mercoledì 13 ottobre 2010

Scuola e politica: gli squilibri di un corto circuito italiano

Da Ffwebmagazine del 12/10/10

Cosa succede se in periodi di recessione, il corto circuito tra cittadini e politica è infiammato da un altro fattore di deficienza? Quali scenari prevedere se gli individui si impoveriscono e hanno meno diritti, mentre certa politica dai modi intemperanti aumenta privilegi e godimenti? Come spiegare tale scollamento abnorme tra vita quotidiana e seminterrato dorato dove vivono e pontificano certi amministratori?
Nei giorni in cui le piazze italiane hanno visto sfilare e protestare non solo gli studenti, ma anche genitori, ricercatori, insegnanti, bidelli e precari, è avvilente apprendere, quasi con una tempistica beffarda, che in alcuni consigli regionali d’Italia si può andare in pensione a cinquant’anni. E non per chissà quale condotta illegale, ma proprio perché la legge lo consente. Ecco il paradosso sociale che attanaglia il Paese e che, sempre più spesso, subisce una pericolosa sottovalutazione da parte di chi con le parti sociali e con i cittadini che ogni giorno sono in prima fila, dovrebbe conciliare esigenze e contingenze.

Una legge regionale del Lazio, tanto per fare un esempio, consente agli ex consiglieri (che già godono di uno stipendio spropositato rispetto ai colleghi europei) di andare in pensione a soli 50 anni, mentre il resto del Paese deve attendere almeno i 65. È sufficiente quindi anche una sola consiliatura per avere un vitalizio di 1.800 euro, che possono lievitare sino a 4.000 per chi abbia collezionato più di due mandati.
Questa cosa, strana, lontana anni luce da concetti come opportunità ed armonizzazione socio-economica di una nazione, prende il nome di “pensione politica” e non è una bella immagine che si offre, a fronte di centinaia di aziende italiane in difficoltà, con migliaia di disoccupati o in cassa integrazione di cui pochi mezzi di informazione si occupano. Ma tale dato, triste e dequalificante per un Paese che si dice democratico, fa sì che si riapra il dibattito sull’emergenza educativa. Perché di emergenza si tratta e non del corteo di quattro o cinque scalmanati. Che, guardando le immagini, scalmanati non sono.

Nel rapporto-proposta della Cei intitolato “La sfida educativa” si legge proprio che nel sistema Italia è sottile l’uguaglianza dei punti di partenza; sono deboli la scuola, l’università e la ricerca, poco inclini a premiare il "merito", inteso come strumento di promozione ed elevazione sociale. Come più volte ribadito dal Presidente della Camera Gianfranco Fini, la cosiddetta emergenza educativa è figlia di mentalità, culture e comportamenti che esprimono una visione riduttiva dell’uomo e della sua libertà. Per questo è necessario intervenire sui disagi provocati dai tagli: e la scuola ne incarna l’esempio più impellente.

Quando a una folla che chiede delucidazioni e confronti, la politica risponde arroccandosi sempre più in alto sul cucuzzolo degli infiniti privilegi da casta, commette un doppio errore. Svilisce il proprio ruolo, offrendo il fianco a facili critiche e soprattutto non risolve un problema che non è più procrastinabile. Ecco allora che quella famosa politica con la P maiuscola, quello strumento tanto invocato in occasioni ufficiali, come le inaugurazioni di nuovi poli o i comizi in campagna elettorale, dovrebbe dare un segno. Forte e risolutivo. Perché allora nella conferenza stato-regioni non ragionare su un nuovo patto sociale? Dove tutti i consigli regionali d’Italia- anche quelli con statuto speciale- votino una leggina per equiparare l’età pensionabile dei consiglieri a quella degli altri cittadini, cassando assurdi privilegi, che inaspriscono ulteriormente il disagio sociale del Paese.

Sarebbe una risposta efficace, e alta, a un grido di dolore che proviene da uno dei comparti più significativi di una comunità. Senza dimenticare che i deterrenti di oggi all’educazione prendono il nome di relativismo, individualismo, ignoranza, pressappochismo, smembramento sociale. Se invece ci si rapportasse all’educazione considerandola un valore portante della società, non si otterrebbe solo un beneficio per quel singolo ambito. Ma si ritornerebbe finalmente ad investire nella conoscenza e nelle risorse umane, di chi è chiamato a formare nuovi individui e nuovi soggetti professionali.
Sicuri che la politica ne abbia compreso la straordinaria importanza?

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