Declaration aux mouvements de resistance: essa fu il prodotto finito di un lento ma determinato processo di maturazione politica e ideologica di de Gaulle. Affascinanti e utili alla comprensione della sua sfera emotiva, sono nel libro i passaggi epistolari tra il Generale e i suoi interlocutori, in modo particolare quelli legati alla prima fase post '45, allorquando non disponeva ancora nei fatti e nelle intenzioni della considerazione da parte di Churchill.
Momento di grande criticità, dal quale de Gaulle trasse profonda forza e cognizione, fu alla metà del '43: mentre era intento a trasferirsi da Londra ad Algeri con l'ordinanza già firmata per creare il Comité français de liberation national, Churchill in visita alla Casa Bianca, ricevette un dossier che epitetava de Gaulle come golpista e antidemocratico. All'interno della concezione postbellica di Roosvelt infatti non erano contemplate piccole entità come la Francia che non si sottomettessero alle due grandi potenze continentali (Russia e Gb). Il pericolo di una contaminazione ideologica di Churchill fu sventato dal realismo del laburista Attlee e del conservatore Eden che, riuniti in seduta straordinaria del governo britannico, fecero ragionare Churchill. Ormai il Generale rappresentava l'intera Francia.
Fu in quel preciso istante che il gollismo prese piede verso la piena rappresentatività politica, nazionale e internazionale. Lo dimostrò anche la scelta di coinvolgere due ministri comunisti nel rimpasto governativo del settembe '44, in conseguenza del quale lo stesso Stalin spinse uno dei due, Maurice Thorez, ad attuare una linea politica di compromesso, scartando velleità rivoluzionarie e concentrandosi invece sull`attualità, ovvero la battaglia della produzione.
Il rapporto del Generale con la Costituzione fu un altro degli snodi fondamentali della sua azione: tra de Gaulle e il repubblicanesimo classico esiteva una frattura. Il suffragio universale, al pari dell'adesione popolare, rappresentavano elementi imprescindibili per legittimare le nuove istituzioni. Ma la decisione finale doveva spettare secondo lui all'efficacia delle nuove istituzioni, e non ai principi astratti. Considerava la Costituzione «l'organizzazione dei poteri per meglio rispondere alle sfide della contemporaneità», al contrario dei tradizionalisti repubblicani secondo i quali la Carta era la traduzione pratica di quei grandi principi universali senza tempo.
Nel momento in cui salì al potere il suo primo obiettivo fu quello di non rovinare la propria credibilità compromettendosi con il sistema, per poi dare seguito al decalogo pratico che vedeva cinque grandi direttrici: personalizzazione del potere, volontà di agire al di sopra dei partiti, popolarità tra la gente, dialogo diretto con i cittadini grazie ai frequenti messaggi radiofonici e passione per i gesti a effetto.
Numerose furono le occasioni in cui il Generale si trovò solo, di fronte a un paese smarrito e senza bussola, ma proprio quel frangente rappresentò un elemento di indiscutibile forza, come nel '58 quando dopo l'insurrezione di Algeri, nonostante non disponesse di alcuno strumento politico, ma contando esclusivamente sul proprio carisma, in sole due settimane si impose come soluzione a tutti i problemi, interni ed esterni. In quel modo riuscì anche a far accettare le condizioni alla base del suo ritorno i vertici.
Il governo che formò ebbe solo due gollisti, Malraux e Debré, al preciso scopo di evidenziare un'intenzione transpartitica, dal momento che occorreva affrontare senza indugi le emergenze come la fibrillazione in Corsica, lo sviluppo industriale, le sfide della Comunità europea. Nel suo messaggio televisivo del giugno '58 definì tre priorità, non solo del paese ma anche del suo stile di governare: elaborazione di una nuova Costituzione, reperimento di un equilibrio finanziario e risoluzione del caso Algeria.
Da menzionare senza dubbio due dati: una rilevantissima curiosità nel testo del nuovo progetto costituzionale, dove vi era incompatibilità tra funzione ministeriale e quella parlamentare allo scopo di allontanare le Camere dal gioco governativo e le sue diposizioni funebri rese al pubblico il giorno dopo della sua scomparsa, il 10 novembre 1970, «gli uomini e le donne di Francia e degli altri paesi potranno, se lo desiderano, fare alla mia memoria l'onore di accompagnare il mio corpo sino alla ultima dimora. Ma è nel silenzio che desidero sia condotto. Rifiuto sin da ora qualsiasi promozione, citazione, dichiarazione o medaglia, sia essa francese o straniera».
Le idee prima dei fatti, da manifestare a testa alta, nonostante a volte esse producessero frizioni e malumori. Il Generale Charles de Gaulle non ci pensò due volte nel gennaio 1964: la Francia fu il primo paese occidentale a riconocere ufficialmente la Repubblica Popolare Cinese perché «dal momento che nulla poteva essere regolato in Asia senza l'accordo di Pechino, era necessario abbandonare una sterile quanto anacronistica intransigenza e fare i conti con il mondo così com'è».
Ecco la figura di uno dei personaggi chiave della storia politica del Novecento, descritta da Riccardo Brizzi e Michele Marchi in Charles de Gaulle, autore di quel gollismo che prendendo spunto dalle difficoltà oggettive e partitiche figlie delle due guerre mondiali, riuscì con tenacia e varie fasi di legittimazione, a ergersi a garante della libertà, della democrazia e della governabilità della Francia grazie a un approccio innovativo, con intuizioni lungimiranti. Portatore sano di una terza via riformista e moderna, tra capitalismo e socialismo, si avvicinò da subito agli ambienti pogressisti, che all'epoca erano rappresentati dalla rivista Temps present.
Il volume ha inizio con il generale Pétain che firma una citazione di merito per de Gaulle come ufficiale senza eguali sotto ogni punto di vista: era il 7 maggio del 1916, e quello che avrebbe riportato quarantasei anni dopo la nazione alla grandeur, era stato ferito nel corso dei combattimenti ed era recluso nel campo di prgionia tedesco di Osnabruck.
Nato a Lille nel 1890 il Generale aveva assorbito il culto nazionale di genitori, entrambi espressione della borghesia conservatrice francese: «l’amor di patria - gli ripeteva il padre - non deve essere un proclama di facciata, non esiste onore senza giustizia». Appassionato di autori nazionalisti, come Charles Péguy e Maurice Barrès, allacciò le due guerre mondiali sotto la dicitura “guerra dei trent’anni”, comprendendo come la pace della conferenza di Versailles fosse un armistizio provvisorio, una modesta «coperta riposta su ambizioni insoddisfatte».
Il suo tratto caratteriale, assai vicino a quello di uomo giudice di se stesso e artefice delle evoluzioni della propria storia, emerge da una frase che il Generale ripeteva ai suoi allievi militari nel 1921: «La storia non insegna il fatalismo, esistono momenti in cui la volontà di qualche uomo rompe il determinismo ed apre nuove strade». Il nuovo, ovvero la soluzione alternativa alla deriva che in quell’attimo sta prendendo il sopravvento. Un ragionamento che sarà il leit motiv del suo credo politico, avvalorato nel '34 dalla pubblicazione del più importante dei suoi scritti, Vers l’armèe de métier. In quel momento la Germania si mostrava irrequieta uscendo dalla Conferenza sul riarmo e lo Stato militare francese denotava indubbi cedimenti, concretizzati nel degrado dell’apparato militare. Erano gli anni in cui Hitler reintrodusse il servizio di leva obbligatorio fino a occupare la Renania e, contemporaneamente, in Francia si susseguirono quattordici ministeri in sei anni, a dimostrazione di un sistema ancora fragile.
Inizialmente, tenne sempre a precisare la sua distanza dai partiti politici, in virtù del sentimento di sfiducia che molti repubblicani nutrivano nei suoi confronti. Anche a causa del fatto che, almeno nelle prime fasi, il gollismo della France libre appariva più vicino al bonapartismo nazionalista che al repubblicanesimo post 1870, un'importante fetta della sua legittimazione politica sarebbe passata da una graduale e costante accettazione dei principi democratici. La vera consacrazione politica del Generale si verificò nel biennio '41-'42 con la nascita del Comité national français e soprattutto con la Declaration aux mouvements de resistance: essa fu il prodotto finito di un lento ma determinato processo di maturazione politica e ideologica di de Gaulle. Affascinanti e utili alla comprensione della sua sfera emotiva, sono nel libro i passaggi epistolari tra il Generale e i suoi interlocutori, in modo particolare quelli legati alla prima fase post '45, allorquando non disponeva ancora nei fatti e nelle intenzioni della considerazione da parte di Churchill.
Momento di grande criticità, dal quale de Gaulle trasse profonda forza e cognizione, fu alla metà del '43: mentre era intento a trasferirsi da Londra ad Algeri con l'ordinanza già firmata per creare il Comité français de liberation national, Churchill in visita alla Casa Bianca, ricevette un dossier che epitetava de Gaulle come golpista e antidemocratico. All'interno della concezione postbellica di Roosvelt infatti non erano contemplate piccole entità come la Francia che non si sottomettessero alle due grandi potenze continentali (Russia e Gb). Il pericolo di una contaminazione ideologica di Churchill fu sventato dal realismo del laburista Attlee e del conservatore Eden che, riuniti in seduta straordinaria del governo britannico, fecero ragionare Churchill. Ormai il Generale rappresentava l'intera Francia.
Fu in quel preciso istante che il gollismo prese piede verso la piena rappresentatività politica, nazionale e internazionale. Lo dimostrò anche la scelta di coinvolgere due ministri comunisti nel rimpasto governativo del settembe '44, in conseguenza del quale lo stesso Stalin spinse uno dei due, Maurice Thorez, ad attuare una linea politica di compromesso, scartando velleità rivoluzionarie e concentrandosi invece sull`attualità, ovvero la battaglia della produzione.
Il rapporto del Generale con la Costituzione fu un altro degli snodi fondamentali della sua azione: tra de Gaulle e il repubblicanesimo classico esiteva una frattura. Il suffragio universale, al pari dell'adesione popolare, rappresentavano elementi imprescindibili per legittimare le nuove istituzioni. Ma la decisione finale doveva spettare secondo lui all'efficacia delle nuove istituzioni, e non ai principi astratti. Considerava la Costituzione «l'organizzazione dei poteri per meglio rispondere alle sfide della contemporaneità», al contrario dei tradizionalisti repubblicani secondo i quali la Carta era la traduzione pratica di quei grandi principi universali senza tempo.
Nel momento in cui salì al potere il suo primo obiettivo fu quello di non rovinare la propria credibilità compromettendosi con il sistema, per poi dare seguito al decalogo pratico che vedeva cinque grandi direttrici: personalizzazione del potere, volontà di agire al di sopra dei partiti, popolarità tra la gente, dialogo diretto con i cittadini grazie ai frequenti messaggi radiofonici e passione per i gesti a effetto.
Numerose furono le occasioni in cui il Generale si trovò solo, di fronte a un paese smarrito e senza bussola, ma proprio quel frangente rappresentò un elemento di indiscutibile forza, come nel '58 quando dopo l'insurrezione di Algeri, nonostante non disponesse di alcuno strumento politico, ma contando esclusivamente sul proprio carisma, in sole due settimane si impose come soluzione a tutti i problemi, interni ed esterni. In quel modo riuscì anche a far accettare le condizioni alla base del suo ritorno i vertici.
Il governo che formò ebbe solo due gollisti, Malraux e Debré, al preciso scopo di evidenziare un'intenzione transpartitica, dal momento che occorreva affrontare senza indugi le emergenze come la fibrillazione in Corsica, lo sviluppo industriale, le sfide della Comunità europea. Nel suo messaggio televisivo del giugno '58 definì tre priorità, non solo del paese ma anche del suo stile di governare: elaborazione di una nuova Costituzione, reperimento di un equilibrio finanziario e risoluzione del caso Algeria.
Da menzionare senza dubbio due dati: una rilevantissima curiosità nel testo del nuovo progetto costituzionale, dove vi era incompatibilità tra funzione ministeriale e quella parlamentare allo scopo di allontanare le Camere dal gioco governativo e le sue diposizioni funebri rese al pubblico il giorno dopo della sua scomparsa, il 10 novembre 1970, «gli uomini e le donne di Francia e degli altri paesi potranno, se lo desiderano, fare alla mia memoria l'onore di accompagnare il mio corpo sino alla ultima dimora. Ma è nel silenzio che desidero sia condotto. Rifiuto sin da ora qualsiasi promozione, citazione, dichiarazione o medaglia, sia essa francese o straniera».
venerdì 15 maggio 2009
L'Eur, quella continua aspirazione al futuro
Da FFwebmagazine del 16/05/09
«L`Eur è un quartiere molto congeniale a chi fa di professione il rappresentante di immagini». Così Federico Fellini definiva il quartiere romano, edificato in occasione dell`esposizione universale che si sarebbe dovuta tenere nel 1942, ma che a causa della guerra venne annullata. Una terza Roma, dilatata sopra alti colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno: sono le parole scolpite sul fregio del Salone delle Fontane accanto al Palazzo degli Uffici, in via Ciro il Grande, primo edificio permanente realizzato per l`esposizione. Esse racchiudono i significati che portarono Mussolini e un pool di architetti, guidati da Marcello Piacentini, a concepire nel `37, la sperimentazione di un quartiere innovativo, moderno e polifunzionale, rivolto alle esigenze logistiche del futuro, che avrebbe previsto con largo anticipo, l`evoluzione del tessuto urbano di Roma, sino a spingersi verso la costa.
