domenica 9 gennaio 2011

Quanto ci manca la "carità di patria"


Da Ffwebmagazine del 07/01/11

Come impedire luoghi comuni e sottovalutazioni, nell’immaginario collettivo, di un paese come l’Italia? Di un paese che possiede nel proprio bagaglio storico-culturale una miriade di risultati, di testimonianze artistiche, di fattori che hanno contribuito a farne un baluardo mondiale di notorietà. E come favorire, di pari passo, una differente consapevolezza della propria cifra particolare?

Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera, a proposito del caso Battisti e dell’atteggiamento di Brasile e Francia, diagnostica la mancanza della cosiddetta “carità di Patria”, quel sentimento che, pur nell’oggettività di commenti e valutazioni, è collante sociale prima e culturale poi, di un popolo lontano dalle proprie case. Senza dimenticare il mancato investimento di conoscenza, dato indispensabile per “contare”.

Il caso Battisti, scrive l’editorialista di via Solferino, ha costretto l’Italia a guardarsi allo specchio, a scrutarsi, a interrogarsi insomma su quale immagine appare di noi all’estero. Si prenda il Brasile, che ha considerato il nostro paese alla stregua di un alleato minore, «cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze». Come dimostrato dalle dichiarazioni del premier Berlusconi, certo che il caso non determinerà alcuna conseguenza nei rapporti commerciali.

Si prenda poi la Francia, dove commentatori e intellettuali, oltre a giustificazioni di vario genere (spesso anche futili) si sono prodigati in una lezione all’Italia sul terrorismo, sugli anni di piombo, e sulle “supposte manchevolezze” nostrane. Un atteggiamento che secondo Galli della Loggia deve essere valutato attraverso due piani analitici. Sotto il versante diplomatico vi saranno (almeno questo è l’auspicio) risposte condotte attraverso i canali delle ambasciate e dei consolati. Ma è dal punto di vista sociale che individua un’interessante chiave di lettura, quando verga che se la pubblica opinione italiana si limitasse a recitare la parte degli offesi, sarebbe un innegabile errore, in quanto «reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti, echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative». Invita invece a prendere spunto proprio dal caso Battisti per fare ammenda, per renderci conto di come l’accaduto «rispecchi piuttosto un dato permanente». E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l’Italia così com’è «è una realtà largamente ignorata».

E questo in varie coordinate socio-culturali, come la storia unitaria, con particolare riferimento agli ultimi tre lustri. È altresì sottostimato il modus operandi dei suoi organi costituzionali, prosegue Galli della Loggia, soprattutto la giustizia. Oltre al tenore della quotidianità pubblico-politica, il peculiare patchwork delle relazioni sociali, dei mores diversificati, senza contare la cifra qualitativa del dibattito intellettuale. Si prenda ad esempio la plastica raffigurazione stereotipata dell’Italia anche per uno straniero colto, il quale ha di fronte a sé un paese appiattito su: la figura di Berlusconi (considerato oltralpe «mistero orripilante, premessa di ogni male»); la straripante azione delle mafie; e il «pervadente oscurantismo del Cattolicesimo». A cui, sostiene nel fondo sul Corriere di oggi, affiancare il consueto trittico di deminutio mediterranee, composto da «approssimazione, insufficienza e arbitrio».

Una situazione da imputare innanzitutto alla responsabilità interna, come la miopia della Farnesina nel sottostimare gli istituti di cultura italiana all’estero, o i corrispondenti della stampa straniera in Italia, o la traduzione di opere italiane. Il tutto per stimolare la conoscenza globale del fattore Italia. Galli della Loggia divide quindi le responsabilità anche con quegli intellettuali nostrani che all’estero strizzano l’occhio di fronte a critiche sovente irrispettose, o ad analisi pretestuose che ignorano cause ed effetti di fatti e provvedimenti. Quelle menti che «compiacciono senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare quando si parla dell’Italia». Perché scelgono più semplicemente di apparire oppositori e basta dello status quo politico, anziché sforzarsi di spiegare analiticamente situazioni e decisioni.

Insomma, la sua riflessione punta a evidenziare l’assenza di carità di Patria nelle menti di certi italiani colti lontani dall’Italia che, assieme a quel tedioso provincialismo culturale che predilige a priori ciò che italiano non è, contribuisce ad una mancata conoscenza del passato. Che impedisce una serena valutazione del presente e ovviamente del futuro. Un concorso di deficienze socio-infrastrutturali che Galli della Loggia attualizza all’indomani del caso Battisti, negli atteggiamenti irriverenti e supponenti di Brasile e Francia, per evitare i quali non si può prescindere dalla conoscenza della propria storia e della realtà attuale. Punto di partenza per strutturare una Nazione che intenda “contare qualcosa”.

Le forze armate più avanti della politica?


Da Ffwebmagazine del 05/01/11

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

Le forze armate più avanti della politica nella comunicazione? Non è un paradosso o una boutade, ma ciò che piacevolmente si scopre sfogliando una primizia assoluta per il panorama italiano. Nel saggio Due pacifisti e un generale scritto a quattro mani da Ritanna Armeni ed Emanuele Giordana, il capo di Stato Maggiore Vincenzo Camporini si apre in un colloquio franco ed approfondito, tracciando la nuova rotta del militare moderno, non più guerriero ruvido ma evoluto in quella figura che prende il nome di soldato di pace. All’indomani del crollo del muro di Berlino infatti è venuta meno la prerogativa di salvaguardare il territorio patrio, ed al contempo si sono implementate altre emergenze fuori dai confini nazionali.
All’interno del Paese è stata quindi incentivata una radicale opera di maturazione dell’approccio alle forze armate. Non solo occasione di conoscere il mondo, di difendere la propria Nazione, ma anche di salvaguardare la pace.

Il libro rappresenta una novità assoluta in quanto in Italia i generali non sono avvezzi a conversare in maniera così informale di operazioni ed abitudini, a conoscere e a far conoscere un mondo criptato. Si tratta di un elemento che Ritanna Armeni, dai microfoni de La Settimana Internazionale, definisce assolutamente “rilevante per l’immaginario collettivo italiano”. In quanto attualmente i cittadini dispongono di un panorama che viene loro dalla politica, dove si identifica l’intero comparto delle forze armate “solo con il volto del Ministro della Difesa”. Qui dunque serve fare un passo in più, lasciando spazio ai protagonisti veri di un mondo reale, a chi pianifica strategie, a chi soccorre popolazioni in affanno, in un lavoro sotterraneo che ha anche un costo specifico,come le cronache recenti e non, purtroppo raccontano. Accade anche, altra sostanziale novità, che mentre per un cittadino è il governo a decidere le sorti di una missione, magari confuso da notizie apprese velocemente, per un militare è ben chiaro che è solo il Parlamento ad autorizzarla. Ecco che il saggio non ha fatto altro che rispondere ad un’esigenza di dialogo che proveniva dall’interno delle forze armate, e ad un’esigenza di conoscenza non solo di chi quelle informazioni ha veicolato, ma anche dei semplici cittadini.

Ma come cambia il ruolo dei militari moderni, impegnati in contesti nuovi, assolutamente particolari, con specificità sino a ieri quasi sottaciute? L’immagine plastica osservata da Giordana in Afghanistan, di un militare che scende dall’aereo che lo trasportava, assieme al suo zaino pieno di libri sull’Afghanistan, la dice lunga sulla tipologia di evoluzione socio-culturale di questi ragazzi. Che non leggono per trascorrere il tempo o per ottenere una semplice infarinatura su dove opereranno, ma piuttosto un segnale che dice ben altro. Ovvero la spia dell’esigenza di analisi approfondita, che sia rivelatrice delle peculiarità storiche del luogo, delle evoluzioni politiche e sociali di un tessuto-Paese, delle possibili conseguenze di un intervento che si armonizzi con i problemi reali. E per sostenerli in quel più ampio processo che ha portato a trasformare concetti tradizionali come guerra, pace, gerarchie, ordini, azioni.

L’imperativo, oggi, è garantire condizioni di sicurezza, in una sorta di diario di bordo dove non mancano comunque i rilievi scomodi e a cui il Generale Camporini non si è sottratto. Come la riflessione sul fatto che modificando il titolo degli attori protagonisti, da militari a soldati di pace, sia mutato anche lo scenario in cui agiscono. Su cui sarebbe interessante aprire un dibattito sano e scevro da pregiudizi, quegli stessi pregiudizi che due pacifisti come la Armeni e Giordana hanno messo da parte conversando con il Capo di Stato Maggiore. Anch’egli impegnato in uno sforzo di parificazione di linguaggio, vero punto di forza del saggio. Dove estremi e mondi che sino a ieri non comunicavano, improvvisamente hanno sentito il bisogno di parlarsi, dopo essersi scrutati per anni magari in cagnesco. Dopo incomprensioni, delusioni, ingerenze. Ma che oggi, in virtù di quel grande tesoro che prende il nome di dialogo, hanno deciso di aprire bocche ed orecchie (e anche taccuini) per farsi conoscere. Senza timori reverenziali, senza paura di non piacersi, ma con la consapevolezza che è solo scambiandosi conoscenze ed informazioni che, alla fine, ognuno potrà compiere al meglio il proprio dovere.

E Zaia si scusò per aver cenato al cinese

Da Ffwebmagazine del 06/01/11

«Cari signori, ho letto con grande attenzione e con tutto l'affetto dovuto ad una categoria così importante per il Veneto, dal punto di vista identitario, economico e della promozione turistica, la lettera che…»: sono le prime righe della missiva che il governatore del Veneto Zaia ha inviato ai ristoratori padovani, che lo mettevano sotto accusa per aver trascorso il Capodanno in un locale cinese low cost.

Una versione light del dramma del fanatismo, quello vero, quello che per secoli ha messo al rogo gli scienziati, che ha impedito a scrittori e poeti di uscire dalla propria casa o di farvi ritorno, quell’aria malsana che non consente di pulire i pensieri. Sì, quel “dal punto di vista identitario” inquieta, non poco. Cosa vuol dire, che le altre categorie produttive sprovviste dello stesso richiamo sono da meno? Che un’appartenenza geografica è da sola sufficiente a tenere in scacco le abitudini di un amministratore, condizionandone la sua sfera personale decisionale?
Così marcatamente, da costringerlo a una excusatio pubblica, quasi che debba vergognarsi per aver frequentato un ristorante non italiano, con personale non italiano e, udite udite, degustando cibo che proviene dall’altro lato del pianeta. Quale sacrilegio, quale infamia, quale bassezza, quale mancanza di rispetto, quale iniziativa personale, attuata senza aver chiesto preventiva autorizzazione al Pcus di via Bellerio.
Ma è proprio leggendo la risposta di Zaia che si ha la cifra esatta di come lavorino queste menti antigalileiane, di questi neuroni nutriti perennemente a bromuro, incapaci di comprendere come il mondo non sia –per fortuna- padanocentrico.

Scrive il governatore: «Ma pur sempre di un ristorante cinese si sta parlando, osserverete voi. Posto che chi scrive, come è arcinoto, non è un frequentatore di cucina etnica, il ristoratore in questione usa prodotti delle nostre campagne e dei nostri mercati». Se possibile, la giustificazione fa più danni del fatto in sé. Ovvero riesce a mettere da parte il pregiudizio razzista nei confronti di altre culture, ma a patto che i pericolosi ristoratori dagli occhi a mandorla per servire riso alla cantonese o ravioli al vapore usino il radicchio trevigiano (che tra l’altro è ottimo) o altri prodotti a chilometri zero, quindi provenienti dalla stessa regione.
Eccolo il fanatismo cieco e deleterio per l’intero paese, per i ristoratori padovani, per i cittadini scevri da ideologie e chiusure mentali, per gli amanti della cucina locale, o per quelli che adorano anche i piatti etnici, per il sistema imprenditoriale che dalla concorrenza potrebbe trarre vantaggio, ma soprattutto per la libertà di un popolo che forse si è perso le conquiste sociali dell’ultimo secolo. Denunciando invece un’arretratezza che, in primis, fa male proprio a loro.

