mercoledì 10 novembre 2010

La lezione di Aldo Natoli: tra libertà e analisi


Da Ffwebmagazine del 10/11/10

Un individuo desideroso di porre (e porsi) quesiti, di capire, di approfondire, smontando tesi precotte e rimontandole con personali rimodulazioni di pensieri. Aldo Natoli, scomparso a 97 anni, era una mente scomoda. Figura di rilievo del Pci, dirigente nella Roma che si rialzava dal secondo conflitto mondiale, non superò le porte della rigida osservanza alla nomenklatura, finendo radiato assieme al gruppo del Manifesto nel 1969.
Pericoloso destabilizzatore? Anarchico insurezionalista? Affabulatore di concetti dogmatici? No, semplice pensatore che intese carpire il senso più intimo e le ragioni vere della crisi mondiale del comunismo. Fu tra i primi ad avere sentore del profondo crollo che quell’ideologia avrebbe registrato su scala planetaria. Intuizione che lo portò ad analizzare criticamente la natura dello stalinismo in Sulle origini dello stalinismo e la valenza di Mao nella società cinese nel saggio scritto a quattro mani con Lisa Foa La linea di Mao.
Legato negli anni della formazione universitaria a figure di intellettuali come Lucio Lombardo Radice e Pietro Amendola, fu organizzatore della Resistenza a Roma all’indomani del suo rientro dalla specializzazione in oncologia a Parigi. Carcere, dirigenza politica, fino all’elaborazione intellettuale più libera: tre passaggi fondamentali che si snodano nella vita di Natoli. Fine osservatore, si ricordano le sue battaglie contro lo scempio cittadino ad opera dei grandi latifondisti dell’urbe, ma sempre caratterizzato da un’impostazione critica, di comprensione e di stimolo, lontano dalla polemica preventiva o da attacchi di bassa caratura. Come quando nel settembre del ‘43assieme a suo fratello Glauco, professore di letteratura a Strasburgo, si affacciò sul Pont du Rhin per puntare i suoi occhi su cosa accadeva nel suolo tedesco. Nelle case, nelle strade, nell’aria.

Assieme ad un gruppo di studiosi come Lelio Basso, Enzo Collotti, Emilia Giancotti, Alberto Tridente, ispirò il comitato contro i “Berufsverbote”. Fu l’occasione non tanto per puntare l’indice contro il pericolo fascista incarnato dalla Germania, ma per comprendere più in generale le modalità delle derive autoritarie, o il rischio antidemocratico che alberga nello sviluppo del capitale moderno. Il contributo innovativo di Natoli è stato quello di accompagnare amici, dissidenti, dirigenti ed intellettuali, in un percorso di analisi, per scorgere fra le righe degli eventi macroscopici all’interno di una crisi vasta. E non limitata alla congiuntura socio-politica dei singoli localismi. In questo si inserisce la chiave di lettura che egli offrì del corto circuito che, agli inizi degli anni ’70, stava investendo il Pci, attraverso un vero e proprio monitoraggio delle piccole crisi nei vari ambiti: nell’industria, nel ceto operaio, nell’informazione, nei disordini sociali, nella lotta armata.
Un modo intellettualmente scomodo di fare politica, di valutarla e di evidenziarne le deficienze, che prescinde da ordini preconfezionati e concetti da paracarro, sorpassati da ricerche ed analisi scevre da servilismi e condizionamenti. Che hanno certamente sostenuto una certa visione del mondo, non solo oggettivamente comunista per via delle sue convinzioni politiche, ma (ben più rilevante, in chiave modernista) libera da input e ordini, slegata da visioni da caserma, con un capo che con elmetto e bacchetta impartisce disposizioni da accettare a scatola chiusa. E invece in quella spinta indipendentista trionfa il singolo neurone in cerca di risposte, quell’alito di vento pensante, sempre più specie protetta.
Da salvaguardare. E da cui ripartire.

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