È nel dopoguerra che registrò un’incoraggiante fase di vitalità, architettonica e anche legata agli eventi, alloquando nella meta`degli anni ’50 vennero eretti palazzi e grattacieli, tra cui quello dell`Eni, fino ad arrivare, alla fine del decennio, ai migliori esempi di architettura italiana come la piscina delle Rose, il Velodromo, e il Palaeur di Pierluigi Nervi.
Le esposizioni universali erano una sorta di Olimpiadi delle merci, in occasione delle quali veniva costruito un grande monumento rappresentativo. L`Eur fu ispirato all`urbanistica classica romana, contaminata da elementi del Razionalismo italiano. Il marmo bianco e il travertino sono un omaggio alla Roma imperiale. Oltre al Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi (con il cosiddetto Colosseo quadrato, ispirato all`arte metafisica) vi sono l`Archivio centrale dello Stato, la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, il Palalottomatica (il precedenza Palaeur progettato da Piacentini e Nervi), il fungo, l`obelisco del `900 di Arnaldo Pomodoro (inaugurato cinque anni fa), la stele in onore di Gugliemo Marconi. Vi è inoltre un`ampia area dedicata all`esposizione museale con il museo nazionale della civiltà romana, quello preistorico etnografico ‘Luigi Pigorini’, il nuovo planetario, il museo dell`astronomia del 2004. A partire dal `64 il quartiere è stato anche scelto per ospitare riprese cinematografiche, come ‘L`ultimo uomo della terra’ di Ubaldo Ragona, ‘L`eclisse’ di Michelangelo Antonioni, ‘Boccaccio `70’ di Fellini, ‘La decima vittima’ di Elio Petri. Per arrivare ai piu`recenti ‘Tenebre’ di Dario Argento, ‘Il mago del furto’ con Bruce Willis, ‘Titus’ con Anthony Hopkins.
La vera modernizzazione, con la conseguente metabolizzazione del significato intrinseco che il quartiere aveva avuto nel disegno evolutivo dell città, si è registrata nello scorso trentennio: l`allargamento urbanistico naturale della città, lungo la direttrice che porta al mare, ha imposto l`evoluzione anche del quartiere Eur. Esso oggi può ergersi a strumento multifunzionale in grado di rispondere alle specifiche e cangianti esigenze di una capitale in movimento, interpretandone spunti innovativi e slanci propositivi.
Dalla vocazione terziaria, con ampi complessi dedicati agli uffici e alle rappresentanze di importanti aziende, a quella sportiva e naturalistica: l`Eur è inteso oggi, non solo per l`immediato ma per un periodo medio lungo, come occasione futura per un`espressione cittadina di polmone terziario, che abbia nei propri tratti somatici la qualità della vita e del lavoro, sia ad appannaggio di chi vi risiede, sia di chi lo frequenta professionalmente.
Inoltre si ergerà a contemporanea occasione di arricchimento, in virtù delle numerose opportunità che l`intera concezione del quartiere presenta, e potrà continuare a presentare grazie alle già citate modifiche strutturali. Così l`Eur è diventato nel tempo un altro centro della città, che sia alternativo al centro storico, sede di rilevanti manifestazioni sportive, presso il Palalottomatica, e culturali. Proseguendo poi verso iniziative di educazione e intrattenimento, con spazi espositivi permanenti, al preciso scopo, non solo di far transitare eventi ed espressioni artistiche, ma di far vivere fisicamente qui la civiltà italiana.
Proprio di questo si discuterà il prossimo 22 maggio alla Casa dell`Architettura di Roma in occasione del convegno ‘A 100 anni dal futurismo, quale futuro per Roma e Parigi ?’. L`evento prende spunto dalla riflessione avviata in Francia sugli effetti e sulle visioni future del ‘Grand Paris’, oltre che dalle celebrazioni del centenario del futurismo. Un`occasione per cogitare sulla cifra futura delle strutture, se da intendere come spazio pubblico di cui riappropriarsi, all`interno di nuove alleanze tra mobilità materiale e immateriale. E dove il termine ‘futuro’ sta a significare quale vita potranno offrire alle nuove generazioni Roma e Parigi, ovvero con che qualità urbana, con quale raccordo ideale fra bellezza e funzionalità, non solo in centro ma soprattutto nelle periferie.
Ed è proprio in questo senso che si inserisce l`attuale progettazione sistematica del quartiere, con la torre-giardino di Renzo Piano, che sostituirà le due torri delle finanze, la cosiddetta nuvola di Fuksas, l`Europarco (un business park con edilizia residenziale, direzionale e commerciale), la città dell`acqua (dedita al benessere e al fitness con dodicimila metri quadrati di piscine), il Mare Nostrum Aquarium (unico acquario virtuale al mondo assieme a quello di Tokyo). E, in ultimo, lo svolgimento di una gara di Formula 1 nel 2012, originale e innovativa destinazione di uno spazio che si insinua sempre piu` all`interno di una città che parli molte lingue, interpretandone esigenze e, perché no, sogni e aspirazioni future.
«L`Eur è un quartiere molto congeniale a chi fa di professione il rappresentante di immagini». Così Federico Fellini definiva il quartiere romano, edificato in occasione dell`esposizione universale che si sarebbe dovuta tenere nel 1942, ma che a causa della guerra venne annullata. Una terza Roma, dilatata sopra alti colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno: sono le parole scolpite sul fregio del Salone delle Fontane accanto al Palazzo degli Uffici, in via Ciro il Grande, primo edificio permanente realizzato per l`esposizione. Esse racchiudono i significati che portarono Mussolini e un pool di architetti, guidati da Marcello Piacentini, a concepire nel `37, la sperimentazione di un quartiere innovativo, moderno e polifunzionale, rivolto alle esigenze logistiche del futuro, che avrebbe previsto con largo anticipo, l`evoluzione del tessuto urbano di Roma, sino a spingersi verso la costa.
È nel dopoguerra che registrò un’incoraggiante fase di vitalità, architettonica e anche legata agli eventi, alloquando nella meta`degli anni ’50 vennero eretti palazzi e grattacieli, tra cui quello dell`Eni, fino ad arrivare, alla fine del decennio, ai migliori esempi di architettura italiana come la piscina delle Rose, il Velodromo, e il Palaeur di Pierluigi Nervi.
Le esposizioni universali erano una sorta di Olimpiadi delle merci, in occasione delle quali veniva costruito un grande monumento rappresentativo. L`Eur fu ispirato all`urbanistica classica romana, contaminata da elementi del Razionalismo italiano. Il marmo bianco e il travertino sono un omaggio alla Roma imperiale. Oltre al Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi (con il cosiddetto Colosseo quadrato, ispirato all`arte metafisica) vi sono l`Archivio centrale dello Stato, la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, il Palalottomatica (il precedenza Palaeur progettato da Piacentini e Nervi), il fungo, l`obelisco del `900 di Arnaldo Pomodoro (inaugurato cinque anni fa), la stele in onore di Gugliemo Marconi. Vi è inoltre un`ampia area dedicata all`esposizione museale con il museo nazionale della civiltà romana, quello preistorico etnografico ‘Luigi Pigorini’, il nuovo planetario, il museo dell`astronomia del 2004. A partire dal `64 il quartiere è stato anche scelto per ospitare riprese cinematografiche, come ‘L`ultimo uomo della terra’ di Ubaldo Ragona, ‘L`eclisse’ di Michelangelo Antonioni, ‘Boccaccio `70’ di Fellini, ‘La decima vittima’ di Elio Petri. Per arrivare ai piu`recenti ‘Tenebre’ di Dario Argento, ‘Il mago del furto’ con Bruce Willis, ‘Titus’ con Anthony Hopkins.
La vera modernizzazione, con la conseguente metabolizzazione del significato intrinseco che il quartiere aveva avuto nel disegno evolutivo dell città, si è registrata nello scorso trentennio: l`allargamento urbanistico naturale della città, lungo la direttrice che porta al mare, ha imposto l`evoluzione anche del quartiere Eur. Esso oggi può ergersi a strumento multifunzionale in grado di rispondere alle specifiche e cangianti esigenze di una capitale in movimento, interpretandone spunti innovativi e slanci propositivi.
Dalla vocazione terziaria, con ampi complessi dedicati agli uffici e alle rappresentanze di importanti aziende, a quella sportiva e naturalistica: l`Eur è inteso oggi, non solo per l`immediato ma per un periodo medio lungo, come occasione futura per un`espressione cittadina di polmone terziario, che abbia nei propri tratti somatici la qualità della vita e del lavoro, sia ad appannaggio di chi vi risiede, sia di chi lo frequenta professionalmente.
Inoltre si ergerà a contemporanea occasione di arricchimento, in virtù delle numerose opportunità che l`intera concezione del quartiere presenta, e potrà continuare a presentare grazie alle già citate modifiche strutturali. Così l`Eur è diventato nel tempo un altro centro della città, che sia alternativo al centro storico, sede di rilevanti manifestazioni sportive, presso il Palalottomatica, e culturali. Proseguendo poi verso iniziative di educazione e intrattenimento, con spazi espositivi permanenti, al preciso scopo, non solo di far transitare eventi ed espressioni artistiche, ma di far vivere fisicamente qui la civiltà italiana.
Proprio di questo si discuterà il prossimo 22 maggio alla Casa dell`Architettura di Roma in occasione del convegno ‘A 100 anni dal futurismo, quale futuro per Roma e Parigi ?’. L`evento prende spunto dalla riflessione avviata in Francia sugli effetti e sulle visioni future del ‘Grand Paris’, oltre che dalle celebrazioni del centenario del futurismo. Un`occasione per cogitare sulla cifra futura delle strutture, se da intendere come spazio pubblico di cui riappropriarsi, all`interno di nuove alleanze tra mobilità materiale e immateriale. E dove il termine ‘futuro’ sta a significare quale vita potranno offrire alle nuove generazioni Roma e Parigi, ovvero con che qualità urbana, con quale raccordo ideale fra bellezza e funzionalità, non solo in centro ma soprattutto nelle periferie.
Ed è proprio in questo senso che si inserisce l`attuale progettazione sistematica del quartiere, con la torre-giardino di Renzo Piano, che sostituirà le due torri delle finanze, la cosiddetta nuvola di Fuksas, l`Europarco (un business park con edilizia residenziale, direzionale e commerciale), la città dell`acqua (dedita al benessere e al fitness con dodicimila metri quadrati di piscine), il Mare Nostrum Aquarium (unico acquario virtuale al mondo assieme a quello di Tokyo). E, in ultimo, lo svolgimento di una gara di Formula 1 nel 2012, originale e innovativa destinazione di uno spazio che si insinua sempre piu` all`interno di una città che parli molte lingue, interpretandone esigenze e, perché no, sogni e aspirazioni future.
giovedì 14 maggio 2009
SE LA FERRARI SI RIBELLA AL CAOS
Da FFwebmagazine del 14/05/09
La ragione è ancora quel sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere? Zygmunt Bauman sosteneva che l'essenza della modernità sta nel poter mettere in discussione le regole del gioco all'interno del gruppo sociale in cui si vive. Altro però è proclamarsi autonomamente detentore ed estensore e, forte di tali cariche, stravolgere autarchicamente modi e tempi senza consultarsi con i diretti protagonisti.
La Formula 1 è nel caos: la Federazione internazionale vorrebbe mutare regole e parametri senza preoccuparsi preliminarmente di condividere scelte e proposte con le singole scuderie. Accanto alla presa di posizione della Ferrari di non partecipare al prossimo campionato, si stanno accostando anche altre case, Renault e Toyota su tutte. È come se la Lega calcio decidesse improvvisamente di spostare il dischetto del rigore più avanti di due metri, senza chiedere il parere ad arbitri e giocatori.
Modificare i regolamenti ignorando chi quelle regole dovrebbe applicarle per gareggiare, non può che portare alla fuoriuscita dei protagonisti dal circo sportivo che progressivamente perde i suoi tratti somatici, svilendone significati e peculiarità. Cosa resta oggi, in quelle idee strampalate e antidemocratiche, della concezione sportiva come elevazione della competizione e della compartecipazione più pura?
Secondo Von Wright le regole del gioco, se considerate sotto l'aspetto dell'attività ludica, sono deontiche, ovvero determinano cosa è obbligatorio, cosa è vietato, cosa è permesso. Wittgenstein sosteneva che nel gioco degli scacchi un pezzo è la somma delle sue regole. Non è detto che esse non possano subire nel tempo un'evoluzione, anzi è auspicabile che la società sia dotata di quegli strumenti per ammodernare le regole che, negli anni e in base a valutazioni di tipo qualitativo e funzionale, dovessero risultare obsolete o desiderose di nuovi spunti. Ma in assenza di un ragionamento a più cervelli su cosa e su come cambiare, si rischia di produrre uno scenario nel quale un individuo sceglie cavalli e burattini, per farli trottare a proprio piacimento.
Che significa, allora, che le regole del gioco sono drammaticamente in mano al più forte che ne detiene moralmente e praticamente il predominio? Che un altro individuo, sprovvisto della medesima forza non potrà mai dissentire da quella decisione? E non perché in minoranza, come il sistema democratico all'interno del proprio funzionamento prevede, ma semplicemente perché più debole? Si tratta di un frame dal quale emerge il ricordo preadolescenziale di quel bambino che, essendo proprietario del pallone, e per questo sentendosi investito di chissà quale potere decisionale, imponeva campo e porte a proprio piacimento. E chi non fosse stato d'accordo sarebbe stato libero di trovarsi un altro pallone e un altro gruppo di amici con cui giocare.
E ancora, se oltre allo scenario descritto, con una medioevale contrapposizione tra lupi e agnelli, tra re e schiavi, tra forti e deboli, si verificasse anche una clamorosa assenza di una figura super partes, cosa accadrebbe? Tornando al casus belli, non soltanto la Fia tramite il suo massimo vertice Max Mosley ha imboccato tale deriva solitaria, ma anche il patron del Mondiale, Bernie Ecclestone non sembra avvertire una benché minima responsabilità sulle proprie spalle. Non una voce, da parte di chi quel ruolo di garanzia dovrebbe ricoprire, si è levata: e non in difesa di questa o quella posizione, di una scelta piuttosto che di un'altra, di una proposta conservatrice o progressista.
No, non è in questa direttrice che va riscoperta e applicata "quella" figura garantista. Ma nella possibilità di concedere a tutti gli attori protagonisti di poter concorrere a quella scelta, a quel cambiamento, a quel miglioramento, se di miglioramento dovesse trattarsi, e ciò lo si potrebbe appurare solo a seguito di una discussione, come l'agorà ateniese insegna. E soprattutto impedendo a chi, nell'impossibilità di rappresentare la propria istanza di dissenso, si veda costretto a sgombrare il campo. Così facendo si produce il vero fallimento, sociale e culturale. Passerebbe allora la linea del "te ne devi andare se non sei d’accordo"? E quindi abbandonare la partita, il terreno del confronto, del concorso di idee, della dialettica?
Fanno tenerezza in questo senso le parole pronunciate dal pilota finlandese Kimi Raikonnen: «Quando ero alla McLaren - ha raccontato nei giorni scorsi - la scuderia di Maranello era il punto di riferimento, l'avversario con cui misurarci. Da quando sono arrivato qui ho capito che è molto più di una squadra, è un mito che si perpetua attraverso le sue macchine stradali e da corsa. Ho sempre avuto la passione per correre con tutto ciò che avesse un motore e ho sempre guardato alla Formula 1 come alla massima espressione dell'automobilismo sportivo, come competizione e come tecnologia». Il mito emerge dalle riflessioni del pilota, ovvero un'eccellenza che, nonostante abbia alle spalle una storia imponente, una bacheca ebbra di trofei, un'organizzazione basata non solo su professionalità ma anche su uomini, rischia di non correre e cambiare circuito, per usare un eufemismo.
La ragione è ancora quel sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere? Zygmunt Bauman sosteneva che l'essenza della modernità sta nel poter mettere in discussione le regole del gioco all'interno del gruppo sociale in cui si vive. Altro però è proclamarsi autonomamente detentore ed estensore e, forte di tali cariche, stravolgere autarchicamente modi e tempi senza consultarsi con i diretti protagonisti.
La Formula 1 è nel caos: la Federazione internazionale vorrebbe mutare regole e parametri senza preoccuparsi preliminarmente di condividere scelte e proposte con le singole scuderie. Accanto alla presa di posizione della Ferrari di non partecipare al prossimo campionato, si stanno accostando anche altre case, Renault e Toyota su tutte. È come se la Lega calcio decidesse improvvisamente di spostare il dischetto del rigore più avanti di due metri, senza chiedere il parere ad arbitri e giocatori.
Modificare i regolamenti ignorando chi quelle regole dovrebbe applicarle per gareggiare, non può che portare alla fuoriuscita dei protagonisti dal circo sportivo che progressivamente perde i suoi tratti somatici, svilendone significati e peculiarità. Cosa resta oggi, in quelle idee strampalate e antidemocratiche, della concezione sportiva come elevazione della competizione e della compartecipazione più pura?
Secondo Von Wright le regole del gioco, se considerate sotto l'aspetto dell'attività ludica, sono deontiche, ovvero determinano cosa è obbligatorio, cosa è vietato, cosa è permesso. Wittgenstein sosteneva che nel gioco degli scacchi un pezzo è la somma delle sue regole. Non è detto che esse non possano subire nel tempo un'evoluzione, anzi è auspicabile che la società sia dotata di quegli strumenti per ammodernare le regole che, negli anni e in base a valutazioni di tipo qualitativo e funzionale, dovessero risultare obsolete o desiderose di nuovi spunti. Ma in assenza di un ragionamento a più cervelli su cosa e su come cambiare, si rischia di produrre uno scenario nel quale un individuo sceglie cavalli e burattini, per farli trottare a proprio piacimento.
Che significa, allora, che le regole del gioco sono drammaticamente in mano al più forte che ne detiene moralmente e praticamente il predominio? Che un altro individuo, sprovvisto della medesima forza non potrà mai dissentire da quella decisione? E non perché in minoranza, come il sistema democratico all'interno del proprio funzionamento prevede, ma semplicemente perché più debole? Si tratta di un frame dal quale emerge il ricordo preadolescenziale di quel bambino che, essendo proprietario del pallone, e per questo sentendosi investito di chissà quale potere decisionale, imponeva campo e porte a proprio piacimento. E chi non fosse stato d'accordo sarebbe stato libero di trovarsi un altro pallone e un altro gruppo di amici con cui giocare.
E ancora, se oltre allo scenario descritto, con una medioevale contrapposizione tra lupi e agnelli, tra re e schiavi, tra forti e deboli, si verificasse anche una clamorosa assenza di una figura super partes, cosa accadrebbe? Tornando al casus belli, non soltanto la Fia tramite il suo massimo vertice Max Mosley ha imboccato tale deriva solitaria, ma anche il patron del Mondiale, Bernie Ecclestone non sembra avvertire una benché minima responsabilità sulle proprie spalle. Non una voce, da parte di chi quel ruolo di garanzia dovrebbe ricoprire, si è levata: e non in difesa di questa o quella posizione, di una scelta piuttosto che di un'altra, di una proposta conservatrice o progressista.
No, non è in questa direttrice che va riscoperta e applicata "quella" figura garantista. Ma nella possibilità di concedere a tutti gli attori protagonisti di poter concorrere a quella scelta, a quel cambiamento, a quel miglioramento, se di miglioramento dovesse trattarsi, e ciò lo si potrebbe appurare solo a seguito di una discussione, come l'agorà ateniese insegna. E soprattutto impedendo a chi, nell'impossibilità di rappresentare la propria istanza di dissenso, si veda costretto a sgombrare il campo. Così facendo si produce il vero fallimento, sociale e culturale. Passerebbe allora la linea del "te ne devi andare se non sei d’accordo"? E quindi abbandonare la partita, il terreno del confronto, del concorso di idee, della dialettica?
Fanno tenerezza in questo senso le parole pronunciate dal pilota finlandese Kimi Raikonnen: «Quando ero alla McLaren - ha raccontato nei giorni scorsi - la scuderia di Maranello era il punto di riferimento, l'avversario con cui misurarci. Da quando sono arrivato qui ho capito che è molto più di una squadra, è un mito che si perpetua attraverso le sue macchine stradali e da corsa. Ho sempre avuto la passione per correre con tutto ciò che avesse un motore e ho sempre guardato alla Formula 1 come alla massima espressione dell'automobilismo sportivo, come competizione e come tecnologia». Il mito emerge dalle riflessioni del pilota, ovvero un'eccellenza che, nonostante abbia alle spalle una storia imponente, una bacheca ebbra di trofei, un'organizzazione basata non solo su professionalità ma anche su uomini, rischia di non correre e cambiare circuito, per usare un eufemismo.
venerdì 8 maggio 2009
SECONDA GENERAZIONE, C'E' IL RISCHIO SERIE B
da FFWebmagazine del 08/05/09
Può una legge, datata e palesemente insufficiente, porsi di traverso alle mutanti esigenze di una collettività in continua evoluzione? In queste giornate, per tanti versi drammatiche per gli immigrati nel nostro paese, emergono storie di vite incrociate, di ragazzi, - non hanno più di trent’anni - che, nonostante siano nati in Italia non hanno conquistato lo status di italiani. Qualcuno obietterà: la solita burocrazia farraginosa, pachidermia, stucchevole di casa nostra? Non solo.
Qui si tratta di comprendere come il termine integrazione debba provenire sì da un comma o da un decreto (meglio se non d’urgenza), ma anche da spunti più civici, per consentire un processo di maturazione socio-culturale. Loretta Grace è una cantante di origini nigeriane nata e vissuta ad Ancona. Mohamed Tailmoun è laureato in sociologia, e da tre decenni vive in a Roma. Due esempi di individui dediti ad una personale corsa contro il tempo per il riconoscimento della cittadinanza italiana. La legge n°91 del ’92 prevede infatti che i figli di immigrati, la cosiddetta seconda generazione, abbiano diritto alla cittadinanza solo se dimostrino di aver vissuto nel nostro paese per diciotto anni consecutivamente. E ciò con una serie infinita di carte e scartoffie, che vanno dalle pagelle scolastiche alle prove di vaccinazione: tutto ciò potrebbe essere vanificato se l’italiano in questione (perché di italiano o italiana indiscutibilmente si tratta) in quei diciotto anni si fosse spostato anche per qualche mese.
«Una legge assurda e anacronistica - riflette Eugenio Cardi, responsabile dell’osservatorio Ugl sui fenomeni sociali e promotore della tavola rotonda ‘Sono una seconda generazione, figlio di immigrati nato in Italia: cittadino italiano? Quando e come?’- dal momento che negli ultimi vent’anni il panorama sociale è cambiato completamente». Al tempo in cui quella legge fu partorita il fenomeno delle seconde generazioni era da queste parti sconosciuto, nè vi furono tentativi di aggiornarsi magari facendo raffronti con paesi dove l’immigrazione si era radicata ben prima che in Italia, vedi la Francia o la Germania.
Ecco la politica nostrana niente affatto lungimirante, che si preoccupa delle problematiche giorno per giorno, man mano che si presentano, senza una programmazione che guardi avanti e al di là del proprio naso, che avrebbe il vantaggio di sanare in tempo utile ferite e lacerazioni, confezionando un paese migliore, e non per voler fare retorica.
Due testimonianze dirette, dunque, che fanno toccare con mano il disagio che la cosiddetta rete G2 purtroppo oggi patisce nelle nostre città e nei nostri parchi pubblici, nelle nostre scuole, nei ristoranti, negli aeroporti, nei musei. Insomma in quello stesso paese che nel 2008 ha registrato la presenza di un milione di figli dell’immigrazione e dove si calcola che fra quarant’anni gli studenti stranieri potrebbero addirittura superare numericamente quelli nostrani. Numeri che impongono una riflessione e una presa di coscienza immediata, così come la tavola rotonda ha inteso fare, alla presenza tra gli altri di esponenti delle istituzioni (Renata Polverini, don Giandomenico Gnesotto, Mario Morcone, Giovanni Puglisi, Savino Pezzotta, Mussie Zerai, Valerio Savio) e dell’arte (Francesca Reggiani, Mimmo Calopresti e Salvatore Marino). Sostegno che parallelamente è venuto anche da Massimo D’Alema secondo il quale «è interesse dell’Italia che chi lavora nel nostro paese, paga le tasse e contribuisce al Pil nazionale abbia una rappresentanza: vorrebbe dire un fattore di sicurezza e di riduzione del conflitto dal momento che tutto quello che avviene alla luce del sole è controllabile e governabile».
In un continente moderno dove coesistono stati e civiltà, il primato della persona deve essere sopra tutto, così come il presidente Fini aveva ripreso nel suo discorso alla nuova Fiera di Roma, quando aveva sottolineato che «va difesa e in qualche modo incrementata la dignità della persona umana quale che sia il colore della pelle, quale che sia il Dio in cui credi, quale che sia il ruolo sociale».
Può una legge, datata e palesemente insufficiente, porsi di traverso alle mutanti esigenze di una collettività in continua evoluzione? In queste giornate, per tanti versi drammatiche per gli immigrati nel nostro paese, emergono storie di vite incrociate, di ragazzi, - non hanno più di trent’anni - che, nonostante siano nati in Italia non hanno conquistato lo status di italiani. Qualcuno obietterà: la solita burocrazia farraginosa, pachidermia, stucchevole di casa nostra? Non solo.
Qui si tratta di comprendere come il termine integrazione debba provenire sì da un comma o da un decreto (meglio se non d’urgenza), ma anche da spunti più civici, per consentire un processo di maturazione socio-culturale. Loretta Grace è una cantante di origini nigeriane nata e vissuta ad Ancona. Mohamed Tailmoun è laureato in sociologia, e da tre decenni vive in a Roma. Due esempi di individui dediti ad una personale corsa contro il tempo per il riconoscimento della cittadinanza italiana. La legge n°91 del ’92 prevede infatti che i figli di immigrati, la cosiddetta seconda generazione, abbiano diritto alla cittadinanza solo se dimostrino di aver vissuto nel nostro paese per diciotto anni consecutivamente. E ciò con una serie infinita di carte e scartoffie, che vanno dalle pagelle scolastiche alle prove di vaccinazione: tutto ciò potrebbe essere vanificato se l’italiano in questione (perché di italiano o italiana indiscutibilmente si tratta) in quei diciotto anni si fosse spostato anche per qualche mese.
