"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
lunedì 21 febbraio 2011
Bocchino: «Serve uno shock contro la cloroformizzazione politica»
Da Ffwebmagazine del 20/02/11
«Il reincanto della politica? Per farlo occorre uno shock socio-culturale al Paese, solo così si potrà azzerare quella cloroformizzazione della politica che ha imperato nel recente passato». Italo Bocchino sveste per un attimo i panni di neo-vicepresidente di un partito e si addentra in una conversazione che, prima di essere politica, ha tratti spiccatamente sociali. E per allontanare quell’“accanimento terapeutico” verso un periodo storico di cui, ormai, scorrono inesorabilmente i titoli di coda.
«Decidetevi a non servire - scrisse Etienne de la Boetie - e sarete liberi»: crede che il seme della partecipazione e del dissenso costruttivo, lanciato più volte da chi sta impegnandosi per un nuovo immaginario politico, possa diventare un arbusto rigoglioso? E per far mangiare ai cittadini di domani quei preziosi frutti di libertà?
Per ottenere un arbusto rigoglioso non è sufficiente né il seme né il seminatore, serve un terreno fertile e arato. Oggi esso non è in buone condizioni, perché dal ’94 si è costruita una seconda Repubblica claudicante, dove è venuto meno il pilastro principale, ovvero il sistema delle regole. Che va scritto proprio all’inizio di una transizione. Il grave errore di aver fallito alcuni tentativi, tra cui la bicamerale D’Alema, ha fatto sì che quel terreno oggi sia oggettivamente arido. Con il rischio che un buon seminatore e un buon seme non siano sufficienti. Per questo riteniamo di avere il seme, ma sappiamo anche di dover prima preparare il terreno, rendendolo pronto ad accogliere quel seme.
Come strutturare un cambio di passo, anche in chiave europeistica, magari sganciandosi da quella politica con lo specchietto retrovisore, che non programma con lungimiranza e che fa di tutto per non procedere ad ampio respiro?
Dovremmo generare un sistema che esca dal contingente. Per farlo servono due grandi sforzi: il primo, interno ai partiti, un profondo ricambio generazionale, nuove energie per una politica meno sclerotizzata. Che badi agli scopi prima che alle ideologie, più concreta e meno rissosa. In secondo luogo, occorre un’infrastruttura capace di valorizzare i progetti, rendendoli tangibili. Oggi abbiamo un panorama ingessato in primis dal fatto di essere vecchio, e la via di uscita potrebbe essere in una grande riforma. Siamo chiamati a rafforzare il potere di chi è chiamato a governare, ma anche quel contrappeso che fa da imprescindibile controllo: solo così otterremo un sistema adeguato al cambiamento. Ma i primi a dover cambiare sono proprio i partiti, che dovrebbero aprirsi alle intellighenzie, e non limitatamente alla società civile. In quanto non sarebbe saggio condannare i politici di professione, dal momento che nessuno di noi si farebbe operare alla milza da un elettrauto, né farebbe rimettere a posto la propria auto da un gastroenterologo. A questo proposito, va rafforzata la meritocrazia nella politica, inserendola come un qualcosa che purtroppo negli ultimi anni è stata mortificato. Per intenderci, la politica si uccide da sola quando la Minetti viene preferita ad altri. La selezione politica o avviene sul merito o sul consenso: un’altra via porta al caos.
Per certa destra sarebbe forse utile rileggere Dag Hammarskjold, secondo cui «merita il potere solo chi ogni giorno lo rende giusto». Come ovviare a quella concezione che, nei fatti, ha svilito quel potere, in una visione quasi medievale?
Il potere va esercitato dal momