mercoledì 13 ottobre 2010

La lezione della Montessori: scuotere l’intelligenza stagnante


Da Ffwebmagazine del 13/10/10

«La libertà - diceva Wayne La Pierre - non è mai uno stato definitivo. Come l’elettricità la si deve continuare a generare, oppure finisce che le luci si spengono». Ma deve anche essere integrata con un altro stato, anch’esso per nulla definitivo: l’istruzione.
Il sapere e il conoscere rappresentano la linfa della libertà. E i due elementi, insieme, si avvinghiano attorno al cervello umano, rendendolo libero, lontano anni luce dalle schiavitù mentali. Indipendente nel costruire valutazioni e opinioni, lucido nel discernere tra il vero e il falso, tra l’apparente ed il profondo, slegato da appartenenze polverose e genuflesse, pronto ad osservare il circondario senza lenti preventivamente tarate.
Perché senza istruzione e senza libertà, semplicemente l’uomo si presenta come acefalo, privato della sua anima. E come stimolare la percezione dell’anima all’interno di individui che si apprestano a formarsi? Come sfruttare quel tasso di vivacità mentale che ad esempio i bambini possiedono nei primi anni della loro vita? E che risulteranno fondamentali per investire sulla relativa formazione, per metabolizzare dati e sensazioni. Che comporranno in seguito ogni singolo assemblamento di neuroni.

L’energia creativa e la libertà per educare i cittadini di domani, nel ricordo della grande lezione dell’italiana Maria Montessori, celebrata dall’Italian Heritage & Culture Month di New York, dove per venti giorni la Grande Mela offrirà tutti gli onori ad un grande cervello nostrano, in occasione del mese della cultura italiana 2010. La pedagogista e medico marchigiana, sosteneva la strategicità della libertà dell’allievo, senza la quale il bambino non può alimentare il relativo desiderio di creatività. Lo identificava come un essere completo, in grado di animare autonomamente funzioni creative all’interno di disposizioni morali, come i sentimenti.
Stella polare del suo credo, la libertà. Che consente al bambino di esprimere quella verve ideale già presente nel suo dna, ma che senza la spinta propulsiva dell’iniziativa in un campo di azione aperto ed autonomo, non riesce ad emergere completamente. Rimanendo inespressa, monca, come un fiore sbocciato a metà che, per quanto variopinto e profumato, non assolve interamente al suo compito.
Ma la libertà è come uno scrigno, prezioso ma altamente protetto, al cui interno si trova anche dell’altro. Da dove emerge il suo naturale controbilanciamento, ovvero la disciplina. Un soggetto disciplinato sarà in grado di difendere non solo la propria libertà, ma anche quella degli altri, nella comunità in cui vive. Anche arrivando a limitare la portata della propria personale libertà, pur di rispettare la regolare espressione di quella altrui. Ma la rivoluzione educativa della Montessori non si limitò solo all’elogio della libertà pura, ma si espanse sino all’introduzione della scienza nella costruzione del nuovo individuo, dove il fulcro del procedimento di ingegneria educativa non è il bambino in quanto tale.
Ma paradossalmente la scoperta del bambino, in un quadro di creatività spontanea e non artefatta. Perché ancora inespressa, allo stato primordiale. Su questo input sostenne l’esigenza di contrastare l’analfabetismo, piaga che esclude, una sorta di deficienza linguistica che non consente comprensione e, quindi, partecipazione.
Una lezione tremendamente attuale, dove la mancata conoscenza e assimilazione di fatti e di opinioni produce il caos. Prima è necessario acquisire la parola, dunque, attendere che “si posi sulle menti” e che si cementifichi in questo passaggio migratorio di favella. E poi si moltiplichi, grazie ai mezzi di comunicazione. Anch’essi da educare e alfabetizzare.
La Montessori sosteneva che l’alfabeto fosse la più straordinaria conquista dell’umanità, utile non solo per apprendere ma anche per offrire nuove versioni grafiche del messaggio iniziale. E allora sarebbe molto utile ricominciare proprio dalla lezione della pedagogista italiana, quando in Formazione dell’uomo: analfabetismo mondiale, rileva che è necessario «rinnovare dall’inerzia l’intelligenza stagnante».
Per stimolarla a pensare liberamente, a formarsi in totale autonomia, dotata di quella forza centrifuga in assenza della quale i neuroni vengono schiacciati dalla massa generale, quella che ingloba forzatamente, quella che racchiude sotto lo stesso abbraccio pensieri e idee che, invece, devono viaggiare e riprodursi da sole.
E libere.

Scuola e politica: gli squilibri di un corto circuito italiano

Da Ffwebmagazine del 12/10/10

Cosa succede se in periodi di recessione, il corto circuito tra cittadini e politica è infiammato da un altro fattore di deficienza? Quali scenari prevedere se gli individui si impoveriscono e hanno meno diritti, mentre certa politica dai modi intemperanti aumenta privilegi e godimenti? Come spiegare tale scollamento abnorme tra vita quotidiana e seminterrato dorato dove vivono e pontificano certi amministratori?
Nei giorni in cui le piazze italiane hanno visto sfilare e protestare non solo gli studenti, ma anche genitori, ricercatori, insegnanti, bidelli e precari, è avvilente apprendere, quasi con una tempistica beffarda, che in alcuni consigli regionali d’Italia si può andare in pensione a cinquant’anni. E non per chissà quale condotta illegale, ma proprio perché la legge lo consente. Ecco il paradosso sociale che attanaglia il Paese e che, sempre più spesso, subisce una pericolosa sottovalutazione da parte di chi con le parti sociali e con i cittadini che ogni giorno sono in prima fila, dovrebbe conciliare esigenze e contingenze.

Una legge regionale del Lazio, tanto per fare un esempio, consente agli ex consiglieri (che già godono di uno stipendio spropositato rispetto ai colleghi europei) di andare in pensione a soli 50 anni, mentre il resto del Paese deve attendere almeno i 65. È sufficiente quindi anche una sola consiliatura per avere un vitalizio di 1.800 euro, che possono lievitare sino a 4.000 per chi abbia collezionato più di due mandati.
Questa cosa, strana, lontana anni luce da concetti come opportunità ed armonizzazione socio-economica di una nazione, prende il nome di “pensione politica” e non è una bella immagine che si offre, a fronte di centinaia di aziende italiane in difficoltà, con migliaia di disoccupati o in cassa integrazione di cui pochi mezzi di informazione si occupano. Ma tale dato, triste e dequalificante per un Paese che si dice democratico, fa sì che si riapra il dibattito sull’emergenza educativa. Perché di emergenza si tratta e non del corteo di quattro o cinque scalmanati. Che, guardando le immagini, scalmanati non sono.

Nel rapporto-proposta della Cei intitolato “La sfida educativa” si legge proprio che nel sistema Italia è sottile l’uguaglianza dei punti di partenza; sono deboli la scuola, l’università e la ricerca, poco inclini a premiare il "merito", inteso come strumento di promozione ed elevazione sociale. Come più volte ribadito dal Presidente della Camera Gianfranco Fini, la cosiddetta emergenza educativa è figlia di mentalità, culture e comportamenti che esprimono una visione riduttiva dell’uomo e della sua libertà. Per questo è necessario intervenire sui disagi provocati dai tagli: e la scuola ne incarna l’esempio più impellente.

Quando a una folla che chiede delucidazioni e confronti, la politica risponde arroccandosi sempre più in alto sul cucuzzolo degli infiniti privilegi da casta, commette un doppio errore. Svilisce il proprio ruolo, offrendo il fianco a facili critiche e soprattutto non risolve un problema che non è più procrastinabile. Ecco allora che quella famosa politica con la P maiuscola, quello strumento tanto invocato in occasioni ufficiali, come le inaugurazioni di nuovi poli o i comizi in campagna elettorale, dovrebbe dare un segno. Forte e risolutivo. Perché allora nella conferenza stato-regioni non ragionare su un nuovo patto sociale? Dove tutti i consigli regionali d’Italia- anche quelli con statuto speciale- votino una leggina per equiparare l’età pensionabile dei consiglieri a quella degli altri cittadini, cassando assurdi privilegi, che inaspriscono ulteriormente il disagio sociale del Paese.

Sarebbe una risposta efficace, e alta, a un grido di dolore che proviene da uno dei comparti più significativi di una comunità. Senza dimenticare che i deterrenti di oggi all’educazione prendono il nome di relativismo, individualismo, ignoranza, pressappochismo, smembramento sociale. Se invece ci si rapportasse all’educazione considerandola un valore portante della società, non si otterrebbe solo un beneficio per quel singolo ambito. Ma si ritornerebbe finalmente ad investire nella conoscenza e nelle risorse umane, di chi è chiamato a formare nuovi individui e nuovi soggetti professionali.
Sicuri che la politica ne abbia compreso la straordinaria importanza?

sabato 9 ottobre 2010

"Non chiamela cultura": quella di Bondi è autocritica?

Da Ffwebmagazine del 09/10/10

Sandro Bondi al Foglio: «C’è un corto circuito tra cultura e politica: la prima tracima di continuo nella militanza politica, rinunciando al dovere della conoscenza, alla riflessione, al ragionamento. E in questo trova sostegno nei media che drammatizzano le notizie». Finalmente il ministro della Cultura ha capito dove ha sbagliato, lui e il partito al quale appartiene. Spingendosi poi a proporre un osservatorio permanente sullo stato della cultura, «perché la politica non ha bisogno della cultura, non ottenendo da essa nulla di più che mera merce ideologica».

La domanda sorge spontanea e non provocatoria, ma seriamente posta: per caso ha avuto modo di guardarsi allo specchio? Scorrendo i quadri del fu Pdl, si apprende che il nostro, oltre ad essere Ministro dei beni culturali, è Coordinatore nazionale del Popolo della Libertà e, dulcis in fundo, anche responsabile tematico dei Promotori della Libertà per la cultura e la formazione. Un ruolo di primissimo piano, affidato solitamente a chi con cultura e formazione dovrebbe avere dimestichezza: non solo nel merito, ma soprattutto nel metodo.

Il momento di difficoltà della cultura italiana è sotto gli occhi di tutti. Nel suo Per ragionare Mario Capanna scrive che «stiamo subendo un pericoloso arretramento culturale, etico e politico: più che interrogarsi e riflettere prevalgono il tifo e la delega, l’apatia ha soppiantato la partecipazione consapevole, e così la democrazia diviene esangue». Proprio dal riferimento al tifo sarebbe interessante partire per riflettere serenamente sullo stato delle cose. Ha ragione Bondi quando afferma che la cultura sta rinunciando a ragionare. Ma non è sufficiente lanciare il grido di allarme e immediatamente dopo coprire le mancanze e le deficienze di quella cultura che, ad oggi, sono sotto gli occhi di tutti. O quasi.

Non sarà quel cappello militaresco da caserma che salverà il patrimonio intellettuale di un Paese. Non sarà giustificandosi con il più classico “da noi va tutto bene” che si ritroverà un filone degno di nota. Non sarà con una dedizione stomachevole e mortificante che si educheranno alla libera produzione di neuroni le future generazioni: di tutti i credi politici, sia chiaro. Lo spirito della cultura, invece, deve essere quello di mettere in difficoltà la politica, pungendola nelle sue debolezze, poggiando una lente di ingrandimento sui suoi difetti. Amplificandoli, osservandoli, scomponendone azioni e direttive per assaporarne mete e modalità. Per carpirne le criticità, o le illusioni. E non per masochismo, o per controcantismo, o per sciacallaggio elettorale. Ma, piaccia o no, per mera voglia di miglioramento.

Una cultura che si appiattisce, che non alza il dito per avanzare un dubbio, che ha sempre una certezza aziendale, alla lunga, diventa sterile e, come afferma correttamente Bondi, semplice merce ideologica. In quanto rende inutile la partecipazione attiva, lo spirito di intraprendenza mentale, che ne dovrebbe rappresentare il carburante primario. Quella benzina è la discussione: aspra, libera da steccati e imposizioni, che spazia, sorda ai richiami di scuderia della politica.