«Una legge assurda e anacronistica - riflette Eugenio Cardi, responsabile dell’osservatorio Ugl sui fenomeni sociali e promotore della tavola rotonda ‘Sono una seconda generazione, figlio di immigrati nato in Italia: cittadino italiano? Quando e come?’- dal momento che negli ultimi vent’anni il panorama sociale è cambiato completamente». Al tempo in cui quella legge fu partorita il fenomeno delle seconde generazioni era da queste parti sconosciuto, nè vi furono tentativi di aggiornarsi magari facendo raffronti con paesi dove l’immigrazione si era radicata ben prima che in Italia, vedi la Francia o la Germania.
Ecco la politica nostrana niente affatto lungimirante, che si preoccupa delle problematiche giorno per giorno, man mano che si presentano, senza una programmazione che guardi avanti e al di là del proprio naso, che avrebbe il vantaggio di sanare in tempo utile ferite e lacerazioni, confezionando un paese migliore, e non per voler fare retorica.
Due testimonianze dirette, dunque, che fanno toccare con mano il disagio che la cosiddetta rete G2 purtroppo oggi patisce nelle nostre città e nei nostri parchi pubblici, nelle nostre scuole, nei ristoranti, negli aeroporti, nei musei. Insomma in quello stesso paese che nel 2008 ha registrato la presenza di un milione di figli dell’immigrazione e dove si calcola che fra quarant’anni gli studenti stranieri potrebbero addirittura superare numericamente quelli nostrani. Numeri che impongono una riflessione e una presa di coscienza immediata, così come la tavola rotonda ha inteso fare, alla presenza tra gli altri di esponenti delle istituzioni (Renata Polverini, don Giandomenico Gnesotto, Mario Morcone, Giovanni Puglisi, Savino Pezzotta, Mussie Zerai, Valerio Savio) e dell’arte (Francesca Reggiani, Mimmo Calopresti e Salvatore Marino). Sostegno che parallelamente è venuto anche da Massimo D’Alema secondo il quale «è interesse dell’Italia che chi lavora nel nostro paese, paga le tasse e contribuisce al Pil nazionale abbia una rappresentanza: vorrebbe dire un fattore di sicurezza e di riduzione del conflitto dal momento che tutto quello che avviene alla luce del sole è controllabile e governabile».
In un continente moderno dove coesistono stati e civiltà, il primato della persona deve essere sopra tutto, così come il presidente Fini aveva ripreso nel suo discorso alla nuova Fiera di Roma, quando aveva sottolineato che «va difesa e in qualche modo incrementata la dignità della persona umana quale che sia il colore della pelle, quale che sia il Dio in cui credi, quale che sia il ruolo sociale».
APRITE I LUCCHETTI
Da FFwebmagazine del 04/05/09
Campetti di calcio sotto il Colosseo per una festa dello sport in grande stile che rievochi antichi fasti: chi ha paura di tornare indietro a duemilaottantanove anni fa? Era l’80 avanti Cristo quanto Tito inaugurò una delle meraviglie della storia, che venne utilizzata come stadio per spettacoli di gladiatori e manifestazioni pubbliche. Oggi è stata candidata a luogo prescelto per ospitare l’Uefa Champions Festival Colosseum, dal 23 al 27 maggio, giorno della finale di Champion’s League che si terrà proprio nella capitale. Dove sta la minaccia al patrimonio italiano e mondiale?
Alla notizia, i veterani della politica vecchia e stantìa di casa nostra, non hanno avuto di meglio da fare che sparare a zero contro un’idea classificata come insicura per la gente (sono previste per caso slavine o maremoti?), dannosa per le antichità dei Fori (gabinetti chimici e tribune verranno montati forse sopra l’Arco di Costantino?). Ed ecco sciami di parole contro una proposta apostrofata pericolosa, dannosa, quasi che il sindaco Alemanno intendesse portare dentro il Colosseo 200mila persone colpite da febbre suina.
Il Colosseo nell’antica Roma era un luogo dedito allo sport, era uno stadio insomma. Non un museo dove oggi si vuol far credere che si perpetri chissà quale azione dissacratoria. Tito, figlio di Vespasiano che inaugurò i lavori ma morì prima della loro ultimazione, vi fece disputare i cento giorni di giochi proprio nell’80 a.C. Due anni fa, in occasione della finale di Champion’s League tra Milan e Liverpool ad Atene, i campetti e gli stands in questione furono posizionati all’interno del meraviglioso Kalimarmaron Panatinaikon Stadium (l’unico al mondo completamente in marmo bianco dove il nostro Baldini vinse l’oro nella maratona olimpica del 2004), stadio dove tra l’altro, giusto per rimanere ad eventi “recenti”, si svolsero le prime Olimpiadi moderne nel 1896, senza che alcuna penna versasse inchiostro in proposito, se non apprezzandone la location.
Campi in erba sintetica su via di San Gregorio e su piazza del Colosseo, servizi igienici per i visitatori e stands per le strade, in un momento in cui tutto il mondo potrà godere di quello che è stato definito da un ironico commentatore “stupido e noioso pietrame grigiastro”, il quale con queste parole voleva bollare l’iniziativa come “perdita della memoria”(esperimento fallito, tra l’altro). Riproporre oggi sport e giochi pallonari quale alto senso morale dovrebbe svilire? I campetti “infamanti” inoltre si troverebbero ad essere allocati nei pressi di quegli stessi luoghi dove Tito fece edificare spogliatoi e spazi per gli allenamenti degli atleti. Èquesto dunque il sacrilegio in barba alla storia? Chi avanza così ferocemente critiche e allusioni o travisa i fatti o non guarda in avanti con spirito costruttivo.
Certo, se poi quel qualcuno ricorda addirittura come un “incubo” il memorabile concerto tenuto dai Pink Floyd a Venezia, non fa altro che, con tutto il rispetto, anzi no, professare una bestemmia, perché quell’evento ha fatto storia, ha segnato un’epoca, ha rappresentato un momento di musica, cultura, aggregazione, produzione di idee allo stato puro. Definirla incubo, (liberi tutti di ascoltare o meno la band di Money, di annoverarla o meno tra i preferiti, ci mancherebbe), o etichettarla come scempio significa però cancellare fatti veri e vissuti. Sarebbe come dire che Woodstock non c’è mai stata. Un’assurdità.
Addirittura qualcuno (lo stesso del “pietrame” e dei Pink Floyd) ha paventato che le dimissioni di Guido Bertolaso da commissario della Soprintendenza archeologica di Roma, potessero in qualche misura derivare dal timore che gli eventi calcistici tra i Fori del prossimo maggio rappresentino un gravità assoluta, con danni di immagine alla città, per una kermesse che sarà una “vera emergenza”. Ragionamenti figli di una cultura obsoleta, impolverata, la cui evoluzione non si è mai verificata completamente, che si continua ad arroccare su posizioni “archeologiche”, lontane da una qualsiasi forma di progresso, soggiogata ancora da lacci ideologici che non la fanno progredire.
Aiuto, svegliateci dal marasma di invettive e di commenti più o meno autorizzati a fermare per sempre l’orologio del tempo. Nessuno qui dice di voler consentire a calciatori e massaggiatori di effettuare il riscaldamento tirando calci ad un pallone contro l’Arco di Costantino o contro quel che resta di cotanta storia, solo che come rammentava tempo fa Rita Levi Montalcini “non si può mettere il lucchetto al cervello”. Perché fermare la produzione di idee e proposte? Forse qualcuno ha paura che menti e iniziative possano in qualche maniera rompere l’oblio in cui certa sinistra (culturale, giornalistica, artistica, politica) vorrebbe che il paese intero continuasse ad essere avvolto? Semplicemente non esiste una paura del genere, non è politica, non è un’azione rivolta al domani, perchè non ha futuro.
Campetti di calcio sotto il Colosseo per una festa dello sport in grande stile che rievochi antichi fasti: chi ha paura di tornare indietro a duemilaottantanove anni fa? Era l’80 avanti Cristo quanto Tito inaugurò una delle meraviglie della storia, che venne utilizzata come stadio per spettacoli di gladiatori e manifestazioni pubbliche. Oggi è stata candidata a luogo prescelto per ospitare l’Uefa Champions Festival Colosseum, dal 23 al 27 maggio, giorno della finale di Champion’s League che si terrà proprio nella capitale. Dove sta la minaccia al patrimonio italiano e mondiale?
Alla notizia, i veterani della politica vecchia e stantìa di casa nostra, non hanno avuto di meglio da fare che sparare a zero contro un’idea classificata come insicura per la gente (sono previste per caso slavine o maremoti?), dannosa per le antichità dei Fori (gabinetti chimici e tribune verranno montati forse sopra l’Arco di Costantino?). Ed ecco sciami di parole contro una proposta apostrofata pericolosa, dannosa, quasi che il sindaco Alemanno intendesse portare dentro il Colosseo 200mila persone colpite da febbre suina.
Il Colosseo nell’antica Roma era un luogo dedito allo sport, era uno stadio insomma. Non un museo dove oggi si vuol far credere che si perpetri chissà quale azione dissacratoria. Tito, figlio di Vespasiano che inaugurò i lavori ma morì prima della loro ultimazione, vi fece disputare i cento giorni di giochi proprio nell’80 a.C. Due anni fa, in occasione della finale di Champion’s League tra Milan e Liverpool ad Atene, i campetti e gli stands in questione furono posizionati all’interno del meraviglioso Kalimarmaron Panatinaikon Stadium (l’unico al mondo completamente in marmo bianco dove il nostro Baldini vinse l’oro nella maratona olimpica del 2004), stadio dove tra l’altro, giusto per rimanere ad eventi “recenti”, si svolsero le prime Olimpiadi moderne nel 1896, senza che alcuna penna versasse inchiostro in proposito, se non apprezzandone la location.
Campi in erba sintetica su via di San Gregorio e su piazza del Colosseo, servizi igienici per i visitatori e stands per le strade, in un momento in cui tutto il mondo potrà godere di quello che è stato definito da un ironico commentatore “stupido e noioso pietrame grigiastro”, il quale con queste parole voleva bollare l’iniziativa come “perdita della memoria”(esperimento fallito, tra l’altro). Riproporre oggi sport e giochi pallonari quale alto senso morale dovrebbe svilire? I campetti “infamanti” inoltre si troverebbero ad essere allocati nei pressi di quegli stessi luoghi dove Tito fece edificare spogliatoi e spazi per gli allenamenti degli atleti. Èquesto dunque il sacrilegio in barba alla storia? Chi avanza così ferocemente critiche e allusioni o travisa i fatti o non guarda in avanti con spirito costruttivo.
Certo, se poi quel qualcuno ricorda addirittura come un “incubo” il memorabile concerto tenuto dai Pink Floyd a Venezia, non fa altro che, con tutto il rispetto, anzi no, professare una bestemmia, perché quell’evento ha fatto storia, ha segnato un’epoca, ha rappresentato un momento di musica, cultura, aggregazione, produzione di idee allo stato puro. Definirla incubo, (liberi tutti di ascoltare o meno la band di Money, di annoverarla o meno tra i preferiti, ci mancherebbe), o etichettarla come scempio significa però cancellare fatti veri e vissuti. Sarebbe come dire che Woodstock non c’è mai stata. Un’assurdità.
Addirittura qualcuno (lo stesso del “pietrame” e dei Pink Floyd) ha paventato che le dimissioni di Guido Bertolaso da commissario della Soprintendenza archeologica di Roma, potessero in qualche misura derivare dal timore che gli eventi calcistici tra i Fori del prossimo maggio rappresentino un gravità assoluta, con danni di immagine alla città, per una kermesse che sarà una “vera emergenza”. Ragionamenti figli di una cultura obsoleta, impolverata, la cui evoluzione non si è mai verificata completamente, che si continua ad arroccare su posizioni “archeologiche”, lontane da una qualsiasi forma di progresso, soggiogata ancora da lacci ideologici che non la fanno progredire.
Aiuto, svegliateci dal marasma di invettive e di commenti più o meno autorizzati a fermare per sempre l’orologio del tempo. Nessuno qui dice di voler consentire a calciatori e massaggiatori di effettuare il riscaldamento tirando calci ad un pallone contro l’Arco di Costantino o contro quel che resta di cotanta storia, solo che come rammentava tempo fa Rita Levi Montalcini “non si può mettere il lucchetto al cervello”. Perché fermare la produzione di idee e proposte? Forse qualcuno ha paura che menti e iniziative possano in qualche maniera rompere l’oblio in cui certa sinistra (culturale, giornalistica, artistica, politica) vorrebbe che il paese intero continuasse ad essere avvolto? Semplicemente non esiste una paura del genere, non è politica, non è un’azione rivolta al domani, perchè non ha futuro.
giovedì 30 aprile 2009
FIORELLA M'ANNOIA
da FFwebmagazine del 30/04/09
Dunque, Fiorella Mannoia, di professione cantautrice, ci ha deliziato con un verso non propriamente musicale, ma dall’alto contenuto demagogico, intervenendo a un incontro con il candidato sindaco piddì al Comune di Firenze, Matteo Renzi: «Sotto il sindaco Veltroni Roma respirava un’aria di apertura, di accoglienza – ha detto all’Ansa –. Con Alemanno, invece, si respira violenza, ostilità, e questo succede perché i cittadini tendono sempre ad assomigliare a chi li amministra».