Ma l’episodio gastronomico asiatico che ha coinvolto l’ex ministro dell’agricoltura, per quanto piccolo, fornisce un’ulteriore dimostrazione di una rivoluzione all’indietro, con un movimento localistico e strumentale che ha cavalcato per anni problematiche del territorio per soli fini elettorali, senza fornire risposte concrete, senza migliorare le criticità, ma pompando fiele e nevrosi in un tessuto rilevante per l’economia nazionale.
Il vero regresso leghista, dunque, non è da ritrovarsi solo nell'articolo 1 dello statuto della Lega, quello che prevede la secessione dall’Italia della fantomatica Padania; o nelle ronde che neanche un risultato hanno portato in termini di sicurezza; o nelle manifestazioni volgari e xenofobe di Borghezio a Strasburgo. Ma nella tara di quegli amministratori che non educano, che si mettono sotto schiaffo davanti a derive mentali da medioevo. Semplicemente che non si sentono né cittadini del mondo né italiani. Questa volta non a tavola, ma nell’animo.

mercoledì 5 gennaio 2011

E Buttiglione spiega: «Con Fli,una coalizione "non ideologica"»

Da Ffwebmagazine del 05/01/11

Se gli argomenti addotti dai pasdaran pidiellini o dagli ex colonnelli per smontare sul nascere le velleità del nuovo polo si limitano al voler dipingere Gianfranco Fini come un anticristo, lontano anni luce da ambienti cattolici e credenti, significa che dalle parti del fu Pdl le armi sono davvero spuntate. Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc e componente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali definisce il presidente della Camera «laico e non anticristiano». In un’analisi su Liberal argomenta con approfondimenti ragionati le ragioni di Fini, spiegandone i riferimenti culturali, come Gentile e Croce, tratteggiando una destra storica e liberale che non si pone in antitesi ai cattolici e ai loro valori. Ha evidentemente solo sensibilità differenti su alcune questioni come il fine vita, sul quale una classe dirigente responsabile e post-ideologica ha il dovere di riflettere per verificare possibili convergenze. Convergenze che, invece, sono possibilissime sui temi di politica generale.

E il fatto che dalle parti di Palazzo Grazioli si insista nel voler forzatamente costruire il binomio credenti-Pdl, è la spia di un timore vero. Timore che finalmente la nuova alleanza possa risorgere dalle macerie del bipolarismo ormai archiviato, quello per intenderci che fa del tifo da stadio e muscolare il proprio vessillo, il riferimento sociale di una politica urlata e sempre con l’elmetto in testa. Che divide anziché unire, che parla anziché ascoltare. Dove finanche i temi etici, patrimonio socio-culturale di tutti, vengono branditi come una clava chiodata per dividere faziosamente chi invece, responsabilmente e coraggiosamente, sta tentando di aprire una breccia nella melma politica italiana. Dove qualcuno vorrebbe ancora nascondere i fallimenti di questo esecutivo, le mille promesse, le innegabili criticità. Buttiglione dice anche un’altra cosa interessante, sulla quale sarebbe utile aprire un dibattito: «Gli ex colonnelli asseriscono che la rottura tra Berlusconi e Fini sia metafisica e non su temi squisitamente politici».

Forse sono stati su Marte nell’ultimo anno e mezzo, non hanno udito rilievi, non hanno preso nota di spunti e proposte che oggi, per dirne una, anche Bossi avanza. Quindi li invita a cercarsi altri argomenti, a non strumentalizzare pretestuosamente l’etica per condannare un’unione che, invece, può portare buoni frutti. «C’è una campagna che non ci piace - scrive il parlamentare pugliese - e non serve trasporre nella comunità ecclesiale le divisioni la politica». Il riferimento è ai manifesti affissi per la Capitale con lo slogan “i cattolici per Berlusconi”, che ha fatto storcere il naso in molti ambienti ecclesiali. Oltre all’uscita di cattivo gusto proprio degli ex colonnelli, che arrivano a invitare i credenti a non bere con il Presidente della Camera neanche un bicchiere d’acqua. Che Fini sia diventato un pericoloso invasore delle coscienze cristiane? Un eversore che manda al rogo i credenti italiani? Pronto a chiudere parrocchie per aprire moschee, o a cassare il catechismo per il gusto di innalzare ulteriori steccati? Frottole, elucubrazioni strumentali, tentativi di mescolare nel torbido quando non si dispone né di una strategia alternativa, né di una benché minima conoscenza della storia e delle culture politiche.

Se gli esponenti del fu Pdl che si affannano a dipingere la Terza carica dello Stato come un anticristo avessero avuto il buon gusto o l’umiltà di prendere qualche minima informazione su cosa si intenda per destra laica e liberale, si sarebbero presto resi conto che una coalizione non ideologica, parafrasando proprio Buttiglione, «non ha bisogno di essere d’accordo su tutto». Dal momento che proprio quell’impostazione finiana che richiama europeisticamente ai valori incarnati da uno Stato laico e non confessionale sono gli stessi che i cattolici veri hanno come faro. Con la libertà di credo che non inficia la capacità di un’istituzione di garantire i medesimi diritti a tutti, senza scivolare invece in uno Stato etico, dai tratti somatici illiberali e troppo appiattiti su schemi confessionali.
Sarebbe bastato rileggere qualche scritto di De Gasperi, che di certo nelle biblioteche romane, a differenza di altri palazzi, non manca.

sabato 1 gennaio 2011

Napolitano parla ai giovanie a tutti gli italiani


Da Ffwebmagazine del 31/12/10

Futuro, giovani, unità e onestà nelle disamine. Il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica è stato un grande discorso. Perché ha saputo interpretare e rappresentare sogni ed aspirazioni di tutti gli italiani, anche di quelli che lo sono nell’animo senza avere una certificato che lo dimostra. Perché ha provato, con successo, a non nascondere deficienze e atteggiamenti sbagliati, ma senza cassare la speranza e la forza di ricominciare. Perché ha ricordato che è utile affiancare il futuro dei giovani a quello del Paese, per evitare che la democrazia sia in scacco.

La dedica iniziale, rivolta ai giovani, è illuminante per comprendere le finalità del messaggio. Che esprime preoccupazione per il malessere giovanile, vera spia di un disagio profondo, da risolvere solo con investimenti nella ricerca e nell’università. Il fatto che sia stato interrotto “il sogno di un continuo progredire”, all’indomani della crisi economica, non significa secondo Napolitano di essere autorizzati a rinunciare a desideri e speranze. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da incertezza in tutti i tessuti sociali, producendo uno stato ansiogeno stratificato. “Ma non possiamo farci paralizzare dall’ansia”, ha esortato. Quel malessere e quel distacco devono allora essere risolti da una classe politica “che deve fare la sua parte”, lasciando intendere che proprio le istituzioni non debbano sottomettersi quasi supinamente allo status quo, invocandolo come un alibi.
Il passaggio che invece manca alla politica italiana secondo Napolitano è la predisposizione ad un salto di qualità: negli obiettivi, nei principi, nelle modalità di azione. In quella direttrice volta a guardare finalmente lontano e senza nascondere problemi e criticità, in una logica di ampio respiro, che eviti di concentrarsi stoltamente solo sulla contingenza, ma investendo nelle infrastrutture sociali di domani. Prevedendo scenari, implementando alternative valide ed occasioni di sviluppo. Allontanando una condotta perennemente ingabbiata nelle emergenze della quotidianità. E ciò anche in virtù di uno strumento che prende il nome di ascolto, soprattutto nei riguardi di quel disagio giovanile manifestatosi in occasione della riforma dell’università.

E a proposito del quale lo stesso Capo dello Stato ha sì firmato il provvedimento, ma con una segnalazione al Premier circa alcune preoccupazioni rispetto a specifici articoli della riforma.
Esprime preoccupazione per il futuro Napolitano, con preciso riferimento a quello delle giovani generazioni, in balia di un’incertezza di fondo alla quale una classe dirigente responsabile deve saper parlare, offrendo magari “l’opportunità di partire alla pari”. Senza dimenticare il momento negativo dell’intero comparto del lavoro, con i dati sulla disoccupazione che segnano 24,7% tra i giovani (di età compresa 15-24 anni), con punte di 35% al sud. “Dati che devono essere un continuo assillo della Nazione”. E in una fase in cui vi è troppa difficoltà di vita quotidiana nelle fasce deboli, per mettere a frutto le potenzialità “di cui siamo stati ricchi in questi 150 anni di unità”. E proprio dall’unità, dal centocinquantesimo anniversario che si celebra quest’anno, che il Presidente della Repubblica intende richiamare tutto il Paese all’ordine. I cittadini, affinchè non siano solo spettatori di avvenimenti e provvedimenti, ma agiscano in prima persona per migliorare. I giovani, ai quali si chiede di partecipare, condividere ma allontanando le tentazioni violente. E la politica, alla quale si chiede di affrontare “questo tornante storico” con serietà, con scelte significative anche se difficili. Rammentando che nulla “potrà oscurare il bilancio di unità e rinascita dello Stato nazionale”, un faticoso cammino come ricordato tra l’altro anche dal Pontefice.

Per questo si rendono indispensabili iniziative riguardanti il welfare, con l’urgenza di mettere in pratica politiche per il contrasto alla disoccupazione, riduzione del debito pubblico, superamento del divario (non solo infrastrutturale) tra nord e sud del Paese, rafforzando il sentimento di unità nazionale utilissimo anche in chiave comunitaria. Solo in questo modo sarà possibile l’unione politica del vecchio continente che stenta ancora a parlare con una voce univoca. Napolitano non dimentica di far valere il suo ruolo super partes (“Vorrei fosse chiaro che sto ragionando sul da farsi nei prossimi anni ; giudizi sulle politiche di governo non competono al Capo dello Stato, ma appartengono alle sedi istituzionali di confronto tra maggioranza e opposizione, in primo luogo al Parlamento"), che gli ha conferito, non da oggi, stima e considerazione soprattutto da parte dei cittadini, anche di quelli disaffezionati alla politica. Un atteggiamento che lo ha portato a ribadire l’inutilità di condotte che fondano il proprio operato sulla contrapposizione e sull’asprezza del confronto, che trascende spesso anche le comuni e basilari regole della civile convivenza. Le sfide che attendono il Paese si moltiplicano esponenzialmente, per questo si rende necessario un repentino cambio di passo della politica, attraverso due capisaldi: condivisione e compattezza. La prima è imprescindibile, in quanto gli obiettivi comuni, in momenti particolarissimi come quello in cui il Paese versa, devono stimolare a unire le energie per produrre soluzioni non temporanee. E ciò in virtù di una compattezza istituzionale che travalichi finalmente gli scenari di abituali differenze. Riposte in secondo piano, per il bene del Paese.

Ma Napolitano ci tiene a precisare che il dibattito politico sulle criticità italiane è stato troppo spesso negli ultimi tempi un confronto tra "ottimisti" e presunte "cassandre", per questo ha riflettuto come “proprio perché non solo speriamo, ma crediamo nell'Italia, e vogliamo che ci credano le nuove generazioni non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti, di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo. C'è troppa difficoltà di vita quotidiana in diverse sfere sociali, troppo malessere tra i giovani. Abbiamo bisogno di non nasconderci nessuno dei problemi e delle dure prove da affrontare : per poter suscitare un vasto moto di energie e di volontà, capace di mettere a frutto tradizioni, risorse e potenzialità di cui siamo ricchi. Quelle che abbiamo accumulato nella nostra storia di centocinquant'anni di Italia unita".

Proprio il prestigioso anniversario, deve invece rappresentare uno sprono non solo per avviare iniziative culturali e sociali, ma soprattutto per interrogarsi su cosa significhi oggi, dopo un secolo e mezzo, essere cittadini italiani. Con le evoluzioni che inevitabilmente la storia offre a società e singoli individui, con le riflessioni su come migliorare questo senso di appartenenza che, più che essere legato ad un luogo o ad una terra specifica, dovrebbe ampliarsi come un’aria da far respirare a tutti, rimarcando il sentimento di condivisione, di accoglienza e di responsabilità. Senza del quale una nazione resta drammaticamente tale solo sulla carta.

La sfida della politica moderna?Trovare la bussola


Da Ffwebmagazine del 28/12/10

Chi l’ha detto che certi valori, siano solo a sinistra? O alcune sensibilità, o determinate percezioni di una società sempre più post moderna, la cui maggiore deficienza strutturale sta tutta in un’idea politica vecchia e stantìa? Oltre che in molti interpreti. Cosa impedisce a una destra matura, a un altro polo, a un contenitore che potremmo chiamare anche Topolino, di incarnare solidarietà, giustizia sociale, sviluppo industriale meritocratico, lettura moderna di esigenze democratiche - e sociali - primarie? Un’accurata analisi apparsa sulle pagine di Repubblica si incentra su un cumulo di bagagli valoriali che ruotano attorno alla parola sinistra. E supportata da illustri pareri di filosofi, sociologi, politologi. Lecito, però, chiedersi: perché allora non capovolgere la visuale? Perché non alzare lo sguardo e proporre coraggiosamente che sia dunque la destra, o anche un’altra latitudine, a incamerare un patrimonio sociale che non può essere di un unico interprete? Semplicemente perché è proprio questo il tanto declamato bene comune, la futura geografia socio-culturale di ogni Paese. Come può una classe dirigente europea e moderna lasciare a un solo termine, per quanto nobile e storicamente valido, il tutoraggio di problematiche strategiche?

Come la previdenza, la giustizia sociale, l’uguaglianza, la libertà intesa come plus, i sogni e le aspettative, il desiderio di partecipazione di un popolo, la voglia giovanile di rimettere in discussione un tessuto ormai necrofilo.Marc Lazar ha, non da oggi, correttamente diagnosticato che la criticità della sinistra è stata nel voler ostinarsi a guardare il mondo, assieme alle molteplici evoluzioni che ha registrato nell’ultimo ventennio, attraverso lenti del passato. Senza la capacità di gestire opportunità straordinarie come la globalizzazione, dimostrando una volta di più di aver smarrito la ricchezza vera della socialdemocrazia, ovvero l’intuizione di adattarsi alle evoluzioni della società. Detto questo, è sì utile tornare a quell’assunto di Bobbio, secondo cui «il valore dell’uguaglianza traccia la linea di separazione della sinistra dalla destra», ma cassando gli attori presenti sulla scena. Perché oggi non vi è destra, o centro, o sinistra, o sotto o sopra che possa permettersi di ignorare le pulsioni sociali di cittadini in difficoltà, di cassintegrati sfiduciati, di laureati che si apprestano spesso a intraprendere la carriera di “dottori” disoccupati, di ricercatori che non hanno gli strumenti tecnici per scoprire e innovare, di professionisti vessati da aliquote impegnative, di piccole e medie imprese costrette a licenziare, di grandi imprese senza commesse, di insegnanti demotivati. Insomma, di mille diagonali sociali in cerca di una bussola.

E che una politica, di qualsiasi colore la si voglia etichettare, ha l’obbligo morale di valutare e sostenere. Nel 2008 la terza guerra mondiale ha preso il nome di crisi economica. E ostinarsi a non rilevarne le conseguenze presenti, come schegge, in tutti i campi, equivale a una dichiarazione di resa. È come voler ridurre la sfida della rivoluzione scolastica e universitaria a una sistemazione di competenze o alla spedizione di circolari ministeriali. Che, da sole, non risolvono i problemi, anzi, li raddoppiano. Oggi alcune forme giuridiche di uguaglianza, come osservato da Carlo Galli, risultano minacciate da insicurezza e paura, dove la democrazia è fragile, perché sostituita dal populismo. Ha ragione il sociologo inglese Anthony Giddens, teorico della terza via concretizzata da Tony Blair, quando dice che nell’agone politico attuale una divisione netta fra sinistra e destra è meno evidente che in passato. «Per di più alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare, come il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti neocontemporanei, trascendono la divisione classica tra sinistra e destra». Ecco la chiave di volta per interpretare il futuro, ecco una logica e ragionevole analisi di ciò che il domani, anzi l’oggi, sta drammaticamente chiedendo.

E a cui in pochi si sforzano di offrire una risposta che sia lontana anni luce da populismi e demagogia.La sfida di una destra moderna - ma, a questo punto, di chiunque agirà responsabilmente e con coscienza - sta nella capacità di criticare il presente, urlandone esplicitamente le contraddizioni, le sperequazioni, le incongruenze che, palesi, affiorano a tutte le latitudini. E non a causa di qualcun altro, o della sfortuna, o della congiuntura sfavorevole, o della concomitanza con altri eventi, o della congiura invocata da qualche foglietto di partito. Ma di chi ancora oggi, dopo fiumi di inchiostro speso da sociologi, economisti, storici, e capi di Stato, ignora la portata epocale di una rivoluzione del welfare da declinare in senso politico. E con la P maiuscola.

Pandoro e panettone:oltre il "bipolarismo"...


Da Ffwebmagazine del 26/12/10

Chi ha paura di sparigliare, di uscire dal seminato, dal tracciato già segnato e indicato, da rotte scritte e prescritte, da scelte imposte dall’alto o dal basso? Perché ciò che esula da due fazioni, metaforicamente incarnate da panettone e pandoro, è bollato come “pericolo”? Quasi che scegliere altro sia eretico, rischioso, deleterio. Uffa, che barba, ancora un pezzo su chi sta di qua e chi sta di là. Si prenda quanto vergato ieri dal Giornale: «Se il panettone classico diventa una perversione: tradizioni in pericolo. Nei supermercati lo nascondono dietro le torri cartonate delle cento versioni special. E nelle case tutti lo snobbano».

E scatta l’allarme della protezione civile, per una tradizione fortemente in pericolo, in un derby che dura da un secolo. Scrive il foglio di via Negri: «Una volta non era così dura. Bastava prendere posizione in un preciso dualismo, schierandosi senza se e senza ma tra panettone e pandoro, come tra mare e montagna, zoccoli e infradito, collant e autoreggenti, Beatles e Rolling Stones, Vespa e Lambretta, spumante e champagne». Sta proprio lì invece il passo in avanti, la scommessa vinta, ovvero la possibilità di non essere schiavi di A o B, ma di poter spaziare a proprio piacimento sino alla lettera Z. E facendo anche dell’altro, in un tortuoso percorso che preveda mille cambi di strada per giungere a quel traguardo. Perché la mutazione è gioia, la vivacità di molteplici scelte è la vera ed unica ricchezza, in un panorama troppo spesso grigio ed uniforme, che qualcuno vorrebbe ancora più bloccato.

Ma Il Giornale continua: «Era battaglia anche allora, perché i due partiti non si risparmiavano i colpi sotto la cintura: il panettone è una mattonata, il pandoro è snob, il panettone è per gente rude, il pandoro è per gente invertebrata. Il panettone è per i poveri, il pandoro è per i ricchi. Il panettone è roba da uomini, il pandoro è articolo per signorine. E via degenerando». Ecco un modo di vedere (e di rimpiangere) la vita, le cose, le persone, e le idee che semplicemente fa male. Perché negare una terza via, un altro gusto, chi se ne frega della tradizione, di ciò che è giusto perché lo dice questo o quello. Forse fa socialmente paura un’ampia scelta? Che offra una chance varia e diversificata?

Certamente più voci risultano scomode. Come più prodotti incastonati su una mensola di un grande magazzino suscitano interesse (e dubbi) in chi deve poi scegliere. Perché rendono il consumatore non più schiavo del monopolio, della condotta univoca. E’come quando si vuol privatizzare un ente, o voler fare spazio ad altri interpreti, insomma quella cosa che si chiama concorrenza. Bella, bellissima, ma non per tutti. Perché c’è chi la inquadra come un pericolo, un mostro a sei teste che crea gli incubi a quanti pensavano di mantenere intatto uno status quo. In quanto rompe posizioni prestabilite, privilegi incrostati in un tessuto sociale e produttivo.

Ma cosa è accaduto di tanto grave? Forse quella cosa chiamata globalizzazione, o quell’altra cosa, strana, vituperata e spesso proposta ma non attuata, che si chiama libertà: di scegliere, di preferire, di provare, di sperimentare, di metterci anche una bella fetta di salmone sul panettone. Chi limita il gusto o la curiosità di verificare incroci di sapori e tendenze personalissime?

Chi si eleva a giudice supremo della voglia di tentare, di avventurarsi, di vagliare alchimie e miscugli in quello straordinario laboratorio naturale che si chiama vita? Chi elogia il vecchio dualismo, invece, finge di non ricordare che proprio da eventi e scenari improbabili, anche osceni, obliqui, improponibili, sono scaturite le migliori invenzioni di questo paese, le soluzioni più azzeccate. Insomma, l’unione di poli agli antipodi, l’interscambio di competenze e peculiarità distanti anni luce, in un impeto di civiltà che nella storia è quella che poi alla fine lascia tracce e pagine nei volumi enciclopedici.

Magari rammentando quelle parole scritte da Nikolaj A. Berdjaev: «La libertà è innanzitutto il diritto alla disuguaglianza».

venerdì 24 dicembre 2010

Il sangue che bagna la bellezza,fino all'ultimo respiro

Da Ffwebmagazine del 24/12/10

Il rifiuto, il rapporto non corrisposto, la decisione di spezzare un’onda di amore. E poi la bieca indole umana, i disastri delle sue mani, capaci perfino di “sporcare le stelle”. Con una correggibilità che, al momento, non si vede.
In un amalgama poetico che profuma di sentimenti, amari, crudeli, forti e violenti. Bagnati dal sangue, il sangue della passione, che annaffia tragedie o quotidiane vicissitudini di un’esistenza intensa e non effimera, ma tragicamente improntata alla rinuncia. Scolpita nei versi di Sangue Poesia, di Antonio Saccà (Poesia Edizioni Artescrittura, euro 15, pp.144), con la mente del protagonista, l’anziano professore Ignazio La Càvera, accecata dal sangue, dal verbo uccidere, in un macroscopico errore giovanile, quando preferì tirarsi indietro “anziché dominare, potendolo”. Affrescando una vita senza coraggio di osare, senza orizzonti, al cui interno ogni battito sistolico è letto come una pugnalata che ritmicamente affonda in quel cuore. E produce vuoti, delusioni, odi, liti, rabbie, separazioni.

Dove ciascuno a seguito di quel bivio proseguirà il proprio cammino a modo suo, consapevolmente certo di un fatto oggettivo. Fino a morire, “in luoghi sconosciuti all’altro”, a segnare un’ulteriore frazionamento di due esistenze ormai agli antipodi. In quella valle di lacrime, dunque, la ferita è data sì dalla separazione, ma sotto quella carne che ulula la propria disperazione, sotto quella pelle morta a causa di violenze, c’è un’altra ferita. Altrettanto grande e profonda, che fa soffrire, che provoca bruciori indicibili.

