Dal Futurista del 13/08/11
Nessuno stato, scrisse Einaudi, può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali. Fermezza che non può certamente essere alimentata dalla politica dell’apparenza. Così come fatto dal governo in questi anni. I tempi del tutto va bene sono finiti, così come del ghe pensi mi, o del “non mi hanno fatto governare”. Negli ultimi due lustri solo per ventiquattro mesi Silvio Berlusconi non è stato presidente del consiglio. Quindi se c’è da indicare un responsabile che non ha fatto le riforme, che ha perso mille occasioni per modernizzare il paese, per completare la Salerno – Reggio Calabria, per migliorare la giustizia nazionale (e non solo la sua), per costruire il ponte sullo Stretto, per attrarre più investitori stranieri, per rinvigorire le imprese (e non solo la sua) beh quello è proprio il cavaliere. Ma si badi, non per un vento di coatto antiberlusconismo come sordi commentatori si ostinano ancora a dire, bensì semplicemente per il reale stato delle cose. È stato a palazzo Chigi per più di otto anni e non ha fatto quello che ha promesso, unico caso in Europa e forse anche nel resto del mondo democratico (altrove certi primi ministri vengono fatti accomodare alla pensione). Una situazione che è andata peggiorando, ovviamente, all’indomani della crisi economica mondiale.
Ma alzi la mano chi non ricorda le rassicurazioni dello stesso Berlusconi, quando gigioneggiava asserendo che l’Italia non avrebbe fatto la fine della Grecia, perché con i conti al sicuro. Come sono, oggi, quei conti che lui spacciava per lontani anni luce dal rosso? Se Tremonti ieri era il salvatore della patria, oggi che ruolo ha? Ancora una volta la politica berlusconiana si vanta di risultati che o non ha raggiunto o che raggiungerà in un prossimo futuro (un po’come i pagherò), ma i fatti restano tristemente a zero. Fatta eccezione per la manovra lacrime e sangue che graverà sulle spalle dei soliti noti. A questo punto logica vorrebbe che la politica della casta alzasse bandiera bianca e ammettesse candidamente il proprio fallimento: almeno ne guadagnerebbe di dignità quando gli storici si diletteranno nel riferire la grama fase che stiamo vivendo. Consapevoli che al paese, ricorrendo a una metafora alimentare, non servono né l’indigesta polenta padana né le pur deliziose crostate di casa Letta. Ma i più genuini e semplici cappellacci, che saziano ma non tradiscono. Perché la politica italiana in questo momento ha bisogno di ricette semplici e terribilmente efficaci, non di annunci o paillettes.
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