Sarà forse la cornice da campagna elettorale, sarà la primavera che un po’ annebbia idee e concetti, ma, stando al ragionamento proposto a noi comuni mortali, la deriva comportamentale dei cittadini scaturirebbe nientemeno che dalla somiglianza con chi gestisce l’amministrazione? Abbiamo sentito bene? Il sindaco di Roma sprizza da tutti i pori violenza e ostilità?
Se dessimo credito a questa ardita tesi, per esempio, il giallo di Garlasco dipenderebbe dalla vena omicida del suo sindaco? Oppure gli scontri nelle banlieue parigine sarebbero direttamente proporzionali alla folle caratura del presidente Sarkozy? O forse l’omicidio di Meredith sarebbe imputabile alla cattiveria del governatore dell’Umbria? E la febbra suina forse colpa della tendenza virale del presidente messicano Felipe Calderon Hinijosa? Panzane, solo panzane.
E ancora: «Oggi a Roma c’è un odio che prima non c’era – ha aggiunto la Mannoia –. L’ amministrazione, che pubblicamente dice di non approvare manifestazioni razziste, sotto sotto poi le incoraggia. Quartieri periferici tornati sotto la gestione di Walter Veltroni allo splendore, con tante iniziative, oggi sono diventati posti dove si ha paura». Paura abbiamo noi quando c’è gente simile che va in giro a dire cose senza senso. I conti non tornano, nemmeno approssimandoli per eccesso.
«Vivo canto e vivo – recitava una sua canzone di qualche anno fa – mi perdo e mi ritrovo». Beh, in effetti il ragionamento demagogico della cantante pare il frutto di un perdersi senza però ritrovarsi, quasi fossimo in un labirinto dove la favella e il ragionamento lasciano il posto a note quanto mai stonate.
L’odio non è generato, come la Mannoia sconsideratamente accusa, dall’amministrazione Alemanno che incoraggia le manifestazioni razziste: eh no, non è bello professare a vanvera, sparando nel mucchio senza rendersi conto delle parole. Altro che macigni, sono proprio uscite come queste che non stemperano gli episodi di violenza che accadono in tutte le città, non soltanto nella Capitale, ma ne amplificano gli echi. Odio genera odio.
Certo, se poi le dichiarazioni della rossa già plurivincitrice del premio Tenco miravano a una sua eventuale prossima candidatura da qualche altra parte sotto ovviamente le bandiere del Pd (ma non è esclusa al momento l’Idv, più consona a certi insulti), bastava dirlo prima.
È chiaro, inoltre, che da un’affermata cantautrice, peraltro nominata Ufficiale nel 2005 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ci saremmo aspettati qualcosa di meglio che un paio di frasi buttate là con deferenza e senza il benché minimo rispetto per il destinatario di tali sciagurate considerazioni. Ma tant’è.
La chiusa spetta di diritto a un’altra canzone della Mannoia, «tutti cercano qualcosa magari per vie infinite, magari per vie difficili e misteriose. A volte con arroganza e a volte senza pudore».
Ecco, a volte almeno un pizzico di pudore non sarebbe sconveniente che venisse mescolato con sapienza e, perché no, senza parsimonia, nel pentolone delle dichiarazioni-fiume alle quali non è dato purtroppo sottrarsi.
Dunque, Fiorella Mannoia, di professione cantautrice, ci ha deliziato con un verso non propriamente musicale, ma dall’alto contenuto demagogico, intervenendo a un incontro con il candidato sindaco piddì al Comune di Firenze, Matteo Renzi: «Sotto il sindaco Veltroni Roma respirava un’aria di apertura, di accoglienza – ha detto all’Ansa –. Con Alemanno, invece, si respira violenza, ostilità, e questo succede perché i cittadini tendono sempre ad assomigliare a chi li amministra».
Sarà forse la cornice da campagna elettorale, sarà la primavera che un po’ annebbia idee e concetti, ma, stando al ragionamento proposto a noi comuni mortali, la deriva comportamentale dei cittadini scaturirebbe nientemeno che dalla somiglianza con chi gestisce l’amministrazione? Abbiamo sentito bene? Il sindaco di Roma sprizza da tutti i pori violenza e ostilità?
Se dessimo credito a questa ardita tesi, per esempio, il giallo di Garlasco dipenderebbe dalla vena omicida del suo sindaco? Oppure gli scontri nelle banlieue parigine sarebbero direttamente proporzionali alla folle caratura del presidente Sarkozy? O forse l’omicidio di Meredith sarebbe imputabile alla cattiveria del governatore dell’Umbria? E la febbra suina forse colpa della tendenza virale del presidente messicano Felipe Calderon Hinijosa? Panzane, solo panzane.
E ancora: «Oggi a Roma c’è un odio che prima non c’era – ha aggiunto la Mannoia –. L’ amministrazione, che pubblicamente dice di non approvare manifestazioni razziste, sotto sotto poi le incoraggia. Quartieri periferici tornati sotto la gestione di Walter Veltroni allo splendore, con tante iniziative, oggi sono diventati posti dove si ha paura». Paura abbiamo noi quando c’è gente simile che va in giro a dire cose senza senso. I conti non tornano, nemmeno approssimandoli per eccesso.
«Vivo canto e vivo – recitava una sua canzone di qualche anno fa – mi perdo e mi ritrovo». Beh, in effetti il ragionamento demagogico della cantante pare il frutto di un perdersi senza però ritrovarsi, quasi fossimo in un labirinto dove la favella e il ragionamento lasciano il posto a note quanto mai stonate.
L’odio non è generato, come la Mannoia sconsideratamente accusa, dall’amministrazione Alemanno che incoraggia le manifestazioni razziste: eh no, non è bello professare a vanvera, sparando nel mucchio senza rendersi conto delle parole. Altro che macigni, sono proprio uscite come queste che non stemperano gli episodi di violenza che accadono in tutte le città, non soltanto nella Capitale, ma ne amplificano gli echi. Odio genera odio.
Certo, se poi le dichiarazioni della rossa già plurivincitrice del premio Tenco miravano a una sua eventuale prossima candidatura da qualche altra parte sotto ovviamente le bandiere del Pd (ma non è esclusa al momento l’Idv, più consona a certi insulti), bastava dirlo prima.
È chiaro, inoltre, che da un’affermata cantautrice, peraltro nominata Ufficiale nel 2005 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ci saremmo aspettati qualcosa di meglio che un paio di frasi buttate là con deferenza e senza il benché minimo rispetto per il destinatario di tali sciagurate considerazioni. Ma tant’è.
La chiusa spetta di diritto a un’altra canzone della Mannoia, «tutti cercano qualcosa magari per vie infinite, magari per vie difficili e misteriose. A volte con arroganza e a volte senza pudore».
Ecco, a volte almeno un pizzico di pudore non sarebbe sconveniente che venisse mescolato con sapienza e, perché no, senza parsimonia, nel pentolone delle dichiarazioni-fiume alle quali non è dato purtroppo sottrarsi.
Sì AL REFERENDUM, VERSO LA NUOVA ITALIA
da FFwebmagazine del 29/04/09
Arriva da Varsavia la conferma del premier sul voto al referendum del 21 giugno, che vorrebbe modificare in chiave riformista la seconda parte della Costituzione: Silvio Berlusconi barrerà la casella del “sì”. Il coro di supporto alla consultazione aveva già raccolto il consenso di molti esponenti del Pdl. Da sempre in prima linea sul fronte referendario anche la Fondazione Farefuturo, con il suo presidente Gianfranco Fini (firmatario della prima ora) e il segretario generale Adolfo Urso.
Come ha dichiarato Giovanni Guzzetta, che del referendum è il promotore assieme a Mario Segni, «il referendum avvantaggia chi ha più capacità di aggregare consenso: oggi l’uno, domani l’altro. È la regola della democrazia dell’alternanza: sono gli elettori a decidere. Chi corre corre per vincere, e chi vince crea un governo stabile. Chi sbaglia o non convince la volta successiva va a casa. E oggi anche l’Italia questo tipo di democrazia se la può permettere».
La scelta del presidente del Consiglio si è articolata sulla considerazione che il quesito concede il premio di maggioranza al partito più forte. Tre i quesiti che gli elettori si troveranno di fronte nella cabina elettorale. Il primo e il secondo quesito sanciscono il no alle coalizioni. Nello specifico si vorrebbe abrogare per Camera e Senato la disciplina che consente il collegamento fra liste. In caso di vittoria del sì, il premio di maggioranza si attribuirebbe solo alla singola lista che ha ottenuto il maggior numero di seggi, e non alla coalizione di liste. Il terzo quesito prevede l’impossibilità delle candidature multiple, ovvero si prevede di eliminare la possibile candidatura in più circoscrizioni, sia Camera che Senato. Un doppio risultato che, come ha più volte ribadito anche Adolfo Urso, serve a salvaguardare il bipolarismo nel nostro paese, contribuendo a una spinta innovativa e modernizzatrice che non potrà che avere benefici in Italia.
Nei giorni scorsi lo stesso Guzzetta era intervenuto pubblicamente per dissipare i dubbi di costituzionalità (bollati come «sciocchezze da bocciatura all’esame di Diritto costituzionale. Non lo dico solo io ma cinque diversi presidenti emeriti della Corte costituzionale») e, soprattutto in merito alla consultazione, sostenendo che «questo è un referendum abrogativo, noi non inventiamo nulla. Non siamo stati noi ad abrogare il maggioritario voluto e votato dagli italiani. Il premio di maggioranza c’è già nel porcellum. L’effetto maggiore del referendum sarebbe colpire il potere di ricatto dei piccoli partiti. E poi soprattutto rimediare allo scandalo del parlamento di nominati, abrogando le candidature multiple».
Questo referendum è un tema quanto mai determinante per la futura composizione delle istituzioni governative del paese. Perché, parafrasando un altro passaggio del discorso del presidente Fini alla nuova Fiera di Roma «non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere». E dal referendum del 21 giugno quella stessa democrazia governante potrebbe trarre indubbio giovamento.
Arriva da Varsavia la conferma del premier sul voto al referendum del 21 giugno, che vorrebbe modificare in chiave riformista la seconda parte della Costituzione: Silvio Berlusconi barrerà la casella del “sì”. Il coro di supporto alla consultazione aveva già raccolto il consenso di molti esponenti del Pdl. Da sempre in prima linea sul fronte referendario anche la Fondazione Farefuturo, con il suo presidente Gianfranco Fini (firmatario della prima ora) e il segretario generale Adolfo Urso.
Come ha dichiarato Giovanni Guzzetta, che del referendum è il promotore assieme a Mario Segni, «il referendum avvantaggia chi ha più capacità di aggregare consenso: oggi l’uno, domani l’altro. È la regola della democrazia dell’alternanza: sono gli elettori a decidere. Chi corre corre per vincere, e chi vince crea un governo stabile. Chi sbaglia o non convince la volta successiva va a casa. E oggi anche l’Italia questo tipo di democrazia se la può permettere».
La scelta del presidente del Consiglio si è articolata sulla considerazione che il quesito concede il premio di maggioranza al partito più forte. Tre i quesiti che gli elettori si troveranno di fronte nella cabina elettorale. Il primo e il secondo quesito sanciscono il no alle coalizioni. Nello specifico si vorrebbe abrogare per Camera e Senato la disciplina che consente il collegamento fra liste. In caso di vittoria del sì, il premio di maggioranza si attribuirebbe solo alla singola lista che ha ottenuto il maggior numero di seggi, e non alla coalizione di liste. Il terzo quesito prevede l’impossibilità delle candidature multiple, ovvero si prevede di eliminare la possibile candidatura in più circoscrizioni, sia Camera che Senato. Un doppio risultato che, come ha più volte ribadito anche Adolfo Urso, serve a salvaguardare il bipolarismo nel nostro paese, contribuendo a una spinta innovativa e modernizzatrice che non potrà che avere benefici in Italia.
Nei giorni scorsi lo stesso Guzzetta era intervenuto pubblicamente per dissipare i dubbi di costituzionalità (bollati come «sciocchezze da bocciatura all’esame di Diritto costituzionale. Non lo dico solo io ma cinque diversi presidenti emeriti della Corte costituzionale») e, soprattutto in merito alla consultazione, sostenendo che «questo è un referendum abrogativo, noi non inventiamo nulla. Non siamo stati noi ad abrogare il maggioritario voluto e votato dagli italiani. Il premio di maggioranza c’è già nel porcellum. L’effetto maggiore del referendum sarebbe colpire il potere di ricatto dei piccoli partiti. E poi soprattutto rimediare allo scandalo del parlamento di nominati, abrogando le candidature multiple».