Mentre la prima è data dagli “amori vissuti tuoi, che mi infierirono”, già di per sé forte tracciato letterario di un cuore infranto, la seconda è infilzata dal “non vivere con me oggi”. In una quotidiana solitudine acefala che profuma di rassegnazione. Con la consapevolezza dell’elemento mancante alla gioia di due cuori, da ritrovare ne “l’ardire di volerla”. In un ventaglio di amore che avrebbe perdonato tutto, anche il tradimento. Spingendosi anche ad accogliere coraggiosamente l’amor dell’amata nei confronti di un altro, fino a questo punto sarebbe giunto il nostro.
Ma a tutto c’è un limite, in panorami e viaggi infiniti c’è un punto dal quale non si fa più ritorno, e Saccà lo identifica in un baluardo estremo, che prende il nome de “la paura di amarmi”. Il timore, quell’ansiogena rivendicazione che anestetizza comportamenti e sguardi. Ecco il vero nemico. Da cui l’amata si allontana ancora di più, o forse vi farà mesto ritorno, in quanto naufragherà “verso chi non hai voluto amare”. Paura di amare, ma anche di vivere, di alzare lo sguardo, di aspirare aria pulita.E poi il sangue, elemento primario delle poesie, una sorta di bussola come termine ultimo del viaggio, dei rintocchi di lancette che segnano il tempo: il tempo dell’amore. Che separano il giorno dalla notte e i mesi dalla fine dell’anno. Ma anche omega tragica di una passione, fine di un bi-sentimento. Che da un lato è rifiutato, ma dall’altro si conforma in dura rivendicazione di quanto dato e di quanto si sarebbe potuto dare. E non solo per chi quel gesto avrebbe offerto, ma soprattutto per colei che lo avrebbe ricevuto.

Consegnandolo su un vassoio di effusioni ed emozioni, e che invece sono sostituite da spine di una rosa che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo, a causa proprio del protagonista. Ed ecco la pazzia, non stato confusionale attraverso il quale confrontarsi con attimi indecifrabili o pensieri sconnessi. Bensì simbolo di una donna, “la pazza del mio ultimo giudizio, la mia condanna, sparita, silenziosa, perduta”. Dove ella non incarna semplicemente un muro invalicabile, un contorno effimero di una portata scomparsa. Ma si erge a cappio perenne di sofferenza. In un tragitto di sangue, dove esso si fa “nero, nero come la notte. Nero come la morte, nero come la coscienza degli uomini”.Il passo successivo, però, non si concentra solo nel rifiuto dell’amore, in quel fiore chiuso e che non si schiuderà ad occhi anelanti che cercano solo un pertugio, uno spiraglio in quel buio.
Ma quando Saccà scrive “il Tempo ha concluso il suo delitto quotidiano, non abbiamo che vita, viviamolo” invita al battito di un cuore, al morso di denti affilati che fanno male, all’incedere dei giorni intrisi di sensazioni, passioni, gioie o dolori. “E se non vuoi- aggiunge- se non senti di vivere con me, vivi con chi vuoi, ma vivi, non addormentare l’esistenza, non temere di osare, non ostacolare i tuoi desideri, né chi ti desidera”.
In poche parole: “vivi!”

martedì 21 dicembre 2010

E se un ministro del Futuro disegnasse l’Italia di domani?

Da Ffwebmagazine del 22/12/10

Ecco la vera scossa a certa classe dirigente sorda e superficiale. Ecco la vera scossa alla politica che ormai non scende più in piazza, che non conosce la gente né tantomeno i giovani, se non solo il mese prima delle elezioni. Ecco il vero filo di seta che potrebbe unire, non strumentalmente, il palazzo ai cittadini e questi ultimi al proprio legittimo domani. Dando slancio a un innovativo ruolo: il ministro del Futuro, come proposto qualche giorno fa dall’ex commissario europeo Mario Monti. E, aggiungiamo, che accorpi dicasteri poco funzionali come l’Attuazione del Programma, la Semplificazione legislativa, le Riforme, il Federalismo. Una figura elevata e lontana dalle contingenze della politica spicciola, quella che balbetta quando si trova al bivio della vita, o che delega scelte fondamentali, o che ritarda riforme imprescindibili perché toccano gli interessi di uno solo.

Ma che invece sia in grado finalmente di volare alto, disegnando percorsi, prevedendo scenari, anticipando criticità, solcando strade nuove. Leggendo insomma fra le righe degli avvenimenti, studiando analiticamente cause per agevolare effetti. Una cosa seria, buona e giusta, che si apra alle istanze di tutti, che ragioni sull’ampio respiro, che non si trovi domani a fare tristemente i conti con l’incompetenza dell’oggi. Ciò che una reclame del passato e del presente - «prevenire è meglio che curare» - dovrebbe aver insegnato a chi sta nella stanza dei bottoni. E che invece mostra disinteresse verso i bisogni di quei ragazzi che tra vent’anni potrebbero essere classe dirigente, o popolo delle partite Iva, o ricercatori, o liberi professionisti, o docenti universitari, o artigiani. Insomma, a quel popolo che domani sarà il motore del Paese, l’architrave sociale di una nazione e al quale oggi la politica semplicemente non sta parlando.
Né possono essere sufficienti i (pochi) contributi a pioggia per iniziative slegate e buone forse per tagli di nastri e mini progetti non certo risolutivi di un malessere diffuso. Ma è poi così difficile comprendere come le basi poste oggi rappresenteranno le fondamenta per lo sviluppo futuro? È impresa titanica, ad esempio, riuscire a convincere chi decide le sorti degli studenti che sarebbe il caso di ascoltare cosa quegli stessi studenti pensano, immaginano, propongono? O riuscire a convincere chi scrive la riforma della professione forense, ad attivarsi per ascoltare le istanze di avvocati e praticanti? O chi si sente investito del potere di ridisegnare la giustizia (per l’interesse di un singolo), ad ascoltare quei magistrati le cui scorte non hanno più un litro di benzina nei serbatoi delle loro auto?

È come se un ingegnere impegnato nel progettare un ospedale, non si consultasse preventivamente con chi quel nosocomio dovrebbe poi utilizzare ogni giorno, infischiandosene anche del fabbisogno di quella struttura, della ricettività del territorio, della capienza di un bacino di utenti. Assurdo.
Amministrare il futuro è anche questo: una figura che lavori per farla finita con la politica legata alla contingenza dell'oggi, dove i protagonisti si preoccupano solo di dichiarare in abbondanza e a sproposito, come le cronache di questi giorni- e non solo- testimoniano, senza preoccuparsi di capire e proporre, senza evitare rischi di demagogia, di populismo, di esasperazione dei toni e quindi dello scontro. Senza rispetto per l’altro, piccolo o grande che sia, senza la benché minima considerazione per il più debole, per i cassintegrati italiani che affronteranno un Natale pessimo, o per quegli immigrati che lavorano senza delinquere, o per quelli che delinquono e che, al pari degli italiani, devono poter essere rieducati.

In quel limbo melmoso dove vale tutto e il contrario di tutto, dove un ministro della Giustizia in un’ispezione ha già scritto la sentenza di colpevolezza per ragazzi e ragazze. In un mondo alla rovescia che va riordinato, spingendo più in là caste, baronìe, assunzioni per chiamata diretta, feste, festini e rimpasti. Ma non per la voglia di introdurre un rigido ordine da caserma, ma solo per dare logica e ragione a un palcoscenico che in apparenza si proclama dritto e sull’attenti, ma che poi si rivela caotico e pretestuoso.
Ecco la portata del ministro del Futuro, il cui raggio di azione sia nell’oggi ma solo per lo spazio-temporale utile a costruire il contenitore di domani, abbandonando finalmente quella polverosa e stucchevole contingenza. Dove conta dichiarare, apparire, inaugurare, anche se poi ciò che si dichiara, o quello che si fa vedere in video o il luogo che si inaugura, alla fine è un triste ripostiglio: vuoto e pieno di ragnatele.

Tutti in piazza con gli studenti per i diritti, senza violenze


Da Ffwebmagazine del 21/12/10

Un invito ad andare in piazza, senza sigle, o targhette di riconoscimento o bandiere, ma solo facendo orgogliosa mostra del proprio senso civico, della voglia di quella generazione che va dai 35enni ai 50enni di oggi, di riprendere il filo di un discorso, di riannodare rapporti con gli studenti. E lontani dalle infinite contrapposizioni, per impedire che il conflitto sia ridotto allo scontro tra polizia e giovani. È l’auspicio lanciato dal gruppo di lavoro del portale informativo Gli italiani, un richiamo a quanti domani decideranno di scendere in piazza per sostenere gli studenti. Perché motivati dall’essere cittadini coscienziosi, gente comune che ha a cuore quello spirito civile che anima imprese e propositi. E la motivazione è che mercoledì 22 dicembre, nelle strade della Capitale non sarà solo celebrato il voto ultimo della riforma Gelmini, con il conseguente pericolo di “eliminare” un’intera generazione. Ma ci sarà, sostengono, una «sfacciata prova di forza per liquidare il patto sociale e la nostra democrazia costituzionale».

La presenza accanto a quei giovani servirà ad impedire che vengano violati diritti e integrità: di chiunque. Di chi ha il legittimo proposito di manifestare la propria contrarietà, non solo di fronte ad un singolo atto legislativo, ma più in generale nei confronti di una classe dirigente con la quale è difficile interloquire. E di chi assicura ai cittadini la quotidiana sicurezza, dal momento che combatte le mafie, con rischi altissimi e con stipendi non altrettanto alti. Perché allora questa chiamata a raccolta? Per una ragione semplicissima, la stessa che i giovani stanno urlando disperatamente: in questi giorni sono in gioco la tenuta sociale e legale del Paese, la democrazia di un popolo, i diritti di tutti.
Si tratta di un vero e proprio patto fra generazioni, soggetti che non possono più chiamarsi fuori da un palcoscenico che invece va vissuto, si legge nel manifesto appositamente redatto. Definiscono la violenza una non-soluzione. Non lo è per chi manifesta contro chi vorrebbe cancellare diritti fondamentali. E non lo è nemmeno «per chi considera l’ordine pubblico una pax bellica». In quelle righe vergate da veri e propri sentimenti di coscienza civile, si allontana lo spettro del muro contro muro, perché figlio di una logica aspra e sterile. Con soggetti espulsi dalla società, relegati ai margini, incattiviti dalla precarietà professionale, da un bioritmo di vita insperato solo due lustri fa.

Ecco lo spirito di questo appello, dunque, in piazza per evitare la violazione dei diritti di integrità, per non lasciar morire ciò che è dovuto. Per srotolare lo striscione che inneggia alla vita, ai pensieri reali, nei quali si trova di tutto: dalla realtà di ogni giorno alle aspirazioni, dalle paure alle idee, dai tentennamenti alle soluzioni. Per gridare finalmente che l’Italia c’è, ed è un Paese con un cuore pulsante, con cittadini vivi e reattivi, proprio quando ci si affrettava a bollare questi adolescenti come abulici e menefreghisti, ecco fare capolino il senso civico, la voglia di partecipare e di condividere, e non solo sui social network. No, non si tratta di studenti passivi, che imparano la lezione e poi filano a casa perché “così si fa”: ma hanno voglia di mettersi in discussione, di esprimere libertà civili e politiche. Per questo è utile che vengano sostenuti, accompagnati, incentivati.
Il gruppo de Gli italiani sarà in piazza con loro, «perché la politica ufficiale in quella piazza non riesce a starci più». Anche per colpa di chi ha troppo spesso delegato irresponsabilmente. In piazza dunque, per difendere una storia, i bisogni, le speranze, i sogni di generazioni intere che sono state illuse, alle quali è stato promesso tanto. Che sono state ingannate, offese, azzerate, imbavagliate da chi intende cancellare, a colpi di strumentalizzazioni, l’univo collante che unisce popoli, Stati e società: ovvero quel tessuto che proviene dal comune senso di giustizia sociale che un Paese che si proclama democratico non può non avere.
Anche per ricordare ai palazzi romani che se i giovani sono animati dalla voglia di partecipare, di dire la loro, di muovere critiche o rilievi, la politica non è bene che si barrichi dal lato opposto, insultandoli, o delegittimandoli. Ma dimostri la propria maturità gestionale, sforzandosi di intercettare quel dissenso, di comprenderne le ragioni, e perché no, suscitando un rapporto di equilibrio con loro. Magari ricordando quell’assunto di Marco Fabio Quintiliano, secondo cui «i giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere».