La discussione, ha osservato recentemente il Presidente della Camera Gianfranco Fini, presentando proprio a Montecitorio quel volume di Capanna, è il sale della democrazia, anche e soprattutto quando le opinioni non coincidono. È la diversità di idee che fa nascere il dibattito. In una società democratica, infatti, la ragione non deve per nessun motivo assopirsi, o mostrare segni di cedimento strutturale. Né rinunciare ad un ruolo attivo anche di pungolo e stimolo, interrogandosi e soprattutto interrogando. Perché se così non fosse si otterrebbe niente altro che lo svilimento dell’humus politico, di quell’involucro dove la cultura politica deve radicarsi e germogliare. Per trasformarsi in proposte e osservazioni. Nell’interesse di tutti.

venerdì 8 ottobre 2010

Il Nobel al cartografo delle strutture del potere


Da Ffwebmagazine del 07/10/10

Un Nobel ad uno scrittore che non è stato solo eccellente in quanto tale, ma che ha svolto il ruolo di un “cartografo delle strutture del potere”. Al 74enne Vargas Llosa da Arequipa, l’ambito premio conferitogli dall’Accademia Svedese. Lui, il letterato peruviano che vede la letteratura come una missione sociale e civile. Sì, civile, in quanto è sempre stato portato a ritenere che le lettere, la favella e gli scripta potessero essere di stimolo agli individui. E come?
Llosa parte dal presupposto che il più grande errore della sua generazione sia stato quello di giustificare, in qualche maniera, le espressioni autocratiche, le forme dittatoriali. Adducendo il marxismo come unica alternativa. E non concentrandosi sufficientemente sulla letteratura, all’interno di una porzione sociale dove trionfi il liberalismo di massa. Sulla base di tale direttrice affida proprio alla letteratura un ruolo ben definito e altamente responsabile: un ruolo civile. Perché le parole, le immagini, i racconti, le poesie e i ragionamenti, fecondano la rete immaginaria del singolo uomo. Annaffiano di speranza neuroni che attendono solo la scarica iniziale, utile per avviare un percorso celebrale che condurrà alla produzione di idee, di consapevolezze, di sogni, di timori, di domande, di azioni.

Un quadro che, in quanto tale, fa paura ai grandi sistemi, che vedono nella capacità del singolo di formarsi mentalmente in libera autonomia creativa, un pericolo alla solidità della propria dittatura. Per queste ragioni esse hanno sempre mirato a stabilire un controllo sugli intellettuali, sulla produzione letteraria, e anche sul panorama informativo.
Recentemente Llosa si era anche occupato dell’Italia, osservandola con scrupolo e con un pizzico di tristezza, quando aveva ragionato sul fatto che nel Belpaese fosse affiorato ciò che aveva definito, con un’ espressione decisamente illuminante, “l’illusione italiana”. Compresa e resa fruibile al pubblico, dal punto di vista di un liberale vero, schietto e continuo, per nulla appartenente alla schiera di quei liberali buoni per tutte le stagioni o per tutte le casacche. Da quel trespolo infatti aveva osservato il berlusconismo, giungendo alla conclusione che il popolo italiano è illuso a causa di una deriva antiliberale. Concimata da condotte populiste, oltre che da svariate mistificazioni di un sistema. Che si dirige così nel caos. Vana inoltre la speranza che un individuo forte e dotato di una straripante immagine pervasiva, fosse inquadrato dalla gente come risolutiva panacea ai trentennali mali del Paese. Mali che, ad oggi e dopo provvedimenti ad hoc (o, meglio, ad personam), non solo rimangono inguariti, ma si moltiplicano ancora, come una metastasi anche mentale.

E’il manico, dunque, a non essere adatto, secondo Llosa: perché in virtù di certe impostazioni da reclame, con gesti clamorosi ed appariscenti (come i depliant di risultati raggiunti) non si costruisce una risposta credibile ed efficace. Ma solo paraventi di plastica, contrapposti ad esigenze maledettamente reali. Che della plastica, francamente, non sanno cosa farsene.
Ecco la lezione del Nobel: l’illusione momentanea che l’autoritarismo possa produrre benefici, è destinata a causare altri mali. In quanto tarpa le ali a nuove proposte, appiattisce i neuroni, blocca sul nascere gli impulsi provocatori che vorrebbero scompaginare, impedisce il libero assemblarsi di nuove e differenti opinioni. Insomma, crea genuflessione.

Wi-fi, proposta bipartisan per una rete libera


Da Ffwebmagazine del 08/10/10

Ha detto recentemente Gavin Newson, sindaco di San Francisco, che se un bel giorno tacessero tv e giornali, i cittadini sotto i trent’anni non se ne accorgerebbero. Perché sono i primi fruitori della rete e delle straordinarie opportunità che internet offre: non solo di dialogo sociale, di contrapposizione o di incontro, ma anche di occasioni professionali. Quindi di sviluppo economico.

C’è un Paese nell’Occidente moderno, però, che sta sottostimando apertamente e pericolosamente la risorsa della rete. Quello stesso Paese che in una legge del 2005, il cosiddetto decreto Pisanu, impone all’utente intenzionato a collegarsi a internet mobile di identificarsi preventivamente. Nell’articolo 7, infatti, è prescritta una simile condotta per prevenire il rischio attentati. Ancora una volta la paura, vero cancro del terzo millennio, blocca il raggiungimento di un obiettivo. Un limite all’accesso wi-fi, non dettato quindi da gap tecnologici, o da censure dittatoriali in stile iraniano, bensì da un timore. Lecito chiedersi: è proponibile un modello di azione amministrativa dove lo Stato sacrifichi un diritto dei cittadini sull’altare della paura?

Su questo filone si è inserita l’iniziativa legislativa bipartisan alla Camera, per cancellare quelle norme che, di fatto, sbarrano la strada a internet più libero. E firmata dai deputati, Barbareschi (Fli), Lanzillotta (Api), Rao (Udc), Gentiloni (Pd). Complottisti? No, onorevoli che hanno compreso come la rete rappresenti un’ indiscutibile opportunità di sviluppo che un Paese moderno e responsabile, ha il dovere di incentivare. Ma su quali premesse?

Come più volte ribadito su queste colonne, ad oggi in Italia le reti wireless non sono completamente aperte, anche a causa di una certa sottovalutazione che il governo ha accusato circa internet e la banda larga. Ha ancora senso, allora, applicare costumi antichi a soggetti nuovi? Quale vantaggio si avrebbe nel voler burocratizzare oltremodo uno strumento rapido e rivoluzionario come la rete? Sarebbe il trionfo dell’anacronistico, una condotta semplicemente rivolta al passato. E, di conseguenza, deleteria. Perché la rete afferma proprio questo, quando si descrive come una vera rottura rispetto ad un tempo dove i collegamenti telematici erano fantascienza.

E ciò andrebbe metabolizzato rapidamente dal momento che, come ricordato pochi giorni fa dal Presidente della Camera Gianfranco Fini accogliendo a Montecitorio Jeremy Rifkin, «ci stiamo dirigendo verso il mondo dell’empatia perché la società umana è arrivata ad un alto grado di interconnessione grazie allo sviluppo tecnologico». Oggi, parafrasando l’economista e saggista statunitense, viviamo accanto alla cosiddetta “Generazione del Millennio”, ovvero la prima generazione della storia cresciuta a pane e internet, e già in perfetta osmosi con i social network. Questo quadro, secondo Fini, disegna un’icona di speranza, in quanto volgendo lo sguardo al prossimo ventennio consente di osservare i nuovi 40enni, che potranno vivere in un alveo sociale più libero, con reti maggiormente collaborative. Su tutti i fronti.
E allora una politica lungimirante e responsabile dovrebbe non guardare all’opportunità “internet” affidandosi al vecchio arnese dello specchietto retrovisore, ma mostrarsi più consapevole verso ciò che è già dinanzi a tutti. Legislatori compresi.

giovedì 7 ottobre 2010

Elogio dei nomadi, contro il cronometraggio dell'esistenza


Da Ffwebmagazine del 07/10/10

Il viaggiatore ha nel dna il gene dell'indipendenza cronica, la predisposizione all'improvvisazione, al cambio di rotta geo-sociale. Egli marca le distanze «dal sangue della razza e dal borgo natio». Per questo viaggiare è dichiarare «guerra al cronometraggio dell'esistenza». A quelle città dov'è imposta una presenza fissa a una data ora, a causa di immutabili ritmi, mentre il nomade rifugge da queste coordinate.

Perché oggi i nomadi appaiono pericolosi? Perché simbolo di libertà, che inquieta «i poteri, diviene l'incontrollabile, l'elettrone libero impossibile da seguire, dunque da fissare, da delimitare». Contrapposti ai sedentari, amanti del sicuro, dello stabile e certo. Dove i primi prediligono la strada, lunga e interminabile, “sinuosa e zigzagante”, e i secondi si rallegrano per la riscoperta della «tana, buia e profonda, umida e misteriosa». Ecco le due figure della storia che si specchiano e si rifiutano, due modi agli antipodi di interpretare società e tempi, due visioni contrapposte della vita.

Presenti negli infiniti ragionamenti di Michel Onfrey, fondatore dell'università popolare di Caen e di quella popolare del gusto ad Argentan, che dopo cinquanta libri, fra cui il più noto Trattato di ateologia, fa perdere il lettore nel fantastico oblio di Filosofia del viaggio - poetica della geografia. Non un libro illustrato, né un pamphlet, né un volume di pensieri astratti, né di perfide elucubrazioni, ma pagine di sensi puri e semplici. Che si srotolano lungo il filo dell`esistenza, per rammentare all'uomo ciò che ha drammaticamente perso negli ultimi anni: proprio i suoi sensi. Il toccare pagine di atlanti e di libri, l'osservare tramonti africani o passaggi di mani e di gambe, l'immaginare il luogo più affascinante dove recarsi prima di morire, magari sul Bosforo dove Oriente e Occidente si sfiorano, il gustare cibi di latitudini lontanissime o sperimentare profumi ancestrali. Il sognare mete proibite, per sentirsi liberi, quindi non classificabili, non allineati in forme precostituite, non malleabili, non inseribili in finche anguste che impediscono movimenti. Ma lucidi nel proprio percorso, elastici in cambi di rotte e repentine inversioni.

«Ogni geneaologia si perde nelle acque tiepide di un liquido amniotico - scrive Onfray - quel bagno stellare primordiale dove scintillano le stelle con le quali, più tardi, si creano mappe del cielo e poi topografie luminose». Ed è proprio nei riflessi di quell'acqua “lustrale” che nasce il moto del viaggiare, l'intenzione intima e confusa di avviare una partenza. L'autore tratteggia i protagonisti di questa scelta con un riferimento al nomadismo: «Si diventa nomadi impenitenti solo se iniziati nella propria carne fin dalle ore del ventre materno, arrotondato come un globo o un mappamondo». Un ragionamento nel quale emergono due figure controverse ma altamente esplicative, che si pongono esattamente ai poli l'una dell'altra. Da un lato i pastori, impegnati storicamente nel pascolare le greggi senza però condizionamenti di carattere socio-politico. E poi i contadini, indaffarati nelle pratiche di insediamento, pronti a costruire convivenze e dogmi. Dove quindi può «nascere il capitalismo e con esso può spuntare la prigione». Un ordine così scrupolosamente impostato, che viene incrinato solo da elementi che inquietano chi quei fili vuole controllare. Ecco il ruolo dei nomadi, variabili impazzite nel mappamondo moderno.