Questo referendum è un tema quanto mai determinante per la futura composizione delle istituzioni governative del paese. Perché, parafrasando un altro passaggio del discorso del presidente Fini alla nuova Fiera di Roma «non può esserci contraddizione, né in termini culturali, né in termini istituzionali, tra democrazia intesa come diritto del popolo di far sentire la propria voce attraverso i propri rappresentanti e una democrazia capace di governare, non soltanto di discutere, non soltanto di analizzare, ma capace di decidere». E dal referendum del 21 giugno quella stessa democrazia governante potrebbe trarre indubbio giovamento.
IL SULTANATO D'ITALIA?
da FFwebmagazine del 24/04/09
I dittatori di ieri abrogavano la Costituzione, «oggi si infiltrano gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuotano dall’interno»: la diagnosi è del politologo Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera, professore alla Columbia University, e costituisce la prefazione al volume Il Sultanato, che ripercorre gli ultimi tre anni della vita politica italiana con una penna schietta e puntuale, senza scadere né in demagogia né in facili moralismi risolutori.
Dal Governo Prodi, tenuto in vita artificialmente dai voti dei senatori a vita, alla gestazione del Partito democratico, sino all’avvento di Veltroni e alla sua sconfitta elettorale dello scorso anno, passando dai grandi temi di interesse collettivo: riforma costituzionale, conflitto di interessi, crisi economica.
Come cambiano i sistemi politici di inizio millennio? Come mai l’Italia, nonostante la Prima e la Seconda Repubblica fatica e staccarsi dall’immagine pachidermia di uno stato che non risolve i propri problemi? Il libro, e soprattutto la prefazione, parte dalla definizione di dittatura: «regime di potere assoluto e concentrato in una sola persona nel quale il diritto è sottomesso alla forza. L’esatto contrario dei sistemi democratico-costituzionali, nei quali è la forza che è sottomessa al diritto». Il punto dal quale iniziare a ragionare è il concetto di garanzia e di buonsenso. Un sistema amministrativo e politico che mortifica le istituzioni, secondo Sartori, entra in una strategia che cassa irrimediabilmente le strutture garantistiche. Di pari passo medita sul fatto che la scomparsa del buonsenso prefigura un mondo sempre più popolato da stupidi: «Il buonsenso è tale perché incorpora saggezza». Due concetti che si ergono ad assolute colonne portanti di una società moderna e funzionale, ma che sovente in Italia vengono in quale misura delegittimate.
La rivisitazione degli ultimi trentasei mesi della politica di casa nostra porta l’autore ad individuare due scure sotto le quali il paese affonda: gli imbroglioni di turno che ispirano fiducia, e la sottomissione cronica nei confronti di tre «palle al piede per l’Italia», ovvero la mafia («il Governo non ne parla affatto»), il lassismo amministrativo («nei ministeri si lavora poco») e il diritto disatteso («sciopero endemico nei servizi pubblici»).
Molteplici gli esempi che Sartori evidenzia nelle centosettanta pagine del libro, accomunate da una maggiore esigenza di puro rispetto per le istituzioni e per le regole, ovvero per la Costituzione. Proprio sulle regole sottolinea che se esse sono malfatte non funzionano e creano un paese che non funziona. Se limitano poco e male il potere sono regole che portano all’abuso di potere. Chiaro il riferimento al bilanciamento dei poteri, in ottica di una riforma costituzionale, sulla quale l’autore nonostante abbia una posizione precisa di conservatorismo della Carta, si mostra disponibile al superamento del bicameralismo perfetto garantendo pesi e contrappesi. Ma è su chi deve lavorare per la modifica che si concentra la sua azione di rottura: nel modificare la Costituzione i parlamentari secondo Sartori sono parte in causa e quindi in conflitto di interessi, «perché difendono strenuamente il sistema elettorale che favorisce la loro parte e le strutture di potere che danno loro potere». Quindi propone che la Carta venga riformata da costituzionalisti, così come il codice penale è riformato da penalisti e quello civile da privatisti.
Punto fermo è il non-colore delle costituzioni, dal momento che esse non sono né di destra né di sinistra, «o sono ben fatte o sono malfatte», sottintendendo che verranno giudicate sulla base di criteri di funzionalità. Spazio anche ai timori che nutre, soprattutto riferiti a una «democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida», e ai risvolti economici, «siamo una democrazia in decrescita, caduta nel vortice di uno sviluppo non sostenibile, che distribuisce più di quel che produce». Ce n’è anche per l’attuale legge elettorale, con precise stilettate al suo estensore, «Calderoli ha ragione- dice Sartori- quando definisce la sua legge una porcata, una legge che fa male al paese solo per far male a un concorrente elettorale», e per le mille peripezie del Partito democratico, con il passaggio di consegne Prodi-Veltroni.
Ma è all’interno delle valutazioni sulla tipologia delle dittature moderne che Sartori punzecchia il Governo quando afferma che Berlusconi non è ovviamente un dittatore perché non viola la Costituzione, per poi immediatamente dopo chiedersi: potrebbe diventarlo? «Sì - afferma il politologo insignito tra l’altro del Premio Principe de Asturias, il Nobel delle scienze sociali - le riforme che caldeggia mirano a depotenziare e fagocitare i contropoteri che lo incalzano». Da qui il titolo Il sultanato, riferito a un grande harem, estensore di un potere dispotico, nel quale ovviamente non mancano belle fanciulle, del quale Sartori ha paura al pari del livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato da una maggioranza dei nostri onorevoli: «Altro che bipartitismo compiuto, qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti».
I dittatori di ieri abrogavano la Costituzione, «oggi si infiltrano gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuotano dall’interno»: la diagnosi è del politologo Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera, professore alla Columbia University, e costituisce la prefazione al volume Il Sultanato, che ripercorre gli ultimi tre anni della vita politica italiana con una penna schietta e puntuale, senza scadere né in demagogia né in facili moralismi risolutori.
Dal Governo Prodi, tenuto in vita artificialmente dai voti dei senatori a vita, alla gestazione del Partito democratico, sino all’avvento di Veltroni e alla sua sconfitta elettorale dello scorso anno, passando dai grandi temi di interesse collettivo: riforma costituzionale, conflitto di interessi, crisi economica.
Come cambiano i sistemi politici di inizio millennio? Come mai l’Italia, nonostante la Prima e la Seconda Repubblica fatica e staccarsi dall’immagine pachidermia di uno stato che non risolve i propri problemi? Il libro, e soprattutto la prefazione, parte dalla definizione di dittatura: «regime di potere assoluto e concentrato in una sola persona nel quale il diritto è sottomesso alla forza. L’esatto contrario dei sistemi democratico-costituzionali, nei quali è la forza che è sottomessa al diritto». Il punto dal quale iniziare a ragionare è il concetto di garanzia e di buonsenso. Un sistema amministrativo e politico che mortifica le istituzioni, secondo Sartori, entra in una strategia che cassa irrimediabilmente le strutture garantistiche. Di pari passo medita sul fatto che la scomparsa del buonsenso prefigura un mondo sempre più popolato da stupidi: «Il buonsenso è tale perché incorpora saggezza». Due concetti che si ergono ad assolute colonne portanti di una società moderna e funzionale, ma che sovente in Italia vengono in quale misura delegittimate.
La rivisitazione degli ultimi trentasei mesi della politica di casa nostra porta l’autore ad individuare due scure sotto le quali il paese affonda: gli imbroglioni di turno che ispirano fiducia, e la sottomissione cronica nei confronti di tre «palle al piede per l’Italia», ovvero la mafia («il Governo non ne parla affatto»), il lassismo amministrativo («nei ministeri si lavora poco») e il diritto disatteso («sciopero endemico nei servizi pubblici»).
Molteplici gli esempi che Sartori evidenzia nelle centosettanta pagine del libro, accomunate da una maggiore esigenza di puro rispetto per le istituzioni e per le regole, ovvero per la Costituzione. Proprio sulle regole sottolinea che se esse sono malfatte non funzionano e creano un paese che non funziona. Se limitano poco e male il potere sono regole che portano all’abuso di potere. Chiaro il riferimento al bilanciamento dei poteri, in ottica di una riforma costituzionale, sulla quale l’autore nonostante abbia una posizione precisa di conservatorismo della Carta, si mostra disponibile al superamento del bicameralismo perfetto garantendo pesi e contrappesi. Ma è su chi deve lavorare per la modifica che si concentra la sua azione di rottura: nel modificare la Costituzione i parlamentari secondo Sartori sono parte in causa e quindi in conflitto di interessi, «perché difendono strenuamente il sistema elettorale che favorisce la loro parte e le strutture di potere che danno loro potere». Quindi propone che la Carta venga riformata da costituzionalisti, così come il codice penale è riformato da penalisti e quello civile da privatisti.
Punto fermo è il non-colore delle costituzioni, dal momento che esse non sono né di destra né di sinistra, «o sono ben fatte o sono malfatte», sottintendendo che verranno giudicate sulla base di criteri di funzionalità. Spazio anche ai timori che nutre, soprattutto riferiti a una «democrazia che uccide la democrazia, la democrazia che si suicida», e ai risvolti economici, «siamo una democrazia in decrescita, caduta nel vortice di uno sviluppo non sostenibile, che distribuisce più di quel che produce». Ce n’è anche per l’attuale legge elettorale, con precise stilettate al suo estensore, «Calderoli ha ragione- dice Sartori- quando definisce la sua legge una porcata, una legge che fa male al paese solo per far male a un concorrente elettorale», e per le mille peripezie del Partito democratico, con il passaggio di consegne Prodi-Veltroni.
Ma è all’interno delle valutazioni sulla tipologia delle dittature moderne che Sartori punzecchia il Governo quando afferma che Berlusconi non è ovviamente un dittatore perché non viola la Costituzione, per poi immediatamente dopo chiedersi: potrebbe diventarlo? «Sì - afferma il politologo insignito tra l’altro del Premio Principe de Asturias, il Nobel delle scienze sociali - le riforme che caldeggia mirano a depotenziare e fagocitare i contropoteri che lo incalzano». Da qui il titolo Il sultanato, riferito a un grande harem, estensore di un potere dispotico, nel quale ovviamente non mancano belle fanciulle, del quale Sartori ha paura al pari del livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato da una maggioranza dei nostri onorevoli: «Altro che bipartitismo compiuto, qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti».
venerdì 24 aprile 2009
ELIO QUERCIOLI E QUEL RIFORMISMO UNITARIO
Da FFwebmagazine del 24/04/09
Non solo un antifascista, ma portatore sano di una laicità vera, e anche un antigolpista, come dimostra l’inserimento del suo nome nella lista dei 700 “enucleandi” da parte dei seguaci del generale De Lorenzo. Elio Quercioli, comunista, riformista e personalità molto incline al dialogo, iniziò l’attività politica poco più che quattordicenne, quando con alcuni compagni di scuola del liceo “Manzoni” iniziò a maneggiare i primi volantini in difesa della pace. Giornalista, sposò Mimma Paulesu nipote di Antonio Gramsci, fu direttore de La Voce Comunista e de L’Unità, si caratterizzò non solo per la spiccata propensione verso i temi dell’informazione e dei media, come dimostrato dall’apporto in sede parlamentare, ma soprattutto per la fitta rete di contatti di amicizie che riuscì a tessere, dagli avversari politici fino a mondi ideologicamente ai suoi antipodi, come banchieri e borghesia milanese.
È grazie alla sua figura che nel capoluogo lombardo venne costruito un legame tra Pci e Psi, utile per governare in Giunte dove si realizzò nei fatti l’unità delle sinistre. L’ex sindaco di Milano Tognoli, del quale fu vice dal 1980 al 1985, lo definì un esponente dell’incontro tra comunisti, socialisti e socialdemocratici, fautore «di un riformismo attento al nuovo ed all’evoluzione in atto, moderno e moderato, gradito al mondo del lavoro e ai ceti medi».
Nacque a Milano il 14 settembre del ’27, in via Solari, nel quartiere operaio dell’Umanitaria, da lui stesso definito «quartiere operaio modello con 230 famiglie, asili collettivi, biblioteca, cooperativa, teatro». Nel ’43 si iscrisse al Pci e a soli 17 anni si ritrovò al comando di un distaccamento Sap della 113a Brigata Garibaldi a Milano, soffrendo anche il carcere a san Vittore per due mesi. Dopo la liberazione si dedicò in toto all’attività politica, sacrificando per questo anche gli studi in medicina. Nella sua carriera ricoprì vari incarichi dirigenziali del Pci, da segretario regionale in Lombardia, all’inizio del ‘60 e dal 1970 al 1976, a membro della Direzione nazionale fino al 1980. In seguito in diversi organismi, fino all'ultimo nella federazione milanese Ds, ovvero presidente del collegio dei garanti.
Una delle sue passioni fu la comunicazione, alla quale dedicò non poche energie, non soltanto come giornalista (fu capocronista del L’Unità a Milano tra il ’60 e il ’70) ma anche come deputato (per quattro legislature), sedendo sulla poltrona di vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza del sistema radiotelevisivo, risultando promotore di una serie di iniziative a tutela della qualità dell'informazione nel servizio pubblico, e della regolamentazione dell'intero sistema informativo italiano, pubblico e privato. Fu proprio in quegli anni, occupandosi di riforma dell’editoria, che venne individuato come obiettivo dal terrorismo, assieme al compianto Walter Tobagi.