La doppia politica di Mister Quagliariello


Da Ffwebmagazine del 21/12/19

Di lui restano impresse nelle immagini e nei ricordi le urla velenose e cariche di astio di una sera di febbraio, quando il Parlamento si ricordò di prendere in esame la questione del testamento biologico, ma solo perché la povera Eluana Englaro smetteva di soffrire. Insulti rabbiosi, occhiate spiritate segno di quella politica perennemente con l’elmetto in testa, sempre in trincea, lontana anni luce da “altri” esempi e interpreti che facevano della moderazione, del rispetto e dell’alta modalità di legiferare una priorità. Ma il vicepresidente dei senatori del fu Pdl, Gaetano Quagliariello, oltre che per quella sera del 9 febbraio 2009, viene curiosamente osservato negli ultimi mesi per via di una sorta di doppia veste, indossata in due luoghi distinti. Che, forse a causa della differente latitudine, modificano la sua linea politica.

Mentre a Roma fa il berlusconiano, in Puglia fa il finiano. Chiariamo: nella Capitale censura chi non la pensa come lui, svolgendo il ruolo di alter ego di un altro campione del liberalismo, come Maurizio Gasparri a sua volta distintosi, in occasione della sfiducia, per una nuova direttrice politica chiamata trasformismo cravattino, per la rapidità con cui ha sostituito al suo vecchio nodo, il colore e il modello indossato dal capo. Si dirà, di questi tempi meglio essere allineati. Ed è proprio così, come testimoniano le migliaia di dichiarazioni del senatore Quagliariello improntate più al contorno che alla sostanza.

«Sulla bioetica? Già in conflitto», ha detto, mostrando di promuovere, forzatamente, i pur importanti temi etici, a punto primario di un esecutivo, paragonabile alla finanziaria o alla spinta riformista per uscire dal pantano della crisi economica. Oppure sulla legge elettorale, «non è un tabù ma basta ipocrisie». Forse quelle del suo capo, che fa di tutto per continuare a ignorare quel 35% di italiani che non vota, e che certamente non contribuisce a far arrivare il famigerato gradimento del premier alle ridicole quotazioni del 60%, come Berlusconi ama ripetere in occasione di cene e barzellette semi ufficiali. Apprezzabile, di contro, lo sforzo culturale compiuto con la fondazione Magna Charta di cui Quagliariello è l’ispiratore, meno quello di inserirvi come praticante una ex partecipante del Grande Fratello.

A cinquecento chilometri più a sud, invece, Quagliariello è vittima di una mutazione genetica. Infatti ogni sabato è a Bari, per supervisionare le ormai - si dice - prossime consultazioni regionali che lo vedrebbero candidato per il Pdl (dal momento che le scelte di Fitto degli ultimi dieci anni si sono rivelate perdenti contro la corazzata Vendola), ma con un piglio che lo rende irriconoscibile ai suoi. Dice: «Il Pdl non deve emarginare nessuno, deve essere un contenitore dove le idee diverse abbiano pari cittadinanza, sia aperto a tutti i moderati, vada oltre se stesso e in grado di convincere anche chi ora nel partito non ci crede», parafrasando Pinuccio Tatarella, uno che veramente guardava avanti. Beh, sembra quasi voler sconfessare il capo di Arcore. Facendo riferimento al partito pidiellino del ministro Fitto, plenipotenziario berlusconiano in loco, e definendolo monopensiero, blocco granitico, unicuum dal quale è necessario distinguersi per aprire al dialogo. Contrastando l’assenza cronica di dialettica interna, l’assoluta genuflessione a un padrone che decide e dispone. Passando per feste di partito separate e conferenze stampa natalizie convocate in luoghi distinti.

Lecito chiedersi: ma chi è allora il vero Quagliariello? Quello che a Roma bastona chi alza un dito per eccepire, quello tifoso dello status quo dell’attuale esecutivo, berlusconiano folgorato sulla strada di Arcore e che brandisce i temi etici come una clava? Oppure quello pugliese che fa il custode delle minoranze e del polipensiero, in quella terra intrisa di accoglienza e di multiculturalismo? Non sarà che questa duplice cornice sia invece forgiata - ma è un solo cattivo pensiero - dalla contingenza geopolitica elettorale? Con la precisa volontà di frenare in terra di Puglia il potere del ministro Fitto? Lecito interrogarsi serenamente e analiticamente, lecito anche trarne logiche ed elementari conseguenze.

domenica 19 dicembre 2010

Fini: «L'Europa è unificata dal comune retaggio civile e culturale»


Da Ffwebmagazine del 19/12/10

«L’unità politica europea? Non potrà comporsi solo condividendo interessi economici, ma dovrà passare per un comune retaggio civile e culturale”. Non ha dubbi il presidente della Camera Gianfranco Fini, aprendo i lavori del seminario sull’unità dell’Europa, fra mito, visione e futuro, promosso dalle fondazioni Adenauer e De Gasperi, nel tracciare le linee guida della futura convivenza di popoli e Stati all’interno di quel grande conglomerato che si chiama Unione Europea, al quale però manca a volte un humus che sia più unificante. E riferito a molteplici temi contingenti, come il binomio immigrazione-integrazione. Fini fa riferimento alla riflessione avviata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel sulle differenti tipologie di politiche migratorie sino a oggi adottate dai governi continentali.

Se da un lato sta riscontrando non poche criticità il metodo dell’assimilazionismo adottato in Francia, dall’altro non sta portando i frutti sperati quello del melting-pot tipico del centro nord Europa, in un mosaico con molteplici tessere ma che stentano a comporre un unicuum, e che si sta rivelando di contro una fucina di contrasti anche aspri, come le recenti manifestazioni di piazza testimoniano. Sarebbe bene riflettere su un tipo di multiculturalismo che non sia solo garante statico di diritti e doveri, ma che si sforzi di fare un passo in avanti, verso uno scatto più accentuato che consideri le regole fondanti delle società ospitanti come un primo punto di riferimento, e andando oltre i luoghi comuni del politicamente corretto.

Fini giudica un’illusione il fatto di utilizzare fattori economici come unico collante armonico fra persone e comunità, ma è necessario partire dall’individuo, come essere a cui deve essere garantito il pieno rispetto della dignità della persona, e accanto ad esso serve chiedere il rispetto dei valori legislativi del Paese ospitante. In una doppia condotta, dalle conseguenze ben precise, perché solo con una duplice azione, da parte di chi accoglie e da parte di chi è accolto, si potrà costruire quel tessuto di accoglienza ed inserimento che gli europei, non bisogna dimenticarlo, hanno attuato negli altri continenti nei secoli scorsi.

È chiaro che una buona base di partenza è certamente data dalla vicinanza culturale tra Italia e Germania, testimoniata non solo dalle frequenti cooperazioni tra due fondazioni culturalmente attive come la Adenauer e De Gasperi, ma soprattutto da comuni dati sociali. I due Paesi hanno in passato superato ferite profonde, e non devono secondo Fini smarrire oggi quell’altezza morale che hanno profuso nella seconda metà del secolo. Lo spirito europeo, quindi, si ritrova in una serie di atti della storia recente, come la volontà di ricongiungere le due Germanie, o l’introduzione della moneta unica, o la stesura della Costituzione europea, in occasione della quale, riflette la terza carica dello Stato, si perse un’opportunità quando non si vollero inserire le radici giudaico-cristiane all’interno della carta.

Ma il pungolo in chiave europea, sette anni dopo quell’esperienza, sta oggi nell’individuazione dei valori comuni, imprescindibili per affrontare i temi legati alla vita reale, come le pulsioni separatiste in svariati ambiti del continente, che non bisogna raccontare in toni troppo allarmistici ma che è bene tenere sotto controllo, per scongiurare rigurgiti xenofobi e antieuropeisti.

È quindi la prospettiva futura che deve stimolare l’opera di analisti e classe dirigente, dal momento che guardando all’oggi ma soprattutto al domani, si avrà un tessuto sociale sempre più pervaso da logiche di contaminazione, di scambio civile e culturale, di presenze di stranieri. Per cui non appare di ampio respiro una condotta amministrativa che sottovaluti tale dato di fatto. Quando invece si rende necessaria una valutazione a lunga gittata, per la creazione di sovrastrutture culturali in grado di fare da incubatrici ai prossimi flussi migratori.

Ecco che il presidente della Camera valuta estremamente positivo il dibattito avviato da frau Merkel, dal momento che una maggiore dialettica in ambito comunitario non potrà che portare prospettive costruttive e incoraggianti, ma solo se il dialogo verrà attuato a trecentosessanta gradi, magari coinvolgendo i rappresentanti in loco delle comunità straniere, in una sorta di agorà europeo dell’immigrazione. Che sia propedeutico a quell’integrazione che, più che data da carte bollate e visti ufficiali, deve innanzitutto essere metabolizzata nei gesti di ogni giorno.

Elogio di un altro cinema: leggero ma non cretino


Da Ffwebmagazine del 18/12/10

Perché cambiare una formula per il gusto di inseguire il mercato dei sorrisi? Perché contaminarsi con scorciatoie illusorie, per strappare consensi e presenze ai botteghini? È il dilemma di sempre, che combatte alacremente tra genuflessione al mercatismo e inseguimento della qualità. Un compromesso efficiente però è possibile, e tra i tanti cinepanettoni o web pandori già scaduti, ecco il film di Natale di Aldo, Giovanni e Giacomo che riporta la comicità sulla terra, lontana da viaggi esotici, ma saldamente ancorata a una sana e pura ilarità.

Non c'è bisogno di vallette, di parolacce e di bungabunga. Per far ridere bastano anche un paio di battute normali e simpatiche. Lo ha sempre fatto il cinema italiano, leggero sì ma cretino no. E non si venga a dire che la narrazione sullo schermo si adegua al livello dei cittadini, perché invece servirebbe recuperare quel ruolo anche educativo o pedagogico di pellicole o fiction. E poi, chi l’ha detto che per ridere bisogna scadere? Nella maleducazione, nell’insulto, nella denigrazione, nel malcostume. Non è affatto vero, sempre che si voglia produrre un qualcosa di costruttivo. Dialoghi, sceneggiature, fotografie, location: se l’intenzione è suscitare un’emozione vera e pulsante, allora è necessario impegnarsi molto. E oltre la mera immagine della bella di turno, con décolleté compreso nel prezzo del biglietto. Senza per questo voler coattamente preferire caste mise, bacchettone o troppo prudenti, non è questo il punto. Se poi si vuol solo fare prodotti in serie, con scadenza natalizia o pasquale, beh, non è il caso de La banda dei babbi Natale, ultimo lavoro del trio siculombardo.

Un cinema normale, con risate normali, fa ridere non lo stesso, ma il doppio. Perché insegna che la normalità spesso è la marcia in più, quella cosa che collega idee e fatti, mondi ancestrali a vite di ogni giorno. Dove lo spettatore si ritrova, e ci ride su, riflette, si domanda perché. E poi, dopo un’altra risata, esce dal cinema alleggerito, ma non per questo carico di parolacce, insulti e cafonaggini assortite. È quell’assembramento di frame che coinvolgono un veterinario inaffidabile, un medico in perenne memoria della moglie scomparsa e un incallito scommettitore senza lavoro.