Il libro è un trionfo delle metafore geografiche, dove il fiume è contrapposto all'albero, come movimento e stabilità. O l'acqua dei ruscelli, fluente e inafferrabile, viva e pulsante, contro la «mineralità delle pietre morte». Onfrey spiega che tutte le ideologie dominanti esercitano il controllo, il dominio, addirittura la violenza verso i nomadi. E porta a sostegno alcuni dati storici: il nazionalsocialismo tedesco che elogiò sino a folli limiti la razza ariana e sedentaria che focalizza i propri nemici negli ebrei e zingari, nomadi senza radici, in quanto già globalizzati, multipresenti, senza inizio e senza terra materiale. Medesimo impulso alla base dello stalinismo russo, concentrato ad emarginare genti caucasiche e pastori siberiani. Per arrivare all'oggi, dove il capitalismo si comporta allo stesso modo contro chi non è assimilabile al mercato, semplicemente confinandolo ai margini: sotto i ponti, nelle stazioni suburbane, dequalificando corpi e dimore.

Partire equivale a sperimentare nuove concezioni, scevre da contaminazioni conservatrici, dove il viaggiatore porta in tasca il proprio gong perché non soggiace alla «clessidra del tempo canonico». È mosso da una spinta propulsiva unica, mentre si incammina in quel nuovo viaggio, un'energia che lo spinge in oscuri tratturi, su rotte ormai in disuso, «su aria attraversata da correnti invisibili». Un libro di stimolanti interrogativi: ad esempio, come intendere il mondo tramite una mappa che lo svilisce a target prefissati? «È il planisfero - si chiede, e fa chiedere al lettore - che appare minuscolo con il mondo vasto, o l'inverso?».

Ma il viaggio serve anche per lanciare un allarme: mai nessuna società come l'attuale ha tentato di ridurre i contenuti a icone, «scannerizzate, pixelizzati, a discapito di testi e pagine di libri». Segnando così una crociata intellettuale del virtuale contro il reale. Ecco il pericolo di una tecnologia utilizzata in modo fuorviante, perché se di buono ha che avvicina luoghi e siti lontani confinandoli in schermi e pc, di contro allontana sempre più il viaggio vero. Da cui secondo Ofrey è indispensabile ripartire, per elogiare il valore delle carte, dei libri, degli atlanti, da sfogliare, toccare, stropicciare, rivedere con insistenza, segnando quelle pagine, portando l'indice sul sito di interesse: questo determina un immaginario fertile, propellente per il desiderio di movimento. Ma dove inizia il viaggio? Dalla lettura, che rappresenta l'alfa, per cercare un luogo sconosciuto, in un'esaltazione culturale prolungata e non limitata alla contingenza di un istante o di un frame video. Viaggiare, e bene, rimarca l'autore, è sregolare tutti i sensi, per poi riattivarli immediatamente dopo e incanalarli simmetricamente.

Leggere vuol dire «entrare nei meandri pulsanti dell'immaginario di una soggettività impregnata del luogo». Per questo il poeta si erge a veicolo per trasmigrare sensazioni e percezioni, paure e assonanze, inflessioni e visioni critiche. Tutte immagini che devono stimolare la reazione del singolo. Dunque il desiderio di viaggiare va coccolato, alimentato dalla ricerca non della ricchezza materiale di luoghi e popoli. Ma dalla agiatezza delle diversità, dalla multipresenza di opposti, da dove far dipendere l'inizio di quel viaggio.
Che parte proprio da una chiave, inserita nella toppa di una porta, da richiudere prima di avviarsi. E alla quale fare rientro, ma solo il tempo per ridisegnare un itinerario e ripartire. Alla volta di un altro sogno.

Michel Onfray
Filosofia del viaggio
Ed. Ponte alle Grazie
pp 114, euro 12,50

lunedì 4 ottobre 2010

C'è un "racconto ambiguo" che manda in crisi la politica


Da Ffwebmagazine del 04/10/10

Non sarà che alla crisi della politica si sta tentando di rispondere con un eccesso di racconto ambiguo? Con particolari insignificanti, tipo modelli di cucine o scoop-patacca, celando alla fine il succo dei temi veri, ovvero i fatti?
L’interrogativo non è solo ad appannaggio di quegli intellettuali non organici e “vuoti” che, per usare un’espressione cara al ministro Bondi emettono “note stonate”, o definiti dall’on. Cicchitto «un ristretto gruppo di esponenti che fa proprie, addirittura amplificandole, le polemiche della sinistra più radicale e le sviluppa in modo sistematico».
No. Al Festival Internazionale di Ferrara, Alexander Stille ha detto che «in Italia c'è una eccessiva attenzione ai fatti meramente politici». Ovvero, latita l’altro, o non è sufficientemente corroborato da adeguati approfondimenti. Si potrebbe aggiungere che forse la politica invade ambiti, espande all’inverosimile la portata dei suoi atti e spesso delle sue parole. Deflagrandone gli echi senza senso.
Rompe gli argini del buon gusto, inonda le vite dei cittadini anche in merito a questioni di cui potrebbe non occuparsi. Abbraccia persone (e cose) che vorrebbero essere lasciate in pace.
E invece no, perché certa politica chiede, straparla, si allarga, sgomita. Armando affilati calamai, e incrementando parallelamente il futile racconto di tale pervasività, con spazi televisivi dedicati a inezie, con titoli di giornali concentrati su pagliuzze e non su ben altre travi. Dimenticando tutto il resto, ciò che accade nella quotidianità, dalle buone notizie sino ai drammi irrisolti.

Lecito chiedersi: dove sono le grandi inchieste sui mali del paese? Quando è stata l’ultima volta che sul grande schermo è apparso un approfondimento socio-politico sulle grandi aziende che chiudono? O sulle eccellenze che a stento sopravvivono, o le scommesse dei cervelli nostrani vittoriosi negli atenei esteri, o il mistero dell’immondizia fantasma in Campania, o le nuove minacce della mafia che non spara più come prima ma porta a casa fatturati da brivido. Dove vedere tutto ciò?
Troppo facile, quindi, collegare un racconto che si è fatto ambiguo alla disaffezione della gente, o meglio, al fastidio che il cittadino accusa e che si legge tra i dati recenti. Dove in occasione delle regionali dello scorso marzo, solo un elettore su tre ha confermato il proprio voto al partito che aveva scelto nelle europee del 2009. In tutto, meno del 50% ha scelto di esprimere un’intenzione di voto. E ancora, nelle elezioni politiche del 2008 Pdl e Pd insieme conquistarono il 70,6% dei voti, 28 mesi dopo solo il 55%. Il crollo di quel 15% altro non può essere che la spia luminosa di una crisi: della proposta, delle idee, del rapporto con gli elettori, del racconto di una politica che non è più tale.
Dunque il racconto, dovrebbe farsi reale, veritiero, attendibile. E non fasullo, fuorviante, desideroso solo di scaraventare il solito sasso nello stagno per creare disordine. E deridendo l’avversario. L’impresa della politica italiana vive una crisi del mercato senza precedenti. E non volerne accettare le ricadute significa ignorare dolosamente una china tanto evidente quanto imbarazzante.
Commemorando a Torino Mario Pannunzio nel 1988, in occasione del ventennale della sua scomparsa, Mario Soldati rammentò che nell’esperienza irripetibile del Mondo «traevo l’emozione di trovarmi in un’atmosfera magica, in cui la cultura e la legalità, la coerenza e il rigore non fossero delle chimere, ma degli ideali profondi, per cui vale la pena di battersi».
Gli stessi ideali profondi che oggi sono ignorati, e che la politica non si sforza di inseguire, almeno, per dimezzare quella distanza siderale. Che la rende brutta e poco attrattiva e al centro di un racconto che, semplicemente, non c’è.

sabato 2 ottobre 2010

Ed ecco a voi il leghista del futuro


Da Ffwebmagazine del 02/10/10

Come inizio non c’è proprio nulla da dire. Discreto, occhi fissi sulla telecamera, senza tentennamenti, tranne un paio. E poi obbediente al verbo padano, sicuro sulla squadra politica del terzo millennio, tutta dipinta di verde.
L’inno di Mameli? Non mi piace, perché dovremmo essere schiavi di Roma? Quali sono a oggi i confini della Padania? Giù, in Toscana e fino all'Emilia Romagna. Conosci Comunione e Liberazione? Sì, credo che dovrebbe tenere le mani più a posto, quanto ad affari e appalti. I tre valori in cui credi? L'onestà, e poi....ehm, ehm, l'onestà li racchiude tutti.
Il consigliere regionale della Lombardia, Renzo Bossi, intervistato a Le invasioni Barbariche fa la discreta figura del piccolo leghista che cresce a pane e lotta padana, ma anche a pane e governo. E non tradisce affatto le attese, fatte di cattiverie e congetture sulla sua sostanza politica. Va orgoglioso del fatto che nella scorsa campagna elettorale per le elezioni regionali, che lo ha portato a ottenere poco più di dodicimila preferenze, abbia sostenuto i tradizionali comizi in solitudine, senza l’ingombrante presenza paterna, fatta eccezione per quello conclusivo.
Spazio anche per l’economia e il futuro politico nella lunga intervista condotta da Daria Bignardi. Come si conciliano lotta e governo, dal momento che le poltrone fanno gola anche alla Lega? No problem, risponde il Trota, in questo modo si dialoga più facilmente con le esigenze del territorio, grazie alla nostra presenza ai vertici degli enti. Un nome per il futuro del paese? Roberto Maroni. E un nome non leghista? Bersani.
E ancora: disprezza l’inno nazionale, afferma di portare avanti le battaglie “del territorio”, annuncia di essere pronto a modificare la legge sulla caccia, ritenendosi fortunato del fatto che il suo illustre padre gli abbia offerto in questi anni numerosi consigli. Sia per progredire nella carriera politica, sia per capire meglio quello che accade nel paese. E sì, perché ha rivendicato che le conversazioni con suo padre vertono proprio sull’analisi dei fatti. «Mio padre mi spiega le cose che succedono in Italia». Bene, la formazione della classe dirigente, soprattutto se fatta in famiglia, è cosa buona e giusta.


Proprio il tasto del dialogo conciliante e delucidante con il papà-ministro offre gli spunti più interessanti, dal momento che il piccolo Bossi ne va giustamente fiero e lo porta come modello di apprendimento. Sia nel merito, che nel metodo. A proposito delle lunghe chiacchierate con suo padre, quelle di cui giustamente il consigliere regionale lombardo va più che orgoglioso, quelle che vertono proprio sull’analisi dei fatti, quelle che “Mio padre mi spiega le cose che succedono in Italia”. Sì, proprio quelle, che saranno state lunghe, fatte sino all’alba magari in canottiera a fumare un buon sigaro, dopo un’abbondante porzione di polenta consumata sotto la passerella di Miss Padania.
Chissà se il ministro delle Riforme, in quelle occasioni, avrà spiegato al figlio i motivi che lo indussero nel 1994 a commentare in questi termini la figura del Premier: «Il nord è nostro. Si levi dalla testa l’idea di fare il primo ministro, non glielo permetteremo mai: non possiamo mandarci uno che è stato iscritto alla P2, uno che è nato per sconfiggerci, uno che ha un sacco di interessi economici».
Oppure: «Ho fatto la mia battaglia, quando nessuno mi capiva, ho fatto cadere un peronista, uno che ogni sera, dal suo balcone, entrava in ogni casa a fare il lavaggio del cervello». E ancora: «Berlusconi imprenditore? Mi viene da ridere. Semmai faceva il prestanome. Il suo progetto non è altro che il piano di Gelli. Le due strategie sono sovrapponibili: Forza Italia è la P2». E infine: «Berlusconi? Non voglio parlare di quel delinquente. Io voglio andare nelle piazze a scatenare il nord contro di lui. Berlusconi è un mafioso. Il parlamento del nord sarà costretto ad intervenire con mezzi drastici».
Chissà se Renzo Bossi avrà avuto cognizione di quel passato leghista. O se, come per certi articoli della Costituzione, preferirà fare finta (ma potrebbe anche essere vero, in quel caso) di non conoscerli affatto.

