sabato 9 ottobre 2010

"Non chiamela cultura": quella di Bondi è autocritica?

Da Ffwebmagazine del 09/10/10

Sandro Bondi al Foglio: «C’è un corto circuito tra cultura e politica: la prima tracima di continuo nella militanza politica, rinunciando al dovere della conoscenza, alla riflessione, al ragionamento. E in questo trova sostegno nei media che drammatizzano le notizie». Finalmente il ministro della Cultura ha capito dove ha sbagliato, lui e il partito al quale appartiene. Spingendosi poi a proporre un osservatorio permanente sullo stato della cultura, «perché la politica non ha bisogno della cultura, non ottenendo da essa nulla di più che mera merce ideologica».

La domanda sorge spontanea e non provocatoria, ma seriamente posta: per caso ha avuto modo di guardarsi allo specchio? Scorrendo i quadri del fu Pdl, si apprende che il nostro, oltre ad essere Ministro dei beni culturali, è Coordinatore nazionale del Popolo della Libertà e, dulcis in fundo, anche responsabile tematico dei Promotori della Libertà per la cultura e la formazione. Un ruolo di primissimo piano, affidato solitamente a chi con cultura e formazione dovrebbe avere dimestichezza: non solo nel merito, ma soprattutto nel metodo.

Il momento di difficoltà della cultura italiana è sotto gli occhi di tutti. Nel suo Per ragionare Mario Capanna scrive che «stiamo subendo un pericoloso arretramento culturale, etico e politico: più che interrogarsi e riflettere prevalgono il tifo e la delega, l’apatia ha soppiantato la partecipazione consapevole, e così la democrazia diviene esangue». Proprio dal riferimento al tifo sarebbe interessante partire per riflettere serenamente sullo stato delle cose. Ha ragione Bondi quando afferma che la cultura sta rinunciando a ragionare. Ma non è sufficiente lanciare il grido di allarme e immediatamente dopo coprire le mancanze e le deficienze di quella cultura che, ad oggi, sono sotto gli occhi di tutti. O quasi.

Non sarà quel cappello militaresco da caserma che salverà il patrimonio intellettuale di un Paese. Non sarà giustificandosi con il più classico “da noi va tutto bene” che si ritroverà un filone degno di nota. Non sarà con una dedizione stomachevole e mortificante che si educheranno alla libera produzione di neuroni le future generazioni: di tutti i credi politici, sia chiaro. Lo spirito della cultura, invece, deve essere quello di mettere in difficoltà la politica, pungendola nelle sue debolezze, poggiando una lente di ingrandimento sui suoi difetti. Amplificandoli, osservandoli, scomponendone azioni e direttive per assaporarne mete e modalità. Per carpirne le criticità, o le illusioni. E non per masochismo, o per controcantismo, o per sciacallaggio elettorale. Ma, piaccia o no, per mera voglia di miglioramento.

Una cultura che si appiattisce, che non alza il dito per avanzare un dubbio, che ha sempre una certezza aziendale, alla lunga, diventa sterile e, come afferma correttamente Bondi, semplice merce ideologica. In quanto rende inutile la partecipazione attiva, lo spirito di intraprendenza mentale, che ne dovrebbe rappresentare il carburante primario. Quella benzina è la discussione: aspra, libera da steccati e imposizioni, che spazia, sorda ai richiami di scuderia della politica.

La discussione, ha osservato recentemente il Presidente della Camera Gianfranco Fini, presentando proprio a Montecitorio quel volume di Capanna, è il sale della democrazia, anche e soprattutto quando le opinioni non coincidono. È la diversità di idee che fa nascere il dibattito. In una società democratica, infatti, la ragione non deve per nessun motivo assopirsi, o mostrare segni di cedimento strutturale. Né rinunciare ad un ruolo attivo anche di pungolo e stimolo, interrogandosi e soprattutto interrogando. Perché se così non fosse si otterrebbe niente altro che lo svilimento dell’humus politico, di quell’involucro dove la cultura politica deve radicarsi e germogliare. Per trasformarsi in proposte e osservazioni. Nell’interesse di tutti.

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