È un film, La banda dei Babbi natale dove, se si ride, lo si fa perché la comica immagine dei tre attori produce vivo divertimento, senza ricorrere al nudo perché, forse, non si ha poi molto da far dire. È la tragicomica avventura di tre amici, è il filone delle peripezie frutto di incomprensioni grottesche, di scambi di opinioni e valutazioni, di intenzioni fraintese. Con scelte di cast distanti anni luce dal nome del momento, buono per vendere una lavatrice, ma non per “fare” un certo tipo di film. Dettagli che, uniti come si faceva anni fa con quei puntini sui cruciverba, realizzano l’immagine finale. Dove non è necessario affannarsi tra manager e agenti, impegnati tra inaugurazioni e big event per individuare la protagonista.

Senza dubbio occorre lavorare di più e meglio, sforzarsi di produrre allegria vera e non di plastica o al silicone, costruire un filone di risate che per divertire non abbiano bisogno di scollature e allusioni. In quel caso di farina del proprio sacco non ne serve poi granché, perché c’è la maschera della quarta misura di seno, della miccia provocante, dell’occhiatina magnetica, della barzelletta da cafonacci. Da rispettare comunque, ognuno in fondo guarda al cinema ciò che gli pare. Ecco, però, lì le cose sono più semplici, perché si antepone a una storia, a una trama, a un’emozione o ricordo, un’intera sovrastruttura per così dire felicemente cafonal, tanto per usare un termine alla moda e mediaticamente presente. Quasi una maschera di carnevale indossata tutto l’anno. Che fa ridere, magari per un istante, ma che poi scompare con i titoli di coda.

venerdì 17 dicembre 2010

Pietro Scoppola: lezioni di patriottismo costituzionale

Da Ffwebmagazine del 17/12/10

«L’insegnamento - diceva Pietro Scoppola - è ascolto del nuovo, il nuovo delle nuove generazioni». Ciò che spesso non si riesce a fare, non solo con i giovani, ma anche con quelli meno giovani, in una sorta di isolamento acustico che ovatta l’interlocutore, azzerandone idee, convinzioni, proposte. È la logica del non approfondimento, a causa della quale lo sbriciolamento socio-politico-culturale che è sotto gli occhi di tutti si insinua pericolosamente anche in quei pertugi del Paese che resistono coraggiosamente.
L’occasione per ricordare l’apporto di Pietro Scoppola è un delizioso volumetto, Lezione sul '900, curato da Umberto Gentiloni, di quelli che scaldano il cuore perché ritornano su pagine non poi così lontane, stimolano all’analisi e a una riflessione lontana anni luce dagli umori del momento. Ma frutto di intensi e analitici studi, senza i quali risulta complesso valutare la quotidiana evoluzione della cronaca. Pietro Scoppola proprio qualche giorno fa avrebbe compiuto 84 anni. Il libro è frutto dei suoi appunti per il corso monografico di storia, nelle sue lezioni tenute alla facoltà di Scienze politiche. Arriva quasi 40enne alla docenza universitaria e per generazione non era legato a una concezione ex cathedra, riflette Camillo Brezzi, ma all’esercizio del giudizio come un itinerario selezionato, con inquietudini contingenti da un lato, e riflessioni sul passato dall’altro.

Non troncava mai le sue lezioni al suono di una campanella o del gong di un orologio dopo il sessantesimo minuto, ma le proseguiva nei corridoi e soprattutto quelle analisi si depositavano nelle menti di chi lo ascoltava. Peculiare era l’eloquio pacato del suo costrutto, del suo ragionamento, senza supponenza o astio, ma con “altri” ferri del mestiere abbastanza rari in certe interlocuzioni di oggi: dati, analisi, teoremi, approfondimenti logico storici. Fu protagonista di approfonditi studi nei rapporti fra liberalismo e Chiesa, tra fascismo e Chiesa. La storia, dunque, come risposta alla domanda circa gli intrecci tra la Chiesa e la democrazia. Storia e revisioni le sue passioni, da cui spicca una forte intensità nel suo magistero universitario. Non una conoscenza fine a se stessa, ma una sorta di amichevole cenacolo, che affrontava anche i temi dell’attualità solo con il conforto delle nozioni storiche. Scoppola era uno storico a modo suo, parafrasandone una riflessione che egli scrisse nel volume Un cattolico a modo suo, uscito postumo. A modo suo perché non ebbe particolari maestri (o padroni, come si usa fare spesso oggi), ma solo i testi, gli amici e i familiari.
Divenne presto punto di riferimento di una generazione di nuovi ricercatori, ma non volle essere primus inter pares, bensì preferì un approccio collegiale, laico, libero, senza la rigidità di appartenenza a una scuola uguale per tutti. Scegliendo la libera libertà di insegnamento e di apprendimento. Né volle intitolarsi riviste o correnti di pensiero. Trent’anni fa i commissari universitari avevano i nomi di Pasquale Villani, Pietro Scoppola, Renzo De Felice, «forse sta tutta qui la differenza», riflette Brezzi. Nel 2002 scrisse: «In questo momento di crisi dell’università, la crisi sta tutta nel rapporto fra docenti e studenti.

Ecco il nodo dal quale dipende il futuro». Offrendo poi la chiave di lettura risolutiva, in quanto «l’insegnamento sia libero, lo prevede la Costituzione. Non servono leggi e circolari, per chiarire la validità costituzionale dell’insegnamento». È un testo di otto anni fa, ma sembra vergato solo ieri.
E allora, dove ritrovare la strategicità delle lezioni sul Novecento? Sono importanti perché frutto dello sforzo di uno studioso della crisi del modernismo, ricerche svolte in funzione dei suoi approcci universitari, come quel lavoro del 1971 intitolato Laicismo e anticlericalismo. O cinque anni dopo La proposta politica di De Gasperi, testo di un ricercatore incallito che voleva andare a fondo nelle analisi, scavando, rimettendo in discussione, provando a valutare cause ed effetti, in una modalità di cui oggi si sente una drammatica mancanza. Un consolidato atteggiamento storiografico che uno storico non può non adottare: tracciare nuove vie, sperimentarle, arricchire il percorso intellettuale con una maggiore comprensione di fatti e di opinioni, senza lasciarsi distrarre dalle sirene delle appartenenze.
Come quando analizzò quel referendum che per De Gasperi fu «vera occasione di pacificazione», il tramite per «collegare popolo e Stato». O quando all’indomani degli anni di Tangentopoli, studiò l’evoluzione e la crisi di un sistema politico, scrivendo che «il Paese è in bilico tra compimento della democrazia e nuovo punto di rottura», con una mentalità da «annozero della politica». Ma è in 25 aprile liberazione uscito nel 1995 che Scoppola, con il consueto rigore intellettuale, narra il rapporto della politica con i drammi umani all’indomani del secondo conflitto mondiale. Ribadendo in una lezione quanto mai attuale, come il passato vissuto dagli italiani, serva per costruire un innovativo tessuto di solidarietà.

Una nuova ottica storiografica, non più legata a una singola elite ma aperta a tutti. Giungendo all’assunto che «la Resistenza fu movimento sociale che si sviluppò nelle parti più interne del Paese», in quanto non corrisponde al vero il fatto che l’Italia tra l’8 settembre e il 25 aprile - scrisse - si perse «in un grigiore». Ma fece «Resistenza armata e civile, costruendo un tessuto molecolare nazionale e di responsabilità».
E ancora, altro suo cruccio fu la difesa della democrazia e della Costituzione, che gli fece dire «la storia ci aiuta a capire cosa siamo e ad essere liberi». Diagnosticando la vera soluzione al carcinoma socio-culturale del fine secolo italiano, ovvero «recuperando una cittadinanza come quella che non si può non ritrovare nel patriottismo della Costituzione, che tutti dovrebbero condividere, anche provenendo da autonome singole declinazioni».

giovedì 16 dicembre 2010

GRECIA, UNA TREGUA PER LA RIPRESA


Da Mondo Greco del 15/12/10

Ha scritto Confucio che governare “significa correggere. Se tu dai l’esempio con la tua rettitudine, chi oserà non essere corretto?”. Da ventiquattro mesi la patria della filosofia vive uno dei momenti più bui della sua storia, peggio di qualsiasi invasione del passato o guerra civile. Conti in rosso, piazze infuocate, precarietà non solo professionale ma soprattutto umana e sociale.
E se fosse un armistizio a riportare serenità in Grecia? E se si provasse, almeno per una volta, ad ascoltare anziché reprimere? Tra anniversari, misure economiche, disagi e colpevoli del crack ancora introvabili, la Grecia si avvicina al Natale pervasa da scioperi e intemperanze.

I provvedimenti di natura fiscale ed amministrativa messi in atto dal governo, se da un lato puntano a risistemare conti che da anni erano preda di una sorta di “brigantaggio” legalizzato, dall’altro stanno mettendo a dura prova la resistenza dei cittadini. Passi per le classi agiate, per i più abbienti, per i proprietari terrieri. Ma gli altri? Chi si preoccupa degli statali tagliati, o degli operai in cassa integrazione, o di quei liberi professionisti sprovvisti degli strumenti di lavoro, o di quelle famiglie monoreddito che scivolano pericolosamente verso la soglia di povertà? L’esecutivo socialista Papandreu non può certamente percorrere strade diverse dal rigore, impostogli (in ritardo) dall’Unione Europea e dagli standard economici continentali. E a caro prezzo, come testimonia l’acquisto greco di due modernissimi sommergibili dalla Germania, in un impeto di, come si potrebbe definire? Follia, sbadataggine, coincidenza, investimento fuori luogo?
Ma sarebbe stato utile, forse, aprire una finestra di dialogo con le parti sociali, con le imprese, con il mondo produttivo, con gli statali, almeno per provare ad armonizzare decisioni e ridimensionamenti, per smussare e comprendere la loro protesta. Anche perché sino ad oggi non sembra che alcun politico o burocrate abbia pagato dazio per il disastro economico del Paese. Nessun manager della pubblica amministrazione, o ministro, o deputato, sembra sia stato interrogato, o coinvolto in qualche inchiesta della magistratura per fare luce su questa grande anomalia del secolo.