mercoledì 29 settembre 2010

Tutti indietro: e chi cerca asilo trova solo porte chiuse


Da Ffwebmagazine del 29/09/10

«7 agosto. All’alba scorgemmo una vela a est che veniva decisamente nella nostra direzione. Subito ci mettemmo a fare tutti i segnali possibili, sventolando le nostre camicie, saltando più alto che ci era permesso dalla nostra debolezza, gridando con tutta la forza nei nostri polmoni. Provammo un’angoscia profonda, temevamo che non ci vedesse e tremavamo al pensiero che ci volesse abbandonare al nostro destino, a morire sul relitto. Ma quella volta eravamo destinati ad essere felicemente smentiti».
Difficile leggere queste righe di Edgar A. Poe in Gordon Pym e non pensare al dramma di chi fugge da qualcosa o da qualcuno, e attende la sagome all’orizzonte di una presenza risolutrice. Che gli doni un po` di sollievo, che salvi quelle anime da morte certa, che getti una fune di speranza. E, perché no, un sorriso. Quello stesso sorriso cercato molte volte da Sayed, dopo che a soli undici anni fuggì dall’Afghanistan, perché non voleva essere costretto a combattere contro i talebani. La storia di Sayed, assieme ad altre immagini, fioche o ben visibili, animano Tutti indietro di Laura Boldrini, un libro che spiega anche la politica italiana (e i cui diritti d’autore verranno impiegati per finanziare borse di studio in favore di ragazzi africani).
Una politica che, tra mille deficienze non si interroga, una politica che non differenzia, ma che molto più comodamente respinge tutto e tutti, equiparando casi diversi sotto la medesima logica. Perché è più semplice racchiudere nello stesso contenitore storie ed esperienze che in comune hanno poco o nulla. È più facile distribuire frettolosamente etichette: per la politica pigra, asservita al prossimo turno elettorale, per la gente, facilmente domata da dosi massicce di paure.Il problema dei rifugiati e del diritto di asilo, dunque, è al centro di questa interessante panoramica di vite. Cruda, a tratti drammatica, ma terribilmente vera. Uno di quei libri che pochi legislatori avranno voglia di leggere: si tratta di pagine che impongono una riflessione e che soprattutto impongono tanti punti interrogativi.
La questione non può essere caricata esclusivamente sulle spalle dell`Alto Commissariato Onu per i rifugiati o della Guardia Costiera impegnata in prima linea. Ma dovrebbe abbracciare una molteplicità di interpreti, a partire dalle istituzioni dei vari paesi. Spesso i media se ne occupano solo in occasione di grandi sbarchi, a maggior ragione se ci sono vittime. Ecco che si muove il circo mediatico, povero di approfondimenti. Senza distinguere tra immigrati e rifugiati.Mentre i primi fuggono dalla miseria, e scelgono di farlo a un legittimo progresso sociale, i secondi non hanno altra possibilità, perché non lasciano solo la povertà alle spalle, ma la violenza, le carceri, spesso la morte. E confidando in un preciso diritto, non in quello che molta stampa presenta come “buonismo”.

Il termine asilo proviene dal greco asylon, e indica un territorio che non può essere violato, un luogo sacro e quindi non soggetto a cattura. A oggi i rifugiati in Italia sono quarantasettemila e nel 2008 le domande di asilo presentate sono state ben trentunomila. La nostra Costituzione, a dire il vero, all’articolo 10 prescrive che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d`asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Ma in Italia non esiste ancora una vera e propria legge nazionale sul diritto di asilo, e il riconoscimento è fermo alla Convenzione di Ginevra del 1951, dove per la prima volta venne definito il rifugiato, ricompreso in quattro requisiti indispensabili: la fuga materiale dal paese di origine; il fondato timore di persecuzioni; cause di specifica persecuzione; l’impossibilità a essere difesi dal paese di origine.
Le cronache recenti abbondano di episodi. Come dimenticare l’atroce vicenda della nave “Cap Anamur” – che nel giugno 2004 ospitò a bordo trentasette africani in fuga dai rispettivi paesi – a cui le autorità italiane rifiutarono l’attracco a Porto Empedocle, iniziando un`estenuante trattativa con Germania e Malta, quasi che si trattasse di merce da scaricare con tutti i comodi, senza precauzione alcuna, e mentre in ballo c’erano braccia e occhi inerti, in attesa di conoscere il luogo della loro sopravvivenza?
È proprio quello lo scenario da impedire, quando ci si dimentica chi sono i soggetti di tali vicende. Non numeri o cose, ma carne e anime in fuga. E in cerca di conforto.


Laura Boldrini
Tutti indietro
Rizzoli
pp.217, euro 18

venerdì 24 settembre 2010

Il capitale umano e la rete contro la crisi

Da Ffwebmagazine del 24/09/10

La crisi della Costituzione e l'avvento della globalizzazione approcciate come due elementi interconnessi, per giungere alla constatazione che la democrazia è in mora, e la tendenza del fenomeno è su scala europea. L'ultimo libro di Fausto Bertinotti Chi comanda qui?- Come e perché è smarrito il ruolo della Costituzione individua tre macro aree (politica, economia, cultura) da cui far passare questo enorme corto circuito.
L'ex presidente della Camera asserisce che in passato il tessuto socio-economico era caratterizzato dal cosiddetto capitalismo fordista, con la peculiarità di prevedere una mediazione, quasi a fare da cuscinetto tra l'azienda e gli strati sociali. Mentre oggi, complici una serie di fattori esterni ed interni, quello spazio diplomatico si sta irrimediabilmente restringendo, fino quasi a scomparire. In virtù di una nuova razza di capitalismo dai tratti somatici paralizzanti, per l'assenza di conflitti.

Ed ecco il salto a sessantacinque anni fa, quando dalle macerie della grande guerra sorgeva una nuova linfa, capace di ridare speranza chi stava per perderla, di immaginare scenari umani e sociali completamente nuovi. Quando i Costituenti elaborarono un collante politico e culturale di alta responsabilità che portò alla strutturazione della Costituzione italiana. La storia della Carta è il filo conduttore del volume, passando dai quei “trent'anni gloriosi” tanto decisivi quanto di non facile armonizzazione. Sancendo una rivoluzione umana, con il cittadino che si evolveva in persona, emancipata in primis grazie al suo lavoro.
Passaggio sul quale si conviene, in quanto lo sforzo di quegli anni portò alla valorizzazione proprio della persona, dove il soggetto diventa marcatamente umano, affiancandosi ai suoi simili. Sulla base di questa retroanalisi, Bertinotti fa dipendere lo smarrimento del ruolo della Costituzione dall'avvento di un'incredibile spinta tecnologica, applicata non solo alla scienza ma anche all'economia. E anche a una deriva che svilisce i diritti dei lavoratori. Sul primo aspetto è più semplice concordare, dal momento che a volte può accadere che le conquiste scientifiche non vengano gestite con il necessario coordinamento verso la realtà esistente.

Ma sul secondo sarebbe il caso di soffermarsi più criticamente e tentare un approccio meno ancorato a concezioni del passato. Pochi apparirebbero così pericolosamente stolti da voler annullare con un tratto di penna le conquiste faticosamente ottenute negli ultimi sessant'anni in campo occupazionale e sociale. Con meriti indiscussi delle parti sociali, di quella politica con la “P” maiuscola, capace di elevare il lavoro a condizione primaria e insostituibile dell`esistenza umana. È pur vero che oggi, all`alba del terzo millennio e per una serie di cause, conclamate o meno, ci si trovi di fronte a un'epoca di grandi e improvvisi cambiamenti. E, di conseguenza, di non poche incertezze, catalizzate per lo più dalla recessione mondiale, a cui non sarebbe saggio rispondere con strumenti legislativi, sociali e massmediatici del passato. Che mal si adatterebbero alle nuove esigenze della globalità, dove con questo termine si vuol intendere l'interezza dei soggetti, lavoratori, aziende, società, sindacati, rete telematica e mentale in cui si vive.
È vero come l'autore sostiene che, ad esempio, uno dei deterrenti sia stato la “non Costituzione europea”: una parentesi sconveniente, un segnale inequivocabile da un lato della debolezza certificata dell'Europa; dall'altro dell'assenza di lungimiranza continentale. Con la quale, forse, alcuni aspri dossier come il default ellenico, sarebbero stati attenuati. Se Bertinotti pare avere ragione quando fa dipendere dalla crisi del capitalismo finanziario l'esigenza di nuove infrastrutture regolamentari, pecca di ingenuità invece quando attribuisce l'intera responsabilità dello status quo al mercatismo.

Nuove regole sono irrinunciabili, ma a patto che rinnovino la modalità di partecipazione dal basso alla vita delle istituzioni, che responsabilizzino tutti gli attori (protagonisti e non), che facciano comprendere su quali binari innovativi debba viaggiare la qualità della vita umana e il contesto socio-ambientale nell'alveo del quale far sviluppare tali scenari. Ma non sarebbe sufficiente, senza una classe dirigente rinnovata e responsabile, senza un tessuto sociale non “allevato” al disinteresse ma alla partecipazione propositiva. Con cui quegli indici non sarebbero stati cosi`nefasti.
Indipendentemente dai percorsi che hanno portato alla crisi economico-industriale attuale, e da taluni chiari tentativi di svilimento della carta costituzionale, l'unica soluzione che più di altre potrebbe avere possibilità di riuscita, non sarebbe certamente quella rivolta a dinamiche passate. Ovvero quei diritti sino a ieri consuetudine, in quanto figli di un mondo che, piaccia o meno, non c'è più.

Sarebbe più utile invece rafforzare un altro versante: la ricerca di nuovi strumenti per sconfiggere un nemico diverso, imprevisto, dalle caratteristiche non ancora completamente rivelate. Investendo su risposte e risorse innovative, come il capitale umano (rimettendosi in discussione ognuno nel proprio campo, imparando nuove lingue, delocalizzandosi), come la società della conoscenza, come la natura (che se preservata e saggiamente utilizzata potrebbe produrre ricchezza e vita).
Insomma, rispondere avanguardisticamente alla domanda che fa da titolo al libro, con un “noi”. Sarà solo l'uomo, la persona, con il proprio bagaglio di idee e competenze, trasformato e per questo innovativo, a riprendere in mano il proprio futuro.



Chi comanda qui?- Come e perché è smarrito il ruolo della Costituzione
Ed.Mondadori, di F. Bertinotti. pp.138, euro 18,00

Rwanda, quell'assurda corsa per uccidere

Da Ffwebmagazine del 24/09/10

Al centro esatto dell'Africa c'è una piccola porzione di paradiso, grande quasi quanto l'Emilia Romagna. Con vulcani, parchi naturali, laghi, catene montuose. Un dipinto delle meraviglie terrestri, macchiate però dalla mano violenta e fanatica dell'uomo, scagliatasi contro una minoranza. Tutto ebbe inizio con i colonizzatori del Rwanda, che introdusssero una sorta di classificazione della popolazione locale sulla base di caratteristiche somatiche e sociali. Determinando in questo modo una discriminazione razziale a tutti gli effetti, e uccidendo circa novemila persone al giorno: numeri drammatici, come i quattrocentomila bambini rimasti orfani, con ben il 70% delle donne stuprate durante quei giorni, che si sono in seguito ammalate di Aids. Tre mesi di massacri efferati, non solo con armi da fuoco ma addirittura a colpi di bastoni chiodati (importati dall'estero per l`occasione) e machete.

Rwanda, istruzioni per un genocidio è un reportage puntuale ed appassionato su un pezzo di tragedia globale, consumatosi in un lembo di quell'Africa dove, a secoli alterni, si sono avvicendati conquistatori, sfruttatori, signori della guerra. Il libro, firmato da Daniele Scaglione, già ai vertici di Amnesty International Italia, ricostruisce con dovizia di dettagli, quei tragici cento giorni del 1994, quando circa novecentomila rwandesi vennero barbaramente trucidati senza un perché. In una specie di genocidio accuratamente programmato, definito il più spaventoso dalla fine del secondo conflitto mondiale. A perire ancora una volta chi in quell'istante era più debole, chi non godeva di appoggi o di protezioni, chi era numericamente inferiore: il popolo Tutsi, una minoranza degli Hutu, a cui appartengono i paramilitari registi della sanguinosa azione, ovvero gli Impuzamugambi e gli Interaharmwe, vicenda che tra l'altro è stata anche al centro della pellicola di Terry George Hotel Rwanda.