Quercioli fu definito “uomo delle istituzioni”, per questo gli furono affidati prestigiosi incarichi nel campo della cultura e dell'informazione, della presidenza del Consiglio, e come questore della Camera sotto la presidenza Iotti. Inoltre fu membro dell'Anpi, presidente dell'Istituto di storia della Liberazione, consigliere comunale di Milano dal 1960, e vicesindaco dal 1980 al 1985. Riteneva il dialogo e il rispetto nei modi di fare la stella polare dell’azione politica: è così che si spiegano numerosi rapporti di lavoro che si sono in seguito evoluti in amicizia e stima, con personaggi del calibro di Strehler, Abbado, Rizzoli, Sechi.
Nel dicembre del 2008 gli è stata intitolata una fondazione (http://www.fondazioneelioquercioli.net/), che ha l’obiettivo di ergersi a punto di riferimento delle istanze riformiste all’interno di quel grande contenitore che è la sinistra-socialista europea.
È scomparso a Milano il 4 febbraio del 2001, curiosamente nello stesso giorno in cui si è spento un altro antifascista, Iannis Xenakis, compositore, architetto, ingegnere greco naturalizzato francese, che prese parte alla Resistenza durante il secondo conflitto mondiale, prima di trasferirsi a Parigi e iniziare a collaborare con il grande Le Corbusier.
Non solo un antifascista, ma portatore sano di una laicità vera, e anche un antigolpista, come dimostra l’inserimento del suo nome nella lista dei 700 “enucleandi” da parte dei seguaci del generale De Lorenzo. Elio Quercioli, comunista, riformista e personalità molto incline al dialogo, iniziò l’attività politica poco più che quattordicenne, quando con alcuni compagni di scuola del liceo “Manzoni” iniziò a maneggiare i primi volantini in difesa della pace. Giornalista, sposò Mimma Paulesu nipote di Antonio Gramsci, fu direttore de La Voce Comunista e de L’Unità, si caratterizzò non solo per la spiccata propensione verso i temi dell’informazione e dei media, come dimostrato dall’apporto in sede parlamentare, ma soprattutto per la fitta rete di contatti di amicizie che riuscì a tessere, dagli avversari politici fino a mondi ideologicamente ai suoi antipodi, come banchieri e borghesia milanese.
È grazie alla sua figura che nel capoluogo lombardo venne costruito un legame tra Pci e Psi, utile per governare in Giunte dove si realizzò nei fatti l’unità delle sinistre. L’ex sindaco di Milano Tognoli, del quale fu vice dal 1980 al 1985, lo definì un esponente dell’incontro tra comunisti, socialisti e socialdemocratici, fautore «di un riformismo attento al nuovo ed all’evoluzione in atto, moderno e moderato, gradito al mondo del lavoro e ai ceti medi».
Nacque a Milano il 14 settembre del ’27, in via Solari, nel quartiere operaio dell’Umanitaria, da lui stesso definito «quartiere operaio modello con 230 famiglie, asili collettivi, biblioteca, cooperativa, teatro». Nel ’43 si iscrisse al Pci e a soli 17 anni si ritrovò al comando di un distaccamento Sap della 113a Brigata Garibaldi a Milano, soffrendo anche il carcere a san Vittore per due mesi. Dopo la liberazione si dedicò in toto all’attività politica, sacrificando per questo anche gli studi in medicina. Nella sua carriera ricoprì vari incarichi dirigenziali del Pci, da segretario regionale in Lombardia, all’inizio del ‘60 e dal 1970 al 1976, a membro della Direzione nazionale fino al 1980. In seguito in diversi organismi, fino all'ultimo nella federazione milanese Ds, ovvero presidente del collegio dei garanti.
Una delle sue passioni fu la comunicazione, alla quale dedicò non poche energie, non soltanto come giornalista (fu capocronista del L’Unità a Milano tra il ’60 e il ’70) ma anche come deputato (per quattro legislature), sedendo sulla poltrona di vicepresidente della Commissione parlamentare di vigilanza del sistema radiotelevisivo, risultando promotore di una serie di iniziative a tutela della qualità dell'informazione nel servizio pubblico, e della regolamentazione dell'intero sistema informativo italiano, pubblico e privato. Fu proprio in quegli anni, occupandosi di riforma dell’editoria, che venne individuato come obiettivo dal terrorismo, assieme al compianto Walter Tobagi.
Quercioli fu definito “uomo delle istituzioni”, per questo gli furono affidati prestigiosi incarichi nel campo della cultura e dell'informazione, della presidenza del Consiglio, e come questore della Camera sotto la presidenza Iotti. Inoltre fu membro dell'Anpi, presidente dell'Istituto di storia della Liberazione, consigliere comunale di Milano dal 1960, e vicesindaco dal 1980 al 1985. Riteneva il dialogo e il rispetto nei modi di fare la stella polare dell’azione politica: è così che si spiegano numerosi rapporti di lavoro che si sono in seguito evoluti in amicizia e stima, con personaggi del calibro di Strehler, Abbado, Rizzoli, Sechi.
Nel dicembre del 2008 gli è stata intitolata una fondazione (http://www.fondazioneelioquercioli.net/), che ha l’obiettivo di ergersi a punto di riferimento delle istanze riformiste all’interno di quel grande contenitore che è la sinistra-socialista europea.
È scomparso a Milano il 4 febbraio del 2001, curiosamente nello stesso giorno in cui si è spento un altro antifascista, Iannis Xenakis, compositore, architetto, ingegnere greco naturalizzato francese, che prese parte alla Resistenza durante il secondo conflitto mondiale, prima di trasferirsi a Parigi e iniziare a collaborare con il grande Le Corbusier.
giovedì 23 aprile 2009
SE IL KEBAB E LA PIADINA DISTURBANO LA QUIETE NOTTURNA

da FFwebmagazine del 23/04/09
Ha un senso oggi perseguire l’ordine delle caserme, imposto contro la libertà dei singoli? O forse sarebbe meglio ragionare su un ordine diverso, più intimo, quello racchiuso nell’anima di una società coesa? I principi vanno imposti o fatti valutare e in seguito liberamente acquisire?
Tre giorni fa il consiglio regionale lombardo su input della Lega ha approvato una legge che impone ai locali take-away (kebaberie, pizzerie, gelateria e piadinerie) di chiudere un’ora dopo la mezzanotte, punendo con una multa chi consumerà suddetti cibi sui marciapiedi all’esterno. Il provvedimento, nelle intenzioni, vorrebbe tutelare la quiete pubblica e il rispetto dell’intera cittadinanza. Un’altra legge, nel paese delle infinite leggi, per ricordarci che è nostro dovere non fare baccano di notte stringendo un kebab in mano? La questione è quantomeno singolare: già l’art. 659 del codice penale punisce “il disturbo del riposo e della occupazione delle persone”, con riferimento a rumori provocati nell’espletamento della propria attività. Beh, forse questo articolo del codice penale sarà sembrato a qualcuno incompleto, o meritevole di un ulteriore provvedimento così restrittivo contro una seria minaccia alla quiete pubblica delle città lombarde: la fame notturna.
Lungi da noi voler filosofeggiare su kebab e affini, ma fa sorridere vedere un’assise regionale di queste proporzioni, tra mille problemi legati alla crisi economica, ai provvedimenti sugli ammortizzatori sociali tanto per citare due esempi, impegnata in una questione di gusti e di libertà alimentari. A chi non è mai capitato di avvertire un languorino a tarda sera, magari dopo un bel film al cinema o dopo uno spettacolo teatrale? A chi questi luoghi e questi sapori, tanto semplici quanto speziati, non rammentano piacevoli e indimenticate vacanze mediterranee? Niente di tutto questo, pare dire la nuova legge regionale: ai cittadini lombardi toccherà consumare determinati cibi entro determinati orari, come si faceva durante il servizio di leva. E che nessuno provi a fiatare.
È un brutto sogno? O ci stiamo trasformando in uno di quei paesi a basso quoziente democratico dove i cittadini sono rappresentati come birilli perfettamente in ordine e vestiti tutti allo stesso modo, pronti a recitare “signorsì”? Viene in mente una canzone di Edoardo Bennato: «In fila per tre, marciate tutti con me e ricordatevi i libri di storia, noi siamo i buoni e perciò abbiamo sempre ragione, andiamo dritti verso la gloria», dove sprovveduti bambini “bravi e che non piangono mai” sono issati a esempio civile per altri che forse manifestano piccole perplessità. Ma che bel modo di educare i cittadini. Che edificante spirito di gruppo proprio da paese civile e moderno, come amiamo definirci in occasione dei grandi appuntamenti pubblici.
Parafrasando don Chisciotte della Mancia verrebbe da dire che «la libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini», mentre Bettino Craxi più recentemente disse: «La mia libertà equivale alla mia vita». Ma non sarebbe il caso di scomodare illustri nomi se non si avvertisse nell’aria una sorta di richiamo all’ordine, concretizzato in un fischietto o in un corno da caccia che vuol chiamare a raccolta la gente per dare direttive e impartire comandi. Curioso che la legge in questione sia stata promulgata a pochi giorni dalla festa della Liberazione del 25 aprile, ma forse tanto curioso non è, se si riflette sulla mano che l’ha scritta e firmata. Ma tant’è.
Insomma, gente lombarda, adolescenti, universitari, impiegati, semplici cittadini: se per caso a fine serata foste colti da un raptus improvviso di fame notturna (pericolosa patologia, al momento all’esame di un pool di ricercatori padani) e decideste di lasciarvi andare a una delle consumazioni di quelle citate sopra, rammentate che “quei” deliziosi cibi potrebbero costarvi caro, magari quanto un tartufo bianco da un chilo.
La soluzione? Bennato nella coda della sua canzone dice: «E se proprio non trovi niente da fare, non fare la vittima se ti devi sacrificare, perché in nome del progresso della nazione, in fondo in fondo puoi sempre emigrare». Siete pronti a varcare i confini regionali per dare sollievo ai vostri stomaci?
giovedì 16 aprile 2009
PER AIUTARE I TERREMOTATI NIENTE TAGLI AL VOLONTARIATO
Da FFwebmagazine del 15/04/09
Si discute ancora sulla destinazione del cinque per mille delle associazioni di volontariato a sostegno delle vittime del terremoto in Abruzzo. Mentre il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, dichiara che «non si toglie nulla al volontariato» ma «si dà in più, una causale in più e soldi in più: quindi non soldi in meno al volontariato, ma soldi in più per il terremoto» e sottolinea che quel contributo non è un «fatto quantitativo ma simbolico», perché questo non è lo «strumento per aiutare a ricostruire», il mondo politico intanto si è mobilitato esprimendo un dissenso bipartisan sulle voci di un possibile utilizzo del cinque per mille per la ricostruzione in Abruzzo. Da destra a sinistra è arrivata, infatti, una nota congiunta di Maurizio Lupi, Ugo Sposetti, Vannino Chiti e Maurizio Gasparri, primi quattro firmatari della proposta di legge sul 5 per mille alla Camera e al Senato. E il dissenso, naturalmente, arriva dai diretti interessati, gli operatori dell’associazionismo, una realtà che non sempre ha vita facile dal punto di vista dei fondi. Il cinque per mille, infatti, aiuta le organizzazioni di volontariato e le onlus a sopravvivere e a sostenere le proprie attività. Privarle di quei soldi sarebbe come fare una guerra tra poveri. Per il Coordinamento dei Centri di volontariato non si può far pagare la ricostruzione ai poveri, e lo stesso Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo Settore, in questo modo si eliminerebbe anche il principio di sussidiarietà in base al quale spetta al cittadino, e solo a questi, stabilire quale organizzazione della società civile sostenere. D’altronde, le associazioni del Terzo Settore, dalle quali si vorrebbe decurtare il cinque per mille a loro riservato ad appannaggio dei terremotati d’Abruzzo, sono le stesse che in questi dieci giorni di emergenza umanitaria hanno prestato efficacemente la propria opera in quelle zone: in base a quale criterio creare un corto circuito di queste dimensioni, anziché prevedere soluzioni alternative? Con quale utilità innescare un inutile meccanismo, non tanto di risentimento quanto di sorpresa, per dare vita a un provvedimento che potrebbe non contribuire alla soluzione del problema ma, se possibile, determinarne un altro?Forse non saranno molti quei 360 milioni di euro, del fondo globale del cinque per mille iscritto a bilancio, a fronte dei dodici miliardi paventati dal Viminale per la ricostruzione, ma si tratta pur sempre di risorse con le quali le numerosissime associazioni di volontariato garantiscono un sostegno vero a una serie sterminata di realtà del territorio che necessitano costantemente di aiuto.Al momento le istanze di aiuto vertono sul contributo in danaro della Cei, sulle uova di Pasqua papali, sui viveri della Caritas, sulle collette nelle parrocchie, sulle migliaia di donazioni effettuate via sms o tramite i conti correnti predisposti da diversi soggetti, come squadre di calcio e singoli individui. Tutte lodevoli, ma ovviamente tutte migliorabili dal punto di vista sostanziale, certo non attingendo da chi proprio non è in condizione di fare di più.Per non parlare dei dubbi sull’efficacia del provvedimento, se si pensa che il terzo settore attende ancora oggi i contributi relativi al 2007. Procedere al prelievo del cinque per mille per il terremoto sarebbe significato, secondo Olivero, che le risorse destinate in queste ore sarebbero giunte nelle zone del terremoto dopo due anni, portando con sé l’interrogativo su quale senso potrebbe avere un simile modus operandi in chiave di politiche ricostruttive.
Più consona, in termini di logica attuativa e di benefici reali, l’iniziativa del presidente del Senato Schifani, grazie alla quale ogni senatore devolverà mille euro, attingendoli direttamente dalle singole indennità: un modus operandi che, perché no, si potrebbe applicare da subito anche ad altre figure, come ai sindaci dei grandi comuni d’Italia coinvolgendo l’Anci, ai consiglieri e governatori regionali, agli alti magistrati e presidenti di corte dei Conti, di Cassazione, Csm.
Un esempio certamente edificante e di notevole spessore istituzionale e umanitario, in virtù del fatto che sono proprio le alte rappresentanze di un paese che hanno l’obbligo morale di scendere in prima linea, per offrirsi come “scudo dinanzi al fuoco nemico”, per usare un eufemismo vecchio nel tempo, sostenendo in questo modo, grazie al proprio status di privilegiati, chi versa in difficoltà e non richiedere un ulteriore sacrificio a chi, già ogni giorno, quella prima linea l’ha fatta propria, senza soste pasquali, natalizie, o estive.
Si discute ancora sulla destinazione del cinque per mille delle associazioni di volontariato a sostegno delle vittime del terremoto in Abruzzo. Mentre il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, dichiara che «non si toglie nulla al volontariato» ma «si dà in più, una causale in più e soldi in più: quindi non soldi in meno al volontariato, ma soldi in più per il terremoto» e sottolinea che quel contributo non è un «fatto quantitativo ma simbolico», perché questo non è lo «strumento per aiutare a ricostruire», il mondo politico intanto si è mobilitato esprimendo un dissenso bipartisan sulle voci di un possibile utilizzo del cinque per mille per la ricostruzione in Abruzzo. Da destra a sinistra è arrivata, infatti, una nota congiunta di Maurizio Lupi, Ugo Sposetti, Vannino Chiti e Maurizio Gasparri, primi quattro firmatari della proposta di legge sul 5 per mille alla Camera e al Senato. E il dissenso, naturalmente, arriva dai diretti interessati, gli operatori dell’associazionismo, una realtà che non sempre ha vita facile dal punto di vista dei fondi. Il cinque per mille, infatti, aiuta le organizzazioni di volontariato e le onlus a sopravvivere e a sostenere le proprie attività. Privarle di quei soldi sarebbe come fare una guerra tra poveri. Per il Coordinamento dei Centri di volontariato non si può far pagare la ricostruzione ai poveri, e lo stesso Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo Settore, in questo modo si eliminerebbe anche il principio di sussidiarietà in base al quale spetta al cittadino, e solo a questi, stabilire quale organizzazione della società civile sostenere. D’altronde, le associazioni del Terzo Settore, dalle quali si vorrebbe decurtare il cinque per mille a loro riservato ad appannaggio dei terremotati d’Abruzzo, sono le stesse che in questi dieci giorni di emergenza umanitaria hanno prestato efficacemente la propria opera in quelle zone: in base a quale criterio creare un corto circuito di queste dimensioni, anziché prevedere soluzioni alternative? Con quale utilità innescare un inutile meccanismo, non tanto di risentimento quanto di sorpresa, per dare vita a un provvedimento che potrebbe non contribuire alla soluzione del problema ma, se possibile, determinarne un altro?Forse non saranno molti quei 360 milioni di euro, del fondo globale del cinque per mille iscritto a bilancio, a fronte dei dodici miliardi paventati dal Viminale per la ricostruzione, ma si tratta pur sempre di risorse con le quali le numerosissime associazioni di volontariato garantiscono un sostegno vero a una serie sterminata di realtà del territorio che necessitano costantemente di aiuto.Al momento le istanze di aiuto vertono sul contributo in danaro della Cei, sulle uova di Pasqua papali, sui viveri della Caritas, sulle collette nelle parrocchie, sulle migliaia di donazioni effettuate via sms o tramite i conti correnti predisposti da diversi soggetti, come squadre di calcio e singoli individui. Tutte lodevoli, ma ovviamente tutte migliorabili dal punto di vista sostanziale, certo non attingendo da chi proprio non è in condizione di fare di più.Per non parlare dei dubbi sull’efficacia del provvedimento, se si pensa che il terzo settore attende ancora oggi i contributi relativi al 2007. Procedere al prelievo del cinque per mille per il terremoto sarebbe significato, secondo Olivero, che le risorse destinate in queste ore sarebbero giunte nelle zone del terremoto dopo due anni, portando con sé l’interrogativo su quale senso potrebbe avere un simile modus operandi in chiave di politiche ricostruttive.
Più consona, in termini di logica attuativa e di benefici reali, l’iniziativa del presidente del Senato Schifani, grazie alla quale ogni senatore devolverà mille euro, attingendoli direttamente dalle singole indennità: un modus operandi che, perché no, si potrebbe applicare da subito anche ad altre figure, come ai sindaci dei grandi comuni d’Italia coinvolgendo l’Anci, ai consiglieri e governatori regionali, agli alti magistrati e presidenti di corte dei Conti, di Cassazione, Csm.
Un esempio certamente edificante e di notevole spessore istituzionale e umanitario, in virtù del fatto che sono proprio le alte rappresentanze di un paese che hanno l’obbligo morale di scendere in prima linea, per offrirsi come “scudo dinanzi al fuoco nemico”, per usare un eufemismo vecchio nel tempo, sostenendo in questo modo, grazie al proprio status di privilegiati, chi versa in difficoltà e non richiedere un ulteriore sacrificio a chi, già ogni giorno, quella prima linea l’ha fatta propria, senza soste pasquali, natalizie, o estive.
Oriente e Occidente, un dialogo sulle onde del Mediterraneo
Da FFwebmagazine del 14/04/09
Un’impresa vecchia 922 anni, quando un manipolo di marinai attraversò il mar Ionio e l’Egeo, fino ad arrivare in Turchia, a Myra, e trafugò le reliquie di un Santo, divenuto poi patrono della città. Il viaggio dei sessantadue marinai baresi, (prima tappa l’isola di Zante fino a Myra) per 1700 miglia, viene riproposto oggi con una goletta, e non si tratta di una semplice scampagnata. Non solo rivisitazione storica del “passaggio” di San Nicola nel capoluogo pugliese, non solo una traversata che durerà un mese con risvolti religiosi e istituzionali, ma un’occasione interessante per riflettere a mente lucida sul Mediterraneo e sull’integrazione culturale dei paesi che si affacciano sulle coste del mare nostrum, condividendone aspirazioni, peculiarità, paure e, perché no, sogni.
Se oggi l’attualità impone un focus sull’apertura del presidente Obama all’ingresso della Turchia nell’Ue, al dibattito non potranno certamente nuocere considerazioni e iniziative figlie di una volontà ferma di integrazione e condivisione. Il rapporto dell’Italia, e in modo particolare delle regioni meridionali, con l’Oriente è lontano nel tempo: greci, saraceni e turchi hanno toccato i nostri porti in più occasioni (spesso anche costruendone di nuovi, a volte distruggendoli), producendo nei secoli una miscellanea di suoni, sapori, pagine di libri, colori.
Quella Puglia, porta ad Oriente, incrocio di culture, ha in questo senso rappresentato una frontiera non soltanto geografica, ma anche artistica, sociale, religiosa. La presenza contemporanea nel capoluogo pugliese di un luogo di culto unico nel suo genere che al suo interno racchiude e unisce in preghiera cristiani e ortodossi, la Basilica di San Nicola, non può che essere letto come indice di armonizzazione fra credi e società differenti. A ciò si aggiunga il dato che poco più di un mese fa il Governo italiano ha inteso restituire a quello di Mosca la Chiesa Russa di Bari, gioiello di fede ortodossa, realizzando in questo modo un evento di portata storica.
È alla luce di iniziative come quella della rivisitazione dell’impresa dei marinai baresi che acquista ancor più rilevanza una spinta modernizzatrice della democrazia turca, passaggio fondamentale ai fini dell’ingresso nella famiglia europea, che l’esecutivo ha l’obbligo, a questo punto morale, di attuare concretamente e in tempi rapidi.
L’apertura del presidente Obama, non condivisa tra gli altri da Sarkozy e Merkel, è un gesto significativo che dovrà necessariamente essere seguito da precise prese di coscienza da parte di Ankara, pena l’annullamento dei crediti fin qui elargiti. Il riferimento è a rispetto delle minoranze religiose, alla ferma condanna per l'uccisione di don Santoro, a maggiori controlli civili sui militari, al maggior rispetto della libertà d'espressione, passando poi alle note dolenti, ovvero gli impegni circa la smilitarizzazione di Cipro, l’ammissione di fronte alla comunità internazionale dei genocidi curdi ed armeni, elementi ribaditi dal Parlamento europeo nella risoluzione dell’ottobre 2007, con la quale elargiva al Governo di Abdullah Gul “consigli” utili, ma fino a oggi purtroppo inascoltati.
Che l’integrazione, prima ancora che sulla carta, sia nelle menti e di conseguenza nelle iniziative: questo deve essere il filo conduttore di una politica ampia e matura. Urgono confronti, anche intensi, ma senza dubbio produttivi e risolutivi; e poi dibattiti, forum, incroci di idee ed esperienze. Una nuova frontiera della condivisione euromediterranea, ma nel solco del rispetto imprescindibile per il diritto e per la storia.
Un’impresa vecchia 922 anni, quando un manipolo di marinai attraversò il mar Ionio e l’Egeo, fino ad arrivare in Turchia, a Myra, e trafugò le reliquie di un Santo, divenuto poi patrono della città. Il viaggio dei sessantadue marinai baresi, (prima tappa l’isola di Zante fino a Myra) per 1700 miglia, viene riproposto oggi con una goletta, e non si tratta di una semplice scampagnata. Non solo rivisitazione storica del “passaggio” di San Nicola nel capoluogo pugliese, non solo una traversata che durerà un mese con risvolti religiosi e istituzionali, ma un’occasione interessante per riflettere a mente lucida sul Mediterraneo e sull’integrazione culturale dei paesi che si affacciano sulle coste del mare nostrum, condividendone aspirazioni, peculiarità, paure e, perché no, sogni.
Se oggi l’attualità impone un focus sull’apertura del presidente Obama all’ingresso della Turchia nell’Ue, al dibattito non potranno certamente nuocere considerazioni e iniziative figlie di una volontà ferma di integrazione e condivisione. Il rapporto dell’Italia, e in modo particolare delle regioni meridionali, con l’Oriente è lontano nel tempo: greci, saraceni e turchi hanno toccato i nostri porti in più occasioni (spesso anche costruendone di nuovi, a volte distruggendoli), producendo nei secoli una miscellanea di suoni, sapori, pagine di libri, colori.
Quella Puglia, porta ad Oriente, incrocio di culture, ha in questo senso rappresentato una frontiera non soltanto geografica, ma anche artistica, sociale, religiosa. La presenza contemporanea nel capoluogo pugliese di un luogo di culto unico nel suo genere che al suo interno racchiude e unisce in preghiera cristiani e ortodossi, la Basilica di San Nicola, non può che essere letto come indice di armonizzazione fra credi e società differenti. A ciò si aggiunga il dato che poco più di un mese fa il Governo italiano ha inteso restituire a quello di Mosca la Chiesa Russa di Bari, gioiello di fede ortodossa, realizzando in questo modo un evento di portata storica.
È alla luce di iniziative come quella della rivisitazione dell’impresa dei marinai baresi che acquista ancor più rilevanza una spinta modernizzatrice della democrazia turca, passaggio fondamentale ai fini dell’ingresso nella famiglia europea, che l’esecutivo ha l’obbligo, a questo punto morale, di attuare concretamente e in tempi rapidi.
L’apertura del presidente Obama, non condivisa tra gli altri da Sarkozy e Merkel, è un gesto significativo che dovrà necessariamente essere seguito da precise prese di coscienza da parte di Ankara, pena l’annullamento dei crediti fin qui elargiti. Il riferimento è a rispetto delle minoranze religiose, alla ferma condanna per l'uccisione di don Santoro, a maggiori controlli civili sui militari, al maggior rispetto della libertà d'espressione, passando poi alle note dolenti, ovvero gli impegni circa la smilitarizzazione di Cipro, l’ammissione di fronte alla comunità internazionale dei genocidi curdi ed armeni, elementi ribaditi dal Parlamento europeo nella risoluzione dell’ottobre 2007, con la quale elargiva al Governo di Abdullah Gul “consigli” utili, ma fino a oggi purtroppo inascoltati.
Che l’integrazione, prima ancora che sulla carta, sia nelle menti e di conseguenza nelle iniziative: questo deve essere il filo conduttore di una politica ampia e matura. Urgono confronti, anche intensi, ma senza dubbio produttivi e risolutivi; e poi dibattiti, forum, incroci di idee ed esperienze. Una nuova frontiera della condivisione euromediterranea, ma nel solco del rispetto imprescindibile per il diritto e per la storia.
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