E’come se un capofamiglia un bel giorno si svegliasse, e mettesse al corrente tutti gli altri componenti del nucleo familiare, dell’impossibilità a garantire loro un pasto. E con quali premesse, per quali cause, con quali e quante responsabilità? Ciò che più lascia perplessi dell’intera vicenda è la mancanza di orgoglio e di onestà intellettuale da parte dell’intera classe dirigente, che non si è sentita nemmeno in dovere di chiedere scusa non solo ai greci ma a tutti gli europei, di una condotta amministrativa suicida, con sprechi di danaro grossolani, con iniquità senza precedenti, senza una visione minimamente lungimirante.
Qualcosa, però, si può ancora fare. Prima di chiedere sacrifici, tripli salti mortali per arrivare alla fine del mese, c’è ancora qualcosa che la politica ellenica può fare. Un segno, non servirebbe altro per risollevare, almeno temporaneamente, gli umori della gente. Un segno che solo una politica alta e ragionevole, potrebbe e dovrebbe dare. Devolvendo gli stipendi del Parlamento di dicembre a chi non percepirà la tredicesima, o a chi non riuscirà a tagliare la Vasilopita, o a chi dovrà rinunciare anche al minimo per far quadrare i bilanci. In quel caso sarebbe più agevole far comprendere i perché di una manovra, partecipando assieme al popolo a quei sacrifici. Almeno testimoniando la vicinanza alla gente di una classe politica che non ha poi fatto molto per spiegare la bontà di quei sacrifici.
Contrariamente si renderebbe ancor più profondo, quel solco che divide i palazzi della politica dalla vita di ogni giorno; i grattacieli del potere, dai sottani che combattono dall’alba al tramonto per produrre qualcosa o far produrre a qualcuno. Non si tratta di svoltare politicamente o populisticamente di qua o di là, se proprio si vuol definire una strategia politica più attenta e meno avventuriera, solo prendere atto che le coordinate geopolitiche e sociali sono drammaticamente mutate. Per tutti, non solo per quei cittadini che pagano le tasse, o che rispettano le leggi, o che non cercano la scorciatoia delle fakellakia (bustarelle) per ottenere il rispetto dei propri diritti.

mercoledì 15 dicembre 2010

E grazie alla cultura sbocciano i fiori a Kirkuk


Da Ffwebmagazine del 15/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

Un io, un noi, tanti loro. E poi quegli altri che li perseguitano, che brandiscono spade e tranciano vite ed esistenze. I fiori di Kirkuk, di Fariborz Kamkani, è un film che disegna passioni. Il regista, nato in Iran ma curdo da sempre, in quanto minoranza (perché relegato a oggetto da eliminare, a popolo da distruggere) narra la storia di Sherko e Najla, due giovani medici che si conoscono in Italia. Ma la diversa identità territoriale dei due (lui curdo, lei irachena), convoglia la storia verso un amore impossibile, dal momento che la dura mano di Saddam Hussein ha violentato migliaia di villaggi curdi, imprigionandone i cittadini, relegandoli ai margini sociali e politici, infliggendo loro torture e pene severe.

La pellicola restituisce frame mai andati in onda nei tg occidentali, crudi e violenti, che contrastano con i sentimenti dei protagonisti: verso la propria terra, ragione per cui decide di rimanere in Iraq nonostante la persecuzione del regime; e verso il proprio partner, che al suo interno contiene molto di più di un rapporto di coppia. Perché si tratta di un film di affermazione, di dialogo interreligioso e interculturale, attraverso il quale, rivela il regista ai microfoni de La settimana internazionale, si può far luce su un periodo troppo spesso ignorato. Del quale poco si conosce e si approfondisce, perché si ignora quel background iracheno degli anni ottanta di usi e costumi, di circostanze, di delegittimazioni, di minoranze ignorate o colpite.

E se quella sceneggiatura fosse oggi presa in considerazione per tracciare nuove linee in un Paese solcato da mille cambiamenti e metamorfosi in chiave democratica? E se fosse proprio l’esempio di Najla, decisa a mutare gli eventi grazie al proprio senso di responsabilità, a spingere i protagonisti dell’Iraq di oggi a valutare anche l’opzione culturale come strumento di rinascita? Una strada percorribile, dal momento che di questo Paese noto per il petrolio e per essere stato scenario di guerre vicine e lontane, manca un’approfondita visione di insieme. Con scenari che si sono rapidamente accavallati, intrecciati, con sangue e vittime, da una parte e dall’altra. Con strumentalizzazioni frequenti, di questo o quell’esponente. Con condanne a morte, con celle umide di carceri medioevali, con elezioni, esecutivi, dubbi e speranze.
Servirebbe più cultura del dialogo, ammette Habeeb M. H. Al-Sadr, ambasciatore dell’Iraq presso la Santa Sede, nell’analizzare la contingenza di oggi, legata a quegli omicidi che vedono cittadini di fede cristiana assassinati senza un apparente motivo.

Secondo il diplomatico il traguardo dei terroristi è di innescare una guerra civile, supportata da un conflitto interreligioso, per distruggere lo spirito democratico che lentamente sta tornando nel Paese. Non ha dubbi l’ambasciatore nel dissipare i dubbi circa una persecuzione ad cristianum, all’indomani dell’uccisione di altre due persone, freddate nella loro casa di Baladiyat, zona prevalentemente sciita di Bagdad. Secondo fonti militari a premere il grilletto sarebbero stati individui non iracheni, lasciando intendere la matrice straniera. A seguito di questi fatti di sangue, è salito a 500 il numero delle famiglie cristiane che cercano riparo in Kurdistan.

Due gli elementi da cui ripartire, entrambi di matrice legislativa, con la nuova Costituzione che appare inclusiva al pari della nuova legge elettorale che consente ai cristiani una quota parlamentare di cinque seggi. Provvedimento che rientra nel solco della politica avanzata dal premier Al-Maliky, per un governo di unità nazionale che non sia dei più forti, ma garanzia di tutte le rappresentanze. Certo, permangono dubbi e incertezze, come il fatto che il Paese sia rimasto per nove mesi sprovvisto di una guida politica, troppi per una comunità dagli equilibri fragili come l’Iraq. O come il fatto che inizialmente gli americani abbiano lasciato interamente in mano agli iracheni la questione della sicurezza interna, dato che ha favorito le escalation terroristiche che, oggi, continuano a sfruttare eventi come le rappresaglie contro cristiani e contro alcune moschee del Paese, per ottenere un eco mediatico in occidente. Non bisogna dimenticare che si stanno chiudendo ancora conti del passato rimasti in sospeso, si veda la condanna a morte inflitta a Tarek Aziz, il cosiddetto volto presentabile del regime di Saddam.

Nonostante evidenti passi in avanti, politici, amministrativi e sociali, ciò che non convince è la possibilità prevista dalla carta costituzionale di costituire regioni per cittadini cristiani, ma solo su loro richiesta. Un’eventualità miope di creazione di veri e propri ghetti, i quali più che l’integrazione ed il rispetto dei diritti umani e religiosi di tutti, segnerebbero un ulteriore confine invalicabile tra popoli che, nei secoli passati, sono riusciti tranquillamente ad esistere nello stesso Paese. Fino a quando la politica e i macrointeressi non si sono infilati in quel pertugio di convivenza.

domenica 12 dicembre 2010

Tutto quel silenzio che può uccidere di nuovo

Da Ffwebmagazine del 12/12/10

Da 37 anni su 32 morti è calato un silenzio triste e indecoroso. Che ha taciuto cause e perché, indizi e ipotesi, ma anche che ha scoperchiato circostanze e successive ammissioni. I nomi di quelle 32 persone non esistono in alcuna carta processuale, come i nomi dei mandanti. Nessuno sino a oggi ha cercato fra documenti, né si è insinuato fra le briglie di una storia oscura. O forse molto chiara. Il lavoro di inchiesta di Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti in Fiumicino 17 dicembre 1973 parte da un dato di fatto, da quel patto semi segreto detto Lodo Moro, la stipula del fantomatico accordo tra palestinesi ed italiani, siglato durante un incontro presso l’Ambasciata d’Italia al Cairo nell’ottobre del 1973. Allorquando iniziò la guerra del Kippur e solo 60 giorni prima dell’attacco a Fiumicino.

Patto di cui, approfonditi dettagli, sono stati illustrati in un intervento sulla stampa italiana vergato da Francesco Cossiga nel 2006, che parlava apertamente di “Patto Giovannone”, dal nome del funzionario del Sismi di stanza a Beirut. Accordo che, nei fatti, prevedeva in cambio dell’impegno palestinese a non colpire obiettivi italiani in territorio italiano, il passaggio sullo stesso di tutti i traffici di armi, di cui, riflette Sandro Provvisionato nella prefazione, «la stagione dei dirottamenti anni prima e quella ancora più selvaggia degli attentati mirati dopo, prevedeva». Il lavoro degli autori si scontra, però, con l’assenza di atti processuali. Come risulta dall’intervista a uno dei magistrati di punta della lotta al terrorismo, Rosario Priore, il quale conferma come negli ultimi anni, stia emergendo una verità storica della vita del Paese. Ovvero l’esistenza tra l’Italia e tra diversi settori della resistenza palestinese, di un «ben congegnato patto di non belligeranza, gestito da uomini dei servizi italiani». Il libro non punta solo a fare luce sulla vicenda da un punto di vista giornalistico, anche grazie alle parole dei protagonisti dell’epoca, ma riesce ad evitare quella fastidiosa deriva che inevitabilmente cade nel tranello politico, nella solita definizione della cronaca da un punto di vista meramente di fazioni.

I fatti: siamo a dodici mesi dal famoso attentato terroristico di Monaco di Baviera, quando un commando di Settembre Nero lancia due bombe a bordo di un volo Pan-Am, nella piazzola di sosta del Leonardo da Vinci. Trentadue i morti, diciassette feriti, oltre al sequestro di un altro aereo della Lufthansa, sino alla conclusione dopo più di un giorno in territorio Kuwaitiano. Come mai, si chiedono gli autori, nonostante il Mossad avesse segnalato ai servizi italiani la presenza a Ostia di cinque arabi- poi arrestati- non venne rafforzata la vigilanza a Fiumicino? E come mai nessuno di quei testimoni è stato ascoltato dagli inquirenti? In questo groviglio di spie, mezze spie, ministri e depistaggi, il libro si chiede se il massacro sarebbe stato evitabile. Ed è stato scritto interloquendo con quei volti e quegli occhi presenti in quelle ore di trentasette anni fa, quando una mattinata uggiosa di metà dicembre, sfociò in tragedia.
Come quando di scava nei molti punti oscuri. Uno dei Carabinieri in servizio quella mattina, ad esempio, ha rivelato che le telecamere puntate sulle postazioni di controllo-passeggeri dove avvenne l’attentato, erano misteriosamente spente. E ancora, una delle donne ferite lievemente, la sedicenne saudita Robin Haccard, venne comunque sorvegliata a vista nel nosocomio fino al chiarimento della sua posizione: perché tanta attenzione nei confronti di una ragazzina?
Lo scalo romano era di fatto diventato un obiettivo del fondamentalismo: tre mesi prima il controspionaggio italiano, su segnalazione dei colleghi di Tel Aviv, aveva bloccato cinque cittadini arabi che a Ostia stavano progettando l’abbattimento di un aereo israeliano. E quello stesso giorno dell’attentato a Fiumicino, si sarebbe dovuta celebrare un’udienza di quel processo. Solo coincidenze?

Salvatore Lordi e Annalisa Giuseppetti
Fiumicino 17 dicembre 1973. La strage di Settembre Nero
Rubbettino editore
Pp.181, euro 13,00

venerdì 10 dicembre 2010

Ma i veri bamboccioni sono quelli che dimenticano la cultura

Da Ffwebmagazine del 10/12/10

Altro che bamboccioni trentenni. Qui pare che l’epiteto stoccato qualche tempo fa da Tommaso Padoa Schioppa sia oggi da riconvertire - e senza offesa - verso chi non si impegna a sufficienza per la cultura e l’istruzione del Paese. E se è vero come è vero che l’assioma “con la cultura non si mangia” è stato sbugiardato da più parti. Chi nutrisse ancora dei dubbi potrebbe dissiparli rapidamente osservando come altre realtà del pianeta, con certamente meno opere artistiche e storiche dell’Italia, gestiscono commercialmente la cultura con ricavi interessanti.

Scrive il professor Giovanni Sabbatucci sul Messaggero che «ci sono appelli inascoltati, responsabilità di cui l’Italia è investita perché il massimo contenitore mondiale di beni artistici e siti di rilevanza culturale», come Silvio Berlusconi ama ripetere (solo) in campagna elettorale. E ancora, «investire nella cultura e nella storia italiana non è solo un obbligo, ma rappresenta uno straordinario asset economico». Per intenderci, se Pompei, in qualità di sito unico nel suo genere al mondo, richiama da tutti i continenti milioni di visitatori, è uno scempio non provvedere ad una manutenzione dal doppio significato: conservazione di un patrimonio culturale che tutti ci invidiano e incremento degli utili che quelle visite e quei turisti consentono. Ecco ciò che una politica seria e lungimirante dovrebbe fare, anziché ignorare eventi e trascurare tesori nazionali, così come il Ministro della Cultura ha inteso fare, prima disertando la Mostra del Cinema di Venezia, e poi, solo due giorni fa, la prima Alla Scala di Milano.