«Un Paese piccolissimo, dal fascino sconosciuto», lo tratteggia nella prefazione Ascanio Celestini. Patria di una realtà quasi «fiabesca, fatta di mille colline e piccole comunità di persone che fanno tutto insieme». E che un bel giorno subisce una vera e inaspettata trasformazione, investite da un mostro capace di fagocitare vite ed esistenze: un mostro chiamato uomo, che ogni mattina si sveglia e va a compiere il proprio dovere di massacratore. Sotto gli occhi del figlio, che chiede con insistenza di poterlo accompagnare nella sua macabra giornata. «Questo libro - riflette nell'introduzione Mimmo Candito - ripropone la stessa tensione morale, ma anche lo stesso alto modello informativo, che il giornalismo investigativo americano ha consegnato al nostro tempo di morte prossima del giornalismo». Genocidio, drammatico termine che molto spesso ha fatto rima con minoranze. La storia riporta quello armeno, quando in occasione del primo conflitto mondiale, circa un milione e mezzo di armeni vennero uccisi dal soldati dell’Impero Ottomano. Mentre i turchi sostengono che si sia trattato di 300mila morti per una guerra civile, il popolo armeno parla apertamente di genocidio, sostenuto da testimonianze dirette. O quello cambogiano, dove dal 1975 al 1978 vennero sterminati due milioni di individui appartenenti alle minoranze vietnamita, musulmana cham e cinese, da parte dei Khmer rossi di Pol Pot. O come quello di Srebrenica, quando nel 1995 ottomila civili musulmani vennero fucilati dalla “X guastatori” dell'esercito serbo bosniaco guidato dal generale Ratko Mladic.
Storie, vite spezzate, sangue a fiotti, cause assurde. Che nel volume di Scaglione sono scansionate grazie il comun denominatore dell'analisi. Perché, accanto a vicende umane e sensazioni di impotenza reale, vi sono riferimenti precisi alla latitanza della comunità internazionale e agli errori commessi. Come le richieste non ascoltate di rinforzi, avanzate dai vertici dei caschi blu in loco; o come la gestione approssimativa degli accampamenti dei rifugiati; e soprattutto la mancata applicazione delle sentenze contro i responsabili dell'eccidio, da parte del tribunale penale internazionale.
Passando per le soluzioni tampone avanzate in ritardo dalle Nazioni Unite, o per i numerosi passi falsi dei governi africani, spesso tramutati in spettatori passivi di grandi tragedie. Tutte evitabili.


Daniele Scaglione
Rwanda - istruzioni per un genocidio
Infinito edizioni
pp. 208, euro 14,00

giovedì 23 settembre 2010

Caro Veneziani, se il premier fosse gay, che cosa scriveresti?

Da Ffwebmagazine del 22/09/10


Ha scritto il filosofo americano William James, che «molte persone credono di riflettere mentre stanno solo riordinando i loro pregiudizi». Slanci pachidermici e di facciata, che recenti autori sono però subito pronti a trasformare in altro, semplicemente quando muta il soggetto in questione. L'esatto contrario di ciò che predicava il fondatore de Il Giornale, quell'Indro Montanelli che nella prefazione de L'Italia degli anni di fango, realizzato a quattro mani con Mario Cervi, scrisse: «Può darsi che di un fatto o di una situazione, quello che noi raccontiamo non sia tutta la verità. Ma è sicuramente la verità, quale sinora si è potuto appurarla», ovvero una sorta di certificato di autenticazione che il maestro del giornalismo italiano intese offrire ai suoi lettori e ai giornalisti che, su quella testata, spesso oggi ne disattendono contenuti e modalità.Tra i numerosi esempi dell'ultimo anno, ne spicca uno che vorrebbe fare la morale, quanto a sfera privata e tendenze intime, ma segnando invece un clamoroso autogol. Marcello Veneziani, in un arduo ragionamento su sesso, politica e orecchiette, riflette che la scelta sessuale di Nichi Vendola (che non è né un merito né un demerito) dovrebbe rimanere confinata nella sua intima sfera. Coperta da «buon gusto e sobria distinzione fra sfera pubblica e privata».
Uno dei commentatori medievali del giornale di famiglia del premier, allude così al fatto che «viviamo in un paradosso: l'omosessualità, che attiene alla sfera privata, diventa oggetto del dibattito pubblico». Come se l'eterosessualità fosse invece più pubblica, migliore, più giusta, da sbandierare come un trofeo issato sul pennone di Palazzo Chigi. E l'altra sbagliata, cassabile, emarginabile. Fa specie la palese distinzione di giudizi, se questi attengono o meno il datore di lavoro. Ma perché lo stesso ragionamento non vale per Silvio Berlusconi? Che, addirittura, in occasioni internazionali ammiccava a premier stranieri, («Ho usato le mie doti di playboy - disse - per convincere la presidente della Finlandia»), alludendo alle sue capacità sessuali. Vantandosi di non aver mai pagato donne, come nella famosa conferenza stampa del settembre di un anno fa, con un Zapatero attonito e rimasto senza parole per le antidiplomatiche dichiarazioni. Senza contare l'imbarazzo della stampa internazionale, che gli chiedeva lumi sul giro di prostituzione e sulle veline che avrebbero frequentato le sue feste.
Tralasciando la nota di colore, questa sì di cattivo gusto, per cui Veneziani arriva a dire di preferire «le orecchiette agli orecchini» vendoliani, ecco fare capolino un'altra dose di peloso perbenismo, quando scrive che «Vendola vuol dimostrare che dal Cialis all'orecchino c'è progresso sociale e morale». Ecco il trionfo dell'inchiostro macchiato di pregiudizio, inondato di bieco salvataggio di un'immagine. Come si può confinare un'oggettiva tendenza sessuale all'interno di un contenitore appositamente costruito per l'occasione? Che invece andrebbe definita rispettosamente con il proprio nome. Dov'è finita l'emancipazione, la libera scelta del singolo? Per caso siamo tornati alla caccia alle streghe, ai roghi, o alle pratiche iraniane dove si impiccano individui a causa delle proprie scelte che attengono alla libertà più intima?Verrebbe a questo punto da chiedersi: chissà che titoli farebbe il giornale di via Negri se, per puro caso, il proprietario-editore-premier, fosse omossessuale.
Non sarebbe azzardato prevedere fiumi di aperture libertarie, tonnellate di accuse omofobe riversate sugli avversari politici, strumentalizzazioni quotidiane ad appannaggio non dell'oggettiva condizione, ma della convenienza contingente.Non si comprende perché, mentre da un lato certi commentatori medievali sostengano giustamente una propria personale posizione su un tema, legittima anche se non considivisibile, dall'altro la applichino solo ai concorrenti. Trascurando dolosamente di estenderla al proprio datore di lavoro, atteggiandosi come se i lettori fossero stupidi o colti da improvvisa miopia. In una ridicola deriva pseudo-informativa, che produce poi i vari falsi d'autore, le iperboli mentali che passano scanzonatamente da un versante all'altro senza la minima logica. Mescolando fatti a supposizioni, indagini a giochi di guerra, in un unico calderone, dove produrre semplicemente disinformazione. La nuova frontiera massmediatica tanto cara ai regimi antidemocratici, e che in questi dodici mesi ha caratterizzato le istituzioni italiane.
Ecco i veri nemici di oggi: giganteschi doppiopesismi, condanne preventive, ipotesi plastificate, censure, limitazioni della libertà imposte dalle carte bollate, suggestioni di taluni media di fronte ai poteri forti e alle direttive dei proprietari. E ancora, influenze dettate dai macroscopici conflitti di interessi, certa sudditanza diversificata. Per cui ci si rende ridicoli, pur di sostenere arzigogolatamente le ragioni del sultano.

mercoledì 22 settembre 2010

Grecia, se la politica offende una civiltà


Da Ffwebmagazine del 22/09/10

«Chi vuole arrivare alla cima di una scala assai alta - diceva Le Machin - deve salire, non saltare». La Grecia e la sua classe dirigente hanno smesso di salire quei gradini. Da molto tempo. E si sono ritrovati, un bel giorno, catapultati in uno scenario apocalittico, senza vie di uscita. Solo con un vicolo cieco che intimava la peggiore delle soluzioni possibili.
Scioperi, speculazioni finanziarie, scontri, delusioni, default. La Grecia che ha iniziato a metabolizzare ciò che realmente l`ha colpita, muove i primi passi verso un mondo completamente nuovo. Fatto di privazioni, razionalizzazioni, risparmi. Il minimo, dopo anni di sperperi e di tasse non pagate. Ma anche di assurde sperequazioni sociali, di grandi conflitti tra politica e cittadini, di mancata equità sociale. Ecco il nodo irrisolto che sta squarciando quel poco di spirito unitario che ancora è rimasto nel Paese.
In questi due anni, caratterizzati da debiti, incredibili morti, pericolosi ferimenti, allucinazioni finanziarie, e mesti ritorni con i piedi per terra, non una voce si e`alzata per dire: ho sbagliato, punitemi e sarò redento. Non una causa avviata contro i responsabili, ministri, sottosegretari, o funzionari che siano. Insomma, non un provvedimento è stato avanzato contro chi sui quei conti avrebbe dovuto vigilare severamente. Contro chi, abitando in una villa con piscina, dichiarava al fisco cinquecento euro all'anno. Contro chi, anche in sede europea, non ha sufficientemente controllato lo stato della corruzione infinita che in Grecia non solo ha messo radici, ma ha trasfigurato dall`interno il tessuto socio/politico. Contro chi ha svenduto anima e pezzi di una nazione che, è utile ricordare, ha dato i natali alle altre civiltà. E che oggi è mortificata da una classe dirigente miope e non all'altezza di tanta storia. Ma anzi, che fa di tutto per proseguire su quei binari putrefatti, su quelle coordinate sfasate, che consegnano il vascello ellenico alla deriva più iniqua.
La politica, sì, proprio la politica. Quella cosa nobile e alta che dovrebbe, nelle intenzioni, provvedere alla qualità della vita dei cittadini, alla sopravvivenza dignitosa delle fasce più deboli, al progresso tecnologico di un Paese, alla salvaguardia del senso unitario di nazione. Cosa ha fatto la politica greca per meritarsi l'epiteto di politica con la P maiuscola? Cosa ha fatto per mettere in pratica gli insegnamenti che secoli fa una grande civiltà ha codificato?
Nulla. E non solo non si è resa primattrice di un qualche intervento che fosse classificabile come migliorativo dello status quo, ma ha fatto di peggio, condannando il Paese a sprofondare sempre piu`nel baratro sociale, economico, industriale, commerciale. Come? Non costruendo le università e costringendo gli studenti ellenici ad un incomprensibile test d'ingresso, che spinge molti di loro (anche i meno abbienti) a spostarsi all'estero, con euro ellenici che fanno la felicità di altri stati. Non valorizzando le professioni pratiche, in virtù di una scellerata propensione per le lauree, con la conseguenza che nel paese mancano figure tecniche, che in ambiti come l`ambiente o il manifatturiero o l'agroalimentare, sono il vero plus.
Non imponendo un modello socio-educativo di qualità, lontano da stardard di vita ben superiori alle proprie possibilità, installando il germe del “tutto pronto e subito”, forgiando una società acefala, che spende più di quanto guadagna, con contraddizioni infinite. Non sfruttando la società della conoscenza, trascurando il comparto Ict, ignorando le potenzialità della rete e le relative ricadute occupazionali. Come gli ebook, o certa letteratura mirata che contribuisce a sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulle problematiche interne, come sapientemente fatto da fior di scrittori turchi o iraniani. Non svolgendo un ruolo primario in occasione di dossier internazionali, come i gasdotti o i nuovi mercati di materie prime africani, senza contare l`apparente disinteresse per giacimenti di petrolio presenti nell'Egeo.

