domenica 9 gennaio 2011

E Zaia si scusò per aver cenato al cinese

Da Ffwebmagazine del 06/01/11

«Cari signori, ho letto con grande attenzione e con tutto l'affetto dovuto ad una categoria così importante per il Veneto, dal punto di vista identitario, economico e della promozione turistica, la lettera che…»: sono le prime righe della missiva che il governatore del Veneto Zaia ha inviato ai ristoratori padovani, che lo mettevano sotto accusa per aver trascorso il Capodanno in un locale cinese low cost.

Una versione light del dramma del fanatismo, quello vero, quello che per secoli ha messo al rogo gli scienziati, che ha impedito a scrittori e poeti di uscire dalla propria casa o di farvi ritorno, quell’aria malsana che non consente di pulire i pensieri. Sì, quel “dal punto di vista identitario” inquieta, non poco. Cosa vuol dire, che le altre categorie produttive sprovviste dello stesso richiamo sono da meno? Che un’appartenenza geografica è da sola sufficiente a tenere in scacco le abitudini di un amministratore, condizionandone la sua sfera personale decisionale?
Così marcatamente, da costringerlo a una excusatio pubblica, quasi che debba vergognarsi per aver frequentato un ristorante non italiano, con personale non italiano e, udite udite, degustando cibo che proviene dall’altro lato del pianeta. Quale sacrilegio, quale infamia, quale bassezza, quale mancanza di rispetto, quale iniziativa personale, attuata senza aver chiesto preventiva autorizzazione al Pcus di via Bellerio.
Ma è proprio leggendo la risposta di Zaia che si ha la cifra esatta di come lavorino queste menti antigalileiane, di questi neuroni nutriti perennemente a bromuro, incapaci di comprendere come il mondo non sia –per fortuna- padanocentrico.

Scrive il governatore: «Ma pur sempre di un ristorante cinese si sta parlando, osserverete voi. Posto che chi scrive, come è arcinoto, non è un frequentatore di cucina etnica, il ristoratore in questione usa prodotti delle nostre campagne e dei nostri mercati». Se possibile, la giustificazione fa più danni del fatto in sé. Ovvero riesce a mettere da parte il pregiudizio razzista nei confronti di altre culture, ma a patto che i pericolosi ristoratori dagli occhi a mandorla per servire riso alla cantonese o ravioli al vapore usino il radicchio trevigiano (che tra l’altro è ottimo) o altri prodotti a chilometri zero, quindi provenienti dalla stessa regione.
Eccolo il fanatismo cieco e deleterio per l’intero paese, per i ristoratori padovani, per i cittadini scevri da ideologie e chiusure mentali, per gli amanti della cucina locale, o per quelli che adorano anche i piatti etnici, per il sistema imprenditoriale che dalla concorrenza potrebbe trarre vantaggio, ma soprattutto per la libertà di un popolo che forse si è perso le conquiste sociali dell’ultimo secolo. Denunciando invece un’arretratezza che, in primis, fa male proprio a loro.

Ma l’episodio gastronomico asiatico che ha coinvolto l’ex ministro dell’agricoltura, per quanto piccolo, fornisce un’ulteriore dimostrazione di una rivoluzione all’indietro, con un movimento localistico e strumentale che ha cavalcato per anni problematiche del territorio per soli fini elettorali, senza fornire risposte concrete, senza migliorare le criticità, ma pompando fiele e nevrosi in un tessuto rilevante per l’economia nazionale.
Il vero regresso leghista, dunque, non è da ritrovarsi solo nell'articolo 1 dello statuto della Lega, quello che prevede la secessione dall’Italia della fantomatica Padania; o nelle ronde che neanche un risultato hanno portato in termini di sicurezza; o nelle manifestazioni volgari e xenofobe di Borghezio a Strasburgo. Ma nella tara di quegli amministratori che non educano, che si mettono sotto schiaffo davanti a derive mentali da medioevo. Semplicemente che non si sentono né cittadini del mondo né italiani. Questa volta non a tavola, ma nell’animo.

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