Sabbatucci prosegue la sua analisi rilevando come, complice la scarsità di fondi e a questo punto si aggiunga anche di mentalità europea, non sarà più sufficiente trovare i pochi centesimi che ormai il governo ha deciso di assegnare a cultura e istruzione, ma l’impresa più difficile sarà evitare di spenderli «in pratiche politiche e clientelari. Di contro servirebbe una gestione fondata sul merito di spesa per siti e opere d'arte italiane, tralasciando l’assegnazione di micro-interventi a pioggia», allo scopo di ottenere visibilità per un solo giorno.

Come il caso di alcune delegazioni straniere ospitate a kermesse cinematografiche nostrane, tanto per fare un esempio. Capovolgere queste pratiche, invita dunque Sabbatucci, anche in considerazione di un dato di fatto di cui, il non prenderne ulteriormente atto, fa semplicemente venire i brividi. L’Italia potrebbe con tre riforme dirette e massicce, dare una sterzata decisiva ai propri conti: incentivando la produzione artistica con sgravi fiscali ed investimenti su giovani idee; intervenendo legislativamente su un’editoria plurale, sia per evitare che grosse fette di media confluiscano in singole mani, sia per svecchiare l’informazione del Paese; capovolgendo il sistema universitario, facendo della ricerca e della conoscenza un’industria vera.

L’invito quindi rivolto ai ministri della Cultura e dell’Istruzione è di sforzarsi di non far apparire come tedioso e inutile l’intero comparto del sapere in questo Paese. In quanto si commetterebbe (anzi, si sta già commettendo) un doppio errore: cassare le spinte propositive delle eccellenze, mortificando un tessuto socio-culturale che non ha nulla in meno degli altri; e consegnare i cervelli italiani a una nostalgica mediocrità. Tra l’altro prendendo spunto da una lodevole iniziativa firmata in prima pagina sul Corriere della Sera di ieri da Mary Beard, docente di Storia antica all’Università di Cambridge, quindi non proprio l’ultima d’Europa: è riuscita a fare ciò che Bondi nemmeno ha provato ad abbozzare, ovvero rivolgere un appello alla comunità internazionale per non lasciare solo sulle spalle dell’Italia il fardello della conservazione di un luogo unico come Pompei. Ancora una volta, una lezione per i politici di casa nostra.

mercoledì 8 dicembre 2010

L'ambasciatore iracheno: «Così costruiremo la democrazia»


Da Ffwebmagazine del 08/12/10

Kosmos, mondo, universo. Ma anche altro, altri e ancora finestre su ciò che accade a longitudini e latitudini lontane, senza preclusioni per posizioni ed opinioni. Un approfondimento costante e sotto traccia, in collaborazione con L’interprete internazionale, per slacciare quel cordone ombelicale che troppo spesso lega l’informazione alla contingenza locale, impedendole di mettere il naso fuori dalla propria visione. (Per segnalazioni e commenti inviare una mail all’indirizzo: francesco.depalo@libero.it).

«Le violenze in Iraq? Non sono concentrate contro i cristiani, ma prendono il nome di terrorismo. Un modo per stare al centro dell’attenzione sui media europei». Non ha dubbi Saywan Bazani, ambasciatore iracheno in Italia dai microfoni de Settimana Internazionale, nell’allontanare le ipotesi di razzismo religioso, in occasione dei recenti attacchi contro alcuni cristiani nel Paese. Un territorio che tra l’altro sta per registrare un vistoso incremento di produzione petrolifera, passando dagli attuali 2,5 milioni di barili al giorno ad un dato che potrà essere a breve quadruplicato. Numeri che contribuiscono a fare chiarezza sulla situazione generale dell’Iraq, dove il ministero dell’elettricità metterà presto a gara 22 bandi per la progettazione di turbine a gas, che sicuramente andranno ad incrementare la capacità di produzione di energia del 30% circa nel prossimo quinquennio.

È un binomio, quello tra aspetti sociali ed energia, che viaggia saldamente unito, e non potrebbe essere diversamente a queste latitudini. Dove il processo di ricostruzione epidermico di un Paese e dei propri individui, passa inevitabilmente però anche da altri versanti. Non solo economico, ma sociale, culturale, umano. È da salutare senza dubbio come un dato incoraggiante il fatto che per le strade della capitale circolino nuovamente cittadini sino a tarda ora, con negozi ancora aperti e una vita che lentamente tenta di ritornare a ritmi normali. Dove i docenti universitari, che sino a ieri guadagnavano quattro dollari al mese, oggi ne prendono mille volte di più. Mentre i poliziotti hanno un salario da ottocento dollari. Testimoniando un’oggettiva mutazione degli standard qualitativi di vita. Accanto alla quale non mancano pulsioni nervose, come il risentimento che ancora esiste nella popolazione sunnita, o come il fatto che ancora oggi la gran parte dei cittadini (anche gli indigenti) sia costretta a pagare mensilmente cinquanta dollari per l’attacco ad un generatore energetico privato, in quanto l’elettricità pubblica in Iraq non funziona. Non si spiega, inoltre, come mai dopo l’occupazione americana settennale molte centrali elettriche non siano ancora state ripristinate: elementi niente affatto marginali che hanno un forte impatto sulla popolazione.

Dallo scorso 11 novembre in Iraq esiste un premier, un presidente, un capo del Parlamento: impegnati proprio in questi giorni nella formazione dell’esecutivo. Impresa non semplice, anche in considerazione delle contingenze che lo attendono: l’approvazione della legge sugli idrocarburi, la costruzione di nuove infrastrutture in un Paese provato da guerre ed embarghi, il referendum sull’annessione di una nuova provincia ricchissima di petrolio, il pericolo di nuovi conflitti interconfessionali. Oggi questo Paese da sempre solcato da presenze multietniche e multireligiose è chiamato a recuperare una sorta di bilanciamento tra le varie componenti. Bazani fa riferimento alla nuova Costituzione irachena, che affida ai cittadini la propria quota di rappresentanza all’interno del nuovo Parlamento. Ma occorre ancora del tempo, per assicurare il corretto bilanciamento tra le varie singolarità, compiendo uno sforzo corposo in direzione dei diritti umani, dell’armonizzazione di esistenze. Le differenze che vi sono tra i partiti iracheni, sostiene Bazani, si riferiscono a quelle delle due maggiori comunità etniche presenti nel Paese, arabi e curdi, tra liberali e islamisti. Con background ideologici certamente diversi, ma che nella complessità incarnano tutto lo spettro della globalità irachena. Non vi è quindi uno Stato (come accade in occidente) nazionale, unitario e monolingua, ma con alla base una precisa varietà etnico-culturale, dove i singoli partiti incarnano le tendenze etniche del proprio elettorato di riferimento. Quattro etnie, catalizzate dalla lingua: curda, araba (maggioranza), assiro-caldea e turkmena.

Ecco lo sforzo della Costituzione irachena, dunque, di realizzare una sporta di bilanciamento giuridico e sociale tra le suddette comunità, con le singole peculiarità, esigenze, direttive. Una scommessa senza dubbio complessa, rischiosa e che per essere vinta necessita del concorso di molteplici fattori, anche e soprattutto esterni al Paese. Il riferimento è alle influenze iraniane, secondo alcuni decisamente marcate nell’ultimo periodo, con le inevitabili ripercussioni sullo scenario internazionale. Che però l’ambasciatore ritiene solo «ipotesi naïf, dal momento che sarà proprio costruendo un Iraq democratico e indipendente che si potrà esportare quella democrazia e quell’indipendenza agli Stati limitrofi».

martedì 7 dicembre 2010

La smania del verdetto, che mortifica fatti e persone


Da Ffwebmagazine del 07/12/10

«Noto in Italia - scriveva a inizio secolo Benedetto Croce a un giovanissimo Giovanni Laterza - una sorta di ebetudine, bisogna avere fiducia nell’avvenire e coraggio nel presente. Passerà». Sembrano parole attuali anche cento anni dopo, rivolte all’oggi, a quel torpore che sta investendo non solo un Paese nelle grandi vicende più o meno note, ma soprattutto nelle sue membra, nelle viscere più interne, più profonde, nella quotidianità. Dove sembra che un abbraccio soporifero ma disordinato voglia inglobare tutto e tutti. Con una marcata approssimazione, con strafalcioni sempre più frequenti, con incroci di ruoli, con posizioni indefinite e caotiche. Dove tutti si affannano a giungere per primi a un verdetto, per la smania di dichiarare, di ottenere un colpevole, per poi scagionarlo, ma un minuto dopo ributtarlo in galera. Senza un ordine, senza senso, senza logica.

La resa dei conti immediata, la confusione completa di sentimenti ed emozioni: è la patologia nostrana del terzo millennio, strabordata in quel di Avetrana e che ora rischia di fare nuovamente capolino nell’episodio che ha coinvolto la giovane Yara nel bergamasco. Con un indiziato immigrato che, a causa di un banale errore di traduzione, è passato in poche ore dallo status di mostro a soggetto che non può più essere trattenuto, quindi prossimo al rilascio. Con striscioni xenofobi e carichi di odio issati a vessillo identitario un momento fa, e con le immancabili dosi di retorica che, da oggi, verranno probabilmente pompate nel circuito mediatico. In uno scenario dove manca la misura, il raziocinio. Sarebbe utile comprendere come, allorquando i dati e i riscontri fossero più chiari ai fini probatori, la si smettesse una volta per tutte di appiccicare targhette di riconoscimento o patenti di vita. Se il cittadino marocchino dovesse in una seconda fase risultare coinvolto nella vicenda, non si confonda un caso singolo con il risentimento verso una comunità. Se fosse confermata la sua estraneità ai fatti, la si smetta di cercare un colpevole lì dove magari non c’è.

È così difficile immaginare un sistema, non solo giudiziario, ma a questo punto sociale, dove i fatti siano valutati per quel che sono? E senza dietrologie, elucubrazioni, secondi fini, ulteriori passaggi fanatici ed allusori? Fatti, numeri, dati. E ancora reati, commessi o no. Favoriti o meno. Questa è la maturità di uno Stato, dei suoi tre poteri, ma a questo punto anche del quarto, che spesso invece non aiuta a fare chiarezza, ma cerca l’effetto, stimola il colpo di scena a tutti i costi. Una deriva che causa anche angoscia nei cittadini, nei genitori che ora si interrogano sulla sicurezza, si preoccupano dei propri figli. Ecco il caos, il disordine di pensieri e di emozioni, dove questo comportamento irresponsabile produce danni a tutti: alla comunità di quel comune, ai cittadini immigrati che lì lavorano, pagano le tasse e tentano una difficile integrazione, a quei datori di lavoro che hanno dato loro fiducia, ai vicini di casa.

Insomma, aveva ragione Croce in quella missiva, dura ma in conclusione fiduciosa, perché chiudeva la sua valutazione con una nuvola di speranza. Ma non fine a se stessa, abulica, ed estemporanea. Bensì confortata da quella consapevolezza senza la quale le risposte rimarrebbero lettere morte, anime svuotate da battiti pulsanti. È quello lo scenario da evitare, perché se così non fosse si proseguirebbe in quel pericoloso sentiero di puro caos. Dove tutti sono colpevoli, e un minuto dopo illibati, e il giorno successivo vittime, per poi incarnare drammaticamente tutti i ruoli in questo vero e proprio teatro dell’assurdo.