Non stimolando adeguatamente le ricchezze del territorio, come il turismo o i prodotti alimentari, con incredibili iperboli che provocano mancati guadagni, a causa di modalità discutibili di azione e di promozione, dove a volte l`ingordigia del singolo mette a repentaglio il benessere degli altri. Non aprendo con decisione alle liberalizzazioni, vera occasione di sviluppo concorrenziale, lasciando il tutto in mano ai monopoli.
E ancora: non sostenendo le energie alternative, con le auto diesel ancora in netta minoranza, per non parlare di quelle a metano o elettriche assenti, con trasporti pubblici in affanno, senza riposizionamenti e interventi normativi che facciano crescere il tessuto delle piccole e medie imprese. Ma, forse l`aspetto maggiormente dequalificante, non supportando la storia di un Paese e di un popolo, con una conoscenza del proprio passato di nazione e di civiltà: in una parola sola, calpestando la propria cultura. Altrimenti non si spiegherebbe il modesto tasso conoscitivo degli studenti ellenici, l`imbarazzante spregio per lil senso unitario di nazione, dove chi manifesta considerazione per la bandiera e per l'appartenenza ad una comune identità, viene insultato, senza comprendere come il rispetto per una cultura potrebbe rappresentare la vera occasione per uscire da questa crisi.
Non comprendendo come vecchie classificazioni anacronistiche appartengono a un mondo che non c'è più. Perché è stato sostituito da un altro contenitore, che implora la soluzione di altre questioni. Come l'immigrazione straripante in tutto il Paese, come storie di mancata integrazione che vanno raccontate e comprese approfonditamente. Come il blocco commerciale di acque da sempre fertili come l'Egeo ed il confinante Mediterraneo. Come l'infertilità di frammenti storicamente mai avidi di produzioni teatrali, musicali, letterarie.
Insomma, non si peccherebbe di superbia o di pusillanimità, se si chiamassero finalmente le cose con il proprio nome. E giungendo all'amara conclusione che in Grecia la politica ha mancato di rispetto innanzitutto nei confronti della sterminata cultura di un Paese. Con le conseguenze che oggi tutti hanno sotto i propri occhi.

martedì 21 settembre 2010

Nel cous cous, un arcobaleno di gusti e civiltà

Da Ffwebmagazine del 21/09/10

Un incrocio di profumi, di sapori agli antipodi, di colori che non solo si mischiano in una miscellanea di diversità. Ma che finiscono per diventare un unicum così pregiato da far dimenticare le differenze di ingredienti e di persone che lo lavorano pazientemente. Per poi affondare nei palati di chi rifiuta il conservatorismo dei mores, di chi grazie ad un alimento, comune a quel grande lago salato che è il Mediterraneo, si ritrova assieme dopo secoli di divisioni. Il cous-cous, protagonista dell'omonimo Festival a San Vito Lo Capo, giunto alla tredicesima edizione, in quella conca di strabilianti interculture che è la Sicilia, unisce ciò che l'uomo in millenni di storia ha fatto di tutto per separare. E non solo a causa di guerre, carestie ed epidemie ma, volgendo lo sguardo all'oggi, per via di miopie sociali, scelleratezze politiche, pigrizie mentali.

L'evento internazionale dell'integrazione, con nove Paesi uniti intorno a un piatto, che promuove lo scambio e valorizza le differenze, dà vita a una vera e propria festa di popoli, tradizioni e culture. Che si studiano, si osservano e poi si mescolano, si animano in una tavola comune. Noto come cibo tipico delle coste meridionali del Mediterraneo, o piatto nazionale dei berberi, è denominato maftul in Palestina, taam in Libia e Tunisia, o cascà. Pare che le prime citazioni del cous-cous risalgano al tredicesimo secolo soprattutto in Cirenaica, mentre una delle prime apparizioni in Europa è stata in Provenza.
Gli sono stati dedicati libri, film, occasioni di dialogo e di confronto. Come il film di Umberto Spinazzola Cous-cous, che narra le giornate di una banda musicale ovviamente multietnica, (chiamata come il famoso cibo) che, allontanata dalla sala prove all'interno di un inospitale condominio torinese, si sforza di ricercare un altro luogo. Magari più tollerante ad ascoltare note e versi.

Pellicola apprezzata è quella del regista Abdellatif Kechiche, vincitore del Gran Premio della Giuria e del Premio come migliore attrice rivelazione alla sessantaquattresima Mostra del Cinema di Venezia. Dove il sessantenne Beiji si impegna a cambiare vita, e dopo aver trascorso anni di lavoro in un cantiere navale di Marsiglia, decide di coronare il suo sogno aprendo un ristorante. Ecco ancora il cibo che, come in pertugi carsici, fa capolino nelle vite e nelle storie di genti e popoli. «Non riesco a sopportare quelli che non prendono sul serio il cibo», disse Oscar Wilde, a testimoniare un legame indissolubile tra l'alimento e le fasi delle singole esistenze.
Le stesse genti che per sei giorni si ritroveranno nel trapanese nell'elogio del meticciato alimentare, all`interno della Al Waht, che in arabo significa oasi nel deserto, dove si svolgeranno meeting e degustazioni dentro una tenda berbera, con atmosfere etniche e danze del ventre. Sino al gran finale dell'evento, con la gara gastronomica tra Paesi (Francia, Israele, Algeria, Costa d'Avorio, Palestina, Marocco) che si daranno da fare per strappare il titolo all'Italia, vincitrice lo scorso anno.

Ispirandosi a un mondo di colori, dove il cous-cous rappresenta la sintesi di culture e mondi lontani, quello stesso intreccio di carni, verdure, pesce e miglio che accende la luce della comunione. Dettagli presenti con insistenza in un altro romanzo, firmato da Pap Khouma e intitolato Nonno Dio e gli spiriti danzanti, con al centro dei dialoghi il tradizionale lalo, la foglia di Paspalum Hieronymii, utilizzata per la preparazione del cous-cous a base di miglio.

Senza dimenticare le pagine de Le avventure del cous-cous, di Mouhoub Hadjira e Rabaa Claudine, dove si raccontano viaggi e soprattutto le coordinate socio-geografiche del gustoso alimento. Fino a spingersi alle origini babilonesi, ovvero all'inizio della civiltà. E poi i primi gesti della preparazione, i sapori che si intrecciano, i profumi che si concentrano ma provenendo da più direzioni, le mani che assemblano i singoli ingredienti, in un arcobaleno di gusti. In una parola sola cous-cous.

domenica 19 settembre 2010

Sull'amore, l'Italia è ferma al Medioevo?

Da Ffwebmagazine del 20/09/10

Tav, ponte sullo Stretto, nanotecnologie, banda larga? Altro che progresso. L'Italia a volte sembra proprio essere fuori dal mondo, e non solo per le sue meravigliose peculiarità stilistiche e culturali che la confinano fuori dalla normalità. Bensì perché l'Italia dei diritti civili è purtroppo ferma al Medioevo, con le “nuove” famiglie che semplicemente non esistono, non vengono prese in considerazione, ignorate e immolate sull`altare di una grave compostezza di facciata. Preconcetti, mancanza di lungimiranza, calcolo politico, ignoranza, razzismo: da dove cominciare? Perché no dalle pagine de In nessun paese. Perché sui diritti dell’amore l’Italia è fuori dal mondo, scritto a quattro mani dal vicepresidente del Pd, Ivan Scalfarotto, e dal giornalista Sandro Mangiaterra, sull`arretratezza legislativa nostrana circa diritti civili e coppie gay.
L'Istat, e non il primo sondaggista di fiducia, ha certificato che in Italia ci sono poco meno di novecentomila coppie di fatto, di cui solo un quarto omosessuali. Anche per sfatare quel tedioso tabu`che titola macroscopicamente il provvedimento sotto il nome di “matrimoni gay”. Ignorando, colposamente o dolosamente, come la questione abbracci un numero ben piu`vasto di individui e di storie umane.
Gli autori sostengono che se l`Italia fortunatamente non figura tra i settantotto Paesi che considerano ancora l`omosessualità un reato (e dei quali sette contemplano per questo la pena capitale), al contempo è però il fanalino di coda in Europa quanto a norme che puniscono l`omofobia, o che prevedono il riconoscimento dei diritti civili anche per unioni che esulino dal matrimonio. Quindi - precisazione utile per soffocare certe convinzioni pressapochiste - anche coppie di sesso diverso che convivono.

Il libro si compone di una serie di scritti-denuncia, che prendono spunto da vissuti personali, prima di lasciare spazio anche ad altre esperienze, non in presa diretta. E che fanno luce su quell'aspetto gretto e impolverato del conservatorismo tutto apparenza, del pericoloso e ipocrita perbenismo che mortifica la sostanza solo per accaparrarsi i consensi della forma. Pericoloso perché si insinua nella pigrizia delle menti, nella svogliatezza di comprensione che spesso fa capolino quando è utile approfondire, ragioni ed esigenze. E non limitarsi a bollarle come contorno moderno di una società che sta impazzendo.
La lettura del libro sarebbe consigliata non solo ai legislatori attuali, ma anche a quei commentatori ancora sordi al richiamo della modernità sociale, per strozzare il rischio di discriminazioni razziali o in ambito professionale. Per dare finalmente avvio a un'Italia più laica e meno bacchettona. E in questo, una puntuale dose di responsabilità non puo`che essere della politica, definita da Scalfarotto incapace di «guidare il Paese, e al massimo si limita a seguirlo».

Senza dimenticare come, ogni qual volta il tema dei nuovi diritti si inserisce nell`agenda politica nazionale, scendono in campo una miriade di difensori del purismo, oltre ai nuovi omofobi. Nuovi perché utilizzano strumentalmente la contrarietà a provvedimenti come Dico o Pacs, e non per questioni di principio. È questa la frontiera da abbattere, in quanto sembra quasi che le posizioni da assumere non rispecchino il merito, ma la convenienza contingente.
Scalfarotto rammenta come il Parlamento italiano alla fin fine sia più avanti di tutti i pregiudizi, le polemiche, i dibattiti, i no preventivi, le accuse. In quanto ha provveduto ad estendere i benefici anche ai partner conviventi di senatori ed onorevoli. Una piccola spia di come, da un lato la politica si rende partecipe di un'evoluzione sociale, ma dall`altro mostra egoisticamente di guardare solo nel proprio orto.
Dimenticando intenzionalmente tutto ciò che al suo esterno nasce, si forgia, si muta, si evolve.

