venerdì 12 novembre 2010

La scommessa tibetana:grande arte per i piccoli


Da Ffwebmagazine del 12/11/10

«Terra di Sua Santità, Terra di mio padre / Montagne innevate, vaste pianure io di nuovo ritornerò/ Lì presso il Potala innalzerò bandiere di preghiera, vicino al Norbulingka, luogo bello e adorabile./ È una Terra ricca e rara questa grande Terra mia, È fresca e magica questa sacra Terra mia. Bomdryada Boom dryada boom boom boom».Così cantavano i bimbi di una delle prime classi elementari a Dharamsala, luogo simbolo perché sede del governo tibetano in esilio. Luogo che accoglie anche il Tcv, Tibetan Children’s Village, villaggio di ragazzi tibetani profughi in India, dopo l’occupazione cinese. Dove si susseguono i racconti che Enrica Baldi ha affidato al suo I gioielli di Dharamsala. Ma anche luogo magico, perché culla di un esperimento socio-culturale. Complesso, difficile, ma entusiasmante: «Servirsi dell’arte grande come cura», riflette nella prefazione Cristina Comencini, per offrire ai bambini autori impegnativi come Sofocle, Dante, Petrarca e in ultimo anche Collodi. Scommessa educativa, ma che contribuisce a sostenere il processo di formazione scolastica, in quella terra così ricca di speranze e di ricordi, di storie e di sorrisi, di piccoli gesti e di gioielli. Tanti gioielli: raffinati, sconosciuti, imprevisti, delicati. Quei gioielli sono i sorrisi di ottocento bambini, che popolano il Tcv: Tharchin, Penpa Dolma, Tenzin e di tanti altri.

Il sistema dei Tcv è nato dall’incontro tra il Dalai Lama e Hernan Gmeiner, lo studente austriaco di medicina che all’indomani del secondo conflitto mondiale decise di dedicare la sua vita agli orfani, creando i Villaggi Sos. Enrica Baldi tiene un diario di viaggio, di un lungo viaggio, iniziato e mai finito. Un racconto dove lo scritto è come il sogno, dove il dolore «non ha connotazione buona o cattiva, ma è la vita, con tutto il suo bagaglio di esperienze positive e negative». Affresca un panorama infantile, dove i piccoli sono considerati adulti a tutti gli effetti, perché possono insegnare molto, nonostante le loro esigenze, le difficoltà dettate dall’età e dalla condizione di profughi. Chi scrive mantiene con quei bambini un legame che va oltre quelle pagine.Nel suo laboratorio Enrica Baldi fonde esperienze personali e fasi accademiche, all’interno di storie unite dalle più importanti opere della tradizione classica, da espressioni artistiche e finanche da spettacoli teatrali, come il clown Gio Giò, il cui copione è stato scritto durante le quaranta ore di viaggio, in volo e in pullman, che separano Roma da Dharamsala.
Laboratori come veicolo di educazione, campi estivi per disperdere differenze e distanze, con il metodo Montessori in primo piano. Racconti nei quali non c’è traccia di quella retorica che, non di rado, abbonda in testimonianze a queste latitudini. Né in quei racconti si erge a giudice. Ma cura, educa, alleva, senza pretendere nulla in cambio da quei bambini. Se non un sorriso: il vero gioiello tibetano.

Civiltà che si scontrano, dunque, cause assurde, diritti negati, amori e sofferenze: il tutto ai piedi dell’Himalaya, in quel lembo di terra che l’autrice definisce poeticamente la «Gerusalemme celeste, adorna come una sposa il giorno delle nozze». L’immedesimazione della Baldi sta tutta qui, nella sua presenza carnale all’interno del villaggio, quando scrive che osservando i loro giochi, guardando quei bambini correre da un punto all’altro dei villaggio, udendo le loro grida e le risa ricongiungersi tra le strade e le case, «mi sentivo come Schlieman che, contando i suoi passi, secondo le indicazioni di Omero, cercava quella Troia che tutti pensavano fosse un’autentica leggenda o il sogno di un cieco».Ma non era un’illusione, bensì tremendamente reale, tangibile, vera e lì, in piedi pronta per essere ammirata. Così come emerge da passioni, pensieri e versi raccolti in Students Forum, la rivista semestrale autogestita da quegli studenti. Inchiostro e lettere pesanti come macigni, che parlano, trasmettono, illustrano vite e tensioni, speranze e sogni.
Come i versi de Il mio ultimo desiderio, scritti da Thupten Nyima, di appena 17 anni: «Oh! Amico, trafiggimi gli occhi con una spada/ perché io non veda mia madre Tibet soffrire. /Maledicimi, perché non sono riuscito a salvarla. /Tagliami le braccia, perché sono incatenate e io non posso camminare verso di lei. Strappami la lingua con una lama incandescente perché la mia voce si perde nella Cina comunista. / Tagliami le orecchie, perché non riesco a udire il grido di mia madre. / Ma quando morirò, caro amico, tagliami la testa e regalala all’Onu perché capiscano quanto è vivo il nostro spirito».
Quello stesso spirito tenace più di mille occupazioni e di mille divieti. Capace di unire nelle divisioni, perché come disse Sua Santità XIV Dalai Lama ai bambini in partenza per Mussoorie nel 1960, «Voi siete fiori che stanno per sbocciare e noi faremo del nostro meglio per proteggervi e farvi fiorire. Siate amici e uniti tra voi».

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