Ivan Scalfarotto e Sandro Mangiaterra
"In nessun paese. Perché sui diritti dell’amore l’Italia è fuori dal mondo".
Ed. Piemme
pp. 218, euro 17,50

Ma la politica del “se” non cambia l`Italia

«Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare/sarei certo di trovare/tutta la felicita`…” cantava Alberto Rabagliati negli anni del secondo conflitto mondiale. Una sorta di primordiale tormentone per le sporadiche radio presenti nell’Italia martoriata dalla guerra. A testimoniare un’ipotetico evento che cambiasse le cose, che migliorasse i conti e di conseguenza anche il tenore di vita.
Pochi giorni fa un`altra esortazione, diversa nei contenuti, ma affine in quanto a speranze: “Se non avessimo la Calabria, la conurbazione Napoli-Caserta, o meglio se queste zone avessero gli stessi standard del resto del Paese, l'Italia sarebbe il primo Paese in Europa“. Cosi` parlo`Renato Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione, in uno slancio di quella politica del “se” che purtroppo non si tramuta in azioni e che nei fatti non cambia l`Italia, perche`appunto fatta di parole.
Tralasciando per un attimo il lato emotivo ed umano della questione (sul quale fior fior di Grandi calabresi e campani potrebbero a gran voce dire la loro), ma che significa tale analisi? Si potrebbero facilmente avanzare un paio di dubbi. “Ah” (sospiro), se non ci fossero la mafia, la n’drangheta, la camorra, la sacra corona unita, la criminalita` organizzata, gli italiani del sud e del nord (si vedano per completezza di informazione gli ultimi omicidi mafiosi avvenuti anche in Lombardia, e non solo a Canicatti`) vivrebbero meglio e i commercianti non sarebbero taglieggiati. I rifiuti non verrebbero occultati in chissa`quale discarica abusiva, i giudici non verrebbero uccisi, certe mozzarelle non sarebbero blu dopo l`apertura, l`autostrada Salerno-Reggio Calabria non costerebbe uno sproposito, certi soggetti non verrebbero candidati in certe liste elettorali.
Sempre per completezza di cronaca, si potrebbe aggiungere che senza il governo Berlusconi non sarebbero state approvate alcune leggi ad personam, tra cui quella che ha consentito a Mondadori di non pagare in tasse una pesante cifra, o senza il viceministro Romani alle comunicazioni le casse dello Stato avrebbero gia`incassato circa quattro miliardi di euro dagli sviluppi della banda larga. O senza la congruenza della politica con la “p” minuscola, migliaia di risparmiatori italiani non sarebbero stati truffati da una multinazionale, o senza i ritardi legislativi tutti nostrani avremmo gia`da anni una norma che regoli il fine vita.
E si potrebbe continuare all`infinito, citando numerosi episodi negativi, o numeri e fatti che spieghino congiunture sfavorevoli, alla base di un dato evento. Ma con quale vantaggio? Con quello forse di mordersi la lingua, o mangiarsi le mani, o imprecare contro qualcuno o contro qualcosa? Da una mente vivace e niente affatto statalista e piagnona come quella del ministro della Pubblica amministrazione, capace di inventarsi dal nulla un`interessante riforma del merito, sarebbe lecito attendersi qualcosa in piu`che la “politica del se”. Perche`a nulla serve constatare il constatato, appurare l`appurato (ormai da molto tempo), prendere atto dell`oggettivo ed acclarato.
Cio`che manca e`la politica del fare, quella cosa che abbonda in tutti i programmi elettorali che si rispettino, trasudando promesse e impegno ventiquattr`ore su ventiquattro, per poi essere sorpassata da altre questioni ben piu`urgenti. Come ad esempio la giustizia, gli scudi vari o i processi lenti, medio lenti, brevi o brevissimi, che hanno di fatto superato per rilevanza e considerazione altre deficienze italiane, come i ritardi infrastrutturali, come l`emergenza lavoro che sta facendo chiudere migliaia di aziende, come le difficolta`degli italiani monoreddito, come le piccole e medie imprese soffocate dal fisco.
Senza contare che l`arringa contra di Brunetta, non tiene conto dell`evoluzione concettuale del Pil, che non si calcola piu`affidandosi esclusivamente al benessere prodotto dai quattrini, ma abbraccia anche altri aspetti.
E allora, ci si potrebbe provocatoriamente chiedere, che ne sarebbe delle altre regioni d`Italia senza l`apporto di illustri personaggi? Nati, ad esempio proprio in Campania: come Torquato Tasso, Giovanni Amendola, i De Filippo, Roberto Saviano, Sophia Loren, Galeazzo Florimonte (ispiratore del “Galateo”). O in Calabria: come i pittori Mattia Preti e Stellario Baccellieri, Clearco (caposcuola della scuola reggina di scultura), Costantino Mortati, Aroldo Tieri, Tommaso Campanella, Raffaele Pirio (chimico che ha isolato l`Aspirina).
Verrebbe facile chiudere ispirandosi proprio alla dichiarazione del ministro, per l`appunto chiedendosi: “se non ci fossero i leghisti, i docenti italiani di diritto Costituzionale a chi darebbero poi ripetizioni mensili?”. Ma questa e`un`altra storia.

Il Festival di Venezia?Tanto vale abolirlo


Da Ffwebmagazine del 19/09/10

“Occorre coltivare il nostro giardino”, diceva Voltaire, ma sarebbe il caso di aggiungere: a patto di non piantare arbusti di plastica o falsi cespugli. “Diro`la mia sulla scelta dei giurati”. “Metterò becco nelle scelte interne”. Che minacce, sembra quasi di trovarsi di fronte a certi comitati del Pcus, quando persino i premi letterari erano pesantemente influenzati dal regime. Dove la nomenklatura era penetrata in tutti i pertugi culturali, anche nelle scelte tecniche teatrali o musicali. La differenza è che non si tratta di una qualche manifestazione filogovernativa, o di un parata militare in vecchio stile putiniano. Il tema affrontato con quelle espressioni dal ministro della Cultura Sandro Bondi è la Mostra del Cinema di Venezia. Non la prima sagra settembrina.
Sarà, ma a leggere le intenzioni organizzativamente bellicose, appare una nota stonatissima il voler applicare ad un ambito culturale le dinamiche partitiche. Con quel “metterò il becco” si lascia intendere di applicare per caso il manuale Cencelli? O di voler stabilire preventivamente componenti e modalità di valutazione? Se così fosse sarebbe molto grave, anche perché instillerebbe il dubbio sulla reale consistenza dell'azione del ministro. Forse non si è accorto che, essendo stato attribuito il Leone d`Oro a “Somewhere” di Sofia Coppola, il cinema nostrano è rimasto a bocca asciutta? Forse non si è accorto che il vero plus della Biennale è stato in passato, e dovrà essere in futuro, la sua indipendenza? Assoluta, completa e oggettiva. Forse non ha sufficientemente approfondito lo standard qualitativo delle scelte della giuria, con profili di caratura internazionale, con nomi importanti?
Si tratterebbe di una decisione senza precedenti, anche perché il presidente di giuria viene proposto dal direttore della mostra e ratificato dal presidente e dai membri del consiglio di amministrazione, come prescrive il regolamento. Va bene le rivoluzioni, ma fatte all'italiana proprio no. Mortificando in questo modo l'impegno per far crescere il cinema di casa nostra.
Ma il ministro non finisce di stupire, quando si lascia andare a poetici commenti sui protagonisti della mostra ormai conclusa. “Il presidente Tarantino? Uno snob. Il direttore Muller? Schematico”. Giudizi tecnici, personali, sui quali è lecito discutere e confrontarsi. Altro, però, è voler ingabbiare l'evento che richiama cineasti e professionisti da tutto il mondo in laguna, in un alveo che puzza di intromissione, di aziendalismo, di proprietà privata anzi privatissima. Insomma, di ancien regime. Se alle parole di Bondi seguissero i fatti, si tratterebbe di uno snaturamento della mostra.
E allora a questo punto si potrebbe proporre al titolare della cultura italiana di abolire la mostra di Venezia. Qualora dovesse trasformarsi nella piattaforma cinematografica per questo o quel “protetto”, tanto vale farne a meno. Ci guadagnerebbe l'immagine del Paese, tanto sbandierata nelle trasferte internazionali. Se chi rappresenta la cultura di una nazione dimostra tanto poco attaccamento ad essa, anzi contribuisce al suo svilimento dall`interno, significa che la cultura italiana, che da molto tempo rappresenta uno dei nostri fiori all'occhiello, semplicemente è stata dolosamente degradata a fastidioso contorno.

Dalla Biennale asiatica,una sfida per la pigra Europa

Da Ffwebmagazine del 19/09/10

Che delizia, un’idea pericolosa giunge da un continente lontano, e per giunta è di matrice nostrana. Un evento di respiro mondiale, la Biennale Asiatica che si apre in questi giorni nella cittadina coreana di Gwangju, avanza la tesi che tutte le immagini veicolate oggi dalla società possono in un determinato contesto divenire arte, o al limite assumerne i contorni. Firmato Massimiliano Gioni, che sulla Stampa si spinge a rilevare anche: «Non so se il futuro dell'arte è qui. Sicuramente stando in Corea si percepisce un paese che vive il futuro in modo molto meno ansioso di noi. Un futuro nel quale noi occidentali avremo un ruolo molto meno rilevante».

Due contesti, arte e futuro, che in quel lembo di Asia sembrano aver trovato una spinta propulsiva non indifferente. Dove i coreani, prosegue l’esperto italiano, già curatore della Fondazione Trussardi a Milano e del New Museum di New York, hanno dimostrato una grande curiosità e «un desiderio di rischiare da far vergognare noi occidentali». Lo stupore per il dinamismo dei coreani viene dal fatto che non hanno fiatato circa modalità e perimetrazione della biennale, ovvero senza temere rivoluzioni stilistiche o provocazioni. Ostentando non poco coraggio artistico ma soprattutto sociale, senza farsi soffocare dai compromessi politici che invece, sostiene Gioni, in Europa avrebbero rappresentato un’indubbia zavorra.

Nei poco più di due mesi di apertura della kermesse, si potranno ammirare fotografie, oggetti, immagini di individui morti, anche crude, danze folkloristiche quindi identitarie, ma anche segnali di appartenenza globale a mille storie diverse e diversificate. Pezzi di un puzzle complesso e variopinto, dove le migliaia di sfumature cromatiche sono il vero plus. Perché osano, perché rompono canovacci, solcano percorsi nuovi sconosciuti e mai tracciati. Ecco la doppia sfida della Biennale Asiatica, lasciarsi andare al futuro, al nuovo, ed evitare di rintanare l’arte ed i suoi derivati in contenitori appesantiti, standard, dove essa alla fine risulti amaramente fruibile solo alle elite. E quindi lontana anni luce dalla gente.

Ma perseguendo invece un obiettivo intelligente e lungimirante, stimolando quell’arte che parta dal basso, come gli scatti dei campi di concentramento cambogiani, o quelli dei prigionieri condannati dal regime di Pol Pot. Passando per storie vere e vissute, come le scatole che Andy Warhol pare avesse dedicato a sua madre.

Un modo innovativo per scacciare l’ossessione del professionismo artistico, per dire che l’arte è anche e soprattutto il racconto in forma originale di ciò che accade, di quello che passa per la testa della gente, o sotto la finestra di casa, o ciò che fra le righe quella stessa gente non si dice. Senza dimenticare i sogni, le emozioni, i sentimenti. Come si può ingabbiare questa miriade di sensazioni e di pensieri in un contenitore a tenuta stagna, con porte sbarrate e codici criptati?

Dai coreani, anche grazie alla verve di un italiano, una doppia lezione per la vecchia Europa quindi. Di uno sguardo al futuro più ottimista, con tentativi non sporadici di sperimentare, di ricercare, di annusare ciò che non rientra tra i profumi conosciuti.

Sta tutta lì la sfida da vincere, per non rimanere miseramente chiusi e ripiegati in una sorta di grande dimenticatoio delle idee. Che puzza di chiuso e dal tanfo che addormenta.
Perché, come disse Marco Aurelio, «ognuno vale quanto ciò che ricerca».

martedì 14 settembre 2010

Il referendum? Per Ankara è un punto di partenza


Da Ffwebmagazine del 14/09/10

Il macroscopico passo in avanti, quanto a diritti e sviluppo sociale, che ha fatto la Turchia votando “sì” alla riforma della Costituzione, non dovrà essere una conquista sulla quale adagiarsi per qualche decennio. Ma dovrà rappresentare l’inizio di un percorso nuovo, tortuoso ma risolutivo, per ammodernare finalmente quella che geograficamente è l’ultima frontiera europea, e la prima del continente orientale.Il 58% dei votanti ha deciso di sostenere la “discriminazione positiva” ad appannaggio di anziani, disabili, donne e bambini, sancendo un fatto storico dal punto di vista sociale e della considerazione umana. Si tratta di un pacchetto di emendamenti a ventisei articoli della carta costituzionale proposto dal partito del premier Erdogan, Giustizia e Sviluppo. Che introduce la garanzia del diritto alla privacy, un maggior equilibrio della macchina giudiziaria: il diritto di ciascuno di espatriare d’ora in poi verrà limitato solo da un giustificato provvedimento di un giudice.
Mentre i civili non potranno più essere processati dai tribunali militari; i militari potranno essere giudicati da tribunali civili; e infine i più alti in grado dalla Corte Costituzionale.Si allontana l`incubo golpe, aveva previsto pochi giorni fa il Nobel per la leteratura Orhan Pamuk, per scacciare definitivamente il ricordo di quel passato violento e di oppressione. Quando scrittori e poeti vennero confinati in carcere, testi e volumi pericolosamente inneggianti alla libertà celati alle letture dei cittadini, individui torturati e diritti imbalsamati. Sono stati quattro i colpi di stato in Turchia negli ultimi dieci lustri che hanno portato la firma dei militari. Numeri considerevoli, che danno la cifra della loro influenza nelle istituzioni del paese.
Il momento contingente non è dei più semplici, per via di una serie di fattori. Primo fra tutti lo strano asse instaurato dalla Turchia con Brasile e Iran che ha portato pochi mesi fa a un triplice accordo nucleare: Teheran sta trasferendo 1.200 chilogrammi di uranio non arricchito in Turchia, e Ankara sta ottenendo combustibile nucleare altamente arricchito, da girare proprio all`Iran per fini civili. Con il sostegno diplomatico del Brasile, ma con forti perplessità di Israele che grida alla “manipolazione”.
In secundis le periodiche schermaglie con gli Stati Uniti che si sommano al controverso rapporto con l`Unione Europea. E infine l`ostinazione turca a non riconoscere il genocidio armeno, il ruolo socio/politico/religioso delle minoranze curde, la prepotenza militare a Cipro (con ancora quarantamila soldati presenti sull`isola) e le quasi quotidiane provocazioni aeree con i vicini Greci, in virtù di pretestuosi sconfinamenti, che sono costati alcune vite umane tra i piloti solo per fermarsi agli ultimi cinque anni. Facile dedurre come l`evento di portata globale del referendum sia da interpretare non come un punto di arrivo, bensì come base di partenza. Perché non apparirebbe affatto saggio fermare proprio ora la macchina del progresso, dal momento che da quelle urne è venuta fuori più di una svolta storica.
Inoltre è bene focalizzare l`attenzione della comunità internazionale sul fatto che non è stato un voto politico, verso questo o quel partito. Ma sarebbe il caso di leggere quel “sì” come un voto dei cittadini proiettato al futuro del paese, verso quell`emancipazione socio/culturale troppe volte strozzata dall`eccessivo conservatorismo e gretto protagonismo della classe militare, vero architetto degli equilibri turchi, passati e presenti.E il fatto che tra i sostenitori del “sì`” vi siano stati esponenti appartenenti a diversi e opposti schieramenti, significa che in gioco non c`era l`accaparramento di sondaggi o di seggi temporanei.
Ma il ruolo più spiccatamente democratico, da salvaguardare e rafforzare, di un patrimonio comune, con benefici rivolti a tutti. Perché, come diceva Albert Camus, «la libertà non è che una possibilità di essere migliori. Mentre la schiavitù è certezza di essere peggiori».

domenica 12 settembre 2010

Raimon Panikkar,il filosofo delle tre religioni

Da Ffwebmagazine del 12/09/10

«Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo indù, ma totalmente occidentale e totalmente orientale». Raimon Panikkar era così imbarazzantemente globale, sostenitore della convivenza non soltanto fisica ma soprattutto spirituale tra menti e idee.

Di madre cattolica catalana e di padre indiano e induista, dei suoi genitori soleva dire che vivevano in una profonda armonia, anche se provenienti da due modelli sociali diversissimi. Filosofo, teologo, sacerdote, era detto l’uomo delle tre religioni: amava ripetere di essere andato cristiano, scoperto indiano e ritornano buddista. A testimoniare un incontro intimo di culture e credi diametralmente opposti, che lo avevano indotto a sostenere concetti come convivenza e dialogo. Insomma, un innovatore pericoloso e facinoroso, che in certi ambienti politici sarebbe stato molto probabilmente epurato. E non solo durante la guerra fredda.

Ha insegnato religione comparata ad Harvard e storia delle religioni e filosofia della religione in California, presso l’Università di Santa Barbara, dopo aver toccato altre cattedre come Montreal, Madrid, Bangalore. Ha ricevuto cinque anni fa la laurea honoris causa in antropologia ed epistemologia delle religioni dalla facoltà di sociologia dell’università di Urbino. Protagonista di un’esperienza nell’Opus Dei, dalla quale successivamente si allontanò, ha pubblicato ottanta libri, incentrati sul dialogo tra idee ed azioni, orientato verso la difesa della pace e della convivenza. Vi è anche un centro interculturale nato nel 1988 a Tavernet, sostenuto dalla volontà di rafforzare proprio ciò che lui definiva il “dialogo dialogale” tra le tradizioni, con l’attenzione puntata sulla giustizia sociale e sulle spiritualità.

Una sorta di giramondo dei pensieri, amico personale di Habermas e Kung, è stato membro dell’Unesco e del Tribunale permanente dei popoli. Ha teorizzato il viscerale legame esistente tra contemplazione ed azione, stimolando ossessivamente l’integrazione delle diverse sfere del reale, da lui incanalate all’interno del trinomio umano-divino-cosmico. Al pari del più filosofico concetto di coscienza-libertà-materia. Entusiasta frequentatore dell’Italia, due anni fa si era resto protagonista a Venezia, in occasione del suo novantesimo compleanno, di un sinedrio al quale avevano aderito studiosi provenienti da vari continenti. Mentre nel 2000 era stato nominato Chevalier des Artes e des Letres dal governo francese, prima di ricevere la Medaglia d’Oro della presidenza della Repubblica italiana.

Alla base di una così marcata vivacità mentale vi è il suo peregrinare giovanile: nasce a Barcellona dove si diploma, nel ’36 fugge in Germania a causa della guerra civile spagnola, fino al ’50 e dopo vari dottorati, insegna in Spagna ed in America Latina. Poi inizia a collaborare con diverse riviste francesi, italiane, tedesche, spagnole. Ma è l’incontro con l’India, a trentasei anni, a modificare definitivamente le sue coordinate mentali. L’occasione è una missione apostolica, che lo fa giungere sulle rive del Gange, dove si dedica allo studio, alla lettura, alla scrittura, alla meditazione. Tre monaci cristiani affascinati dall’induismo influenzano il suo progresso socio-metafisico, riuscendo nell’impresa di superare il dualismo religioso e comprendendo come si possa essere insieme cristiani e indù, altro passaggio delicatissimo verso il suo convincimento legato alla convivenza interculturale.

All’indomani dell’esperienza indiana ecco un altro stravolgimento a trecentosessanta gradi: la cattedra di religione comparata in California, dove si accosta ad una realtà completamente opposta a quella delle rive del Gange. Ricchezza, prosperità, benessere lo colpiscono, portandolo a riflettere sul fatto che l’unico punto di unione tra “due sfere della mia vita” era la sua vita interiore. Vero momento di equilibrio catartico tra due mondi agli antipodi. Ma un’altra contraddizione era in agguato, caratteristica che si rinnova ciclicamente nell’esistenza di Panikkar: prima di “chiudere il cerchio”, come scriveva, doveva tornare al luogo natìo. Di qui il rientro in Catalogna negli anni ’80, per completare il proprio percorso mentale, da dove prosegue incessantemente la sua attività filosofica e pubblicistica. Raggiungendo spesso l’Italia in occasione di seminari e dibattiti, come quello del 2004 a Venezia con Emanuele Severino.

Ma sempre nel solco di un incontro solido e fervente tra rami opposti, tra lembi lontani che, a discapito di distanze siderali o punti cardinali irraggiungibili, si riavvicinano e si parlano. E proprio in quell’istante, in quel limbo dove Oriente ed Occidente si sfiorano, si studiano, si interrogano, è lì che la mente pacifica e conciliante di Panikkar lavora intensamente. «Le parole dei grandi maestri - disse - non sono scritte su pergamena, ma sul cuore degli uomini».

Addio alla “madre della clandestinità”

Da Ffwebmagazine del 12/09/10

A un ponte ferroviario di Berlino pare sia ancora appesa una scritta che recita: «Non volevamo un pezzo di torta, abbiamo voluto tutti i prodotti da forno». E quella pasticceria e quelle materie prime significavano vita futura e libertà. Una cosa che non si acquista già confezionata, ma che come il raccolto si semina pazientemente e poi, dopo attese e speranze di buon tempo, si raccoglie con delicatezza. Per goderne dei frutti e, soprattutto, per seminarne ancora i nuovi semi. Proseguendo una lenta litania senza interruzioni che ne scombinerebbero il significato e il risultato.
Libertà e pace, nel bel mezzo della cortina di ferro, sono sinonimi di Barbel Bohley, attivista in opposizione clandestina al regime comunista tedesco, scomparsa assieme ad un pezzo di quel Muro che contribuì a far crollare. Nata a Berlino pochi istanti dopo la fine del secondo conflitto mondiale, era pittrice, grafica, esponente di un filone artistico che sfocia nel movimento pacifista occidentale, semplicemente contro la violenza fisica e l'oppressione intellettuale dei regimi del passato. È sua una significativa firma nel 1980 in calce al manifesto “Istigazione alla pace”, che rappresentò la prima espressione pacifista congiunta, avanzata dai militanti dell'est e dell'ovest. Quando gli attivisti dei due pezzi della Germania iniziarono a parlarsi, perché mossi da un obiettivo comune, alto e spendibile per il futuro di tutti, che segnò lo spartiacque con una fase nuova della storia tedesca, anticipando le prime picconature che quel muro avrebbero contribuito ad abbattere qualche anno dopo.
Nel 1982 un'altra mobilitazione con Barbel Bohley in prima fila, con lettere di protesta indirizzate al Governo, che intendeva arruolare le donne in caso di necessità per la difesa del Paese.
Fu in quell'occasione che nacque il Movimento femminile per la pace, con il sostegno iniziale di centocinquanta donne. Ma se da un lato muoveva i primi passi uno spirito libero e deciso a infrangere quel regime e quei precetti, dall'altro iniziava il suo personale calvario, che l'avrebbe portata più volte in carcere. Nel 1983 il primo triste segnale, con l'espulsione dall'associazione degli artisti e l'impossibilità di esporre le proprie opere. L'accusa? Sempre la stessa: tradimento. Presunto, provato, ipotizzato. Ovviamente i regimi totalitari che si rispettino hanno solo l'imbarazzo della scelta. Ed ecco il carcere, un'esperienza incredibile, dove l'aria che quotidianamente si respira per strada, nelle vite di tutti i giorni dove si dà tutto per scontato, diventa improvvisamente un tesoro, da centellinare e conservare. Ma che al contempo spinge le idee a forzare quelle sbarre e quelle celle, che muove le anime di chi dal di fuori osserva questo scempio dei valori umani e della libertà di espressione. E che produce indignazione, movimenti, socialità che si amalgamano, e che reagiscono.
Quelle stesse emozioni che poco prima del novembre 1989 diedero il via, assieme all'entusiasmo di Katia, vedova di Havemann, ad un altro esperimento socio-mediatico all'avanguardia, il “Nuovo Forum”, un contenitore sprovvisto di un vero e proprio programma politico, ma che spronava i cittadini a pensare una democrazia che partisse dal basso, che fosse agli antipodi della consuetudine istituzionale dell'epoca. Che spingesse la gente ad interpretare i bisogni e le esigenze delle altre persone, anch'esse cittadine e potenziali attivisti. In un ambito, quello della Germania divisa, dove gli aliti di libertà e di idee erano soggiogati.
E allora le finestre di un mondo nuovo vennero spalancate anche grazie alla determinazione di Barbel Bohley, definita dalla Stasi “la madre della clandestinità”. Una donna che proprio una manciata di giorni prima del crollo, lanciò il manifesto del forum, chiamato “Svolta 89”. Mai nome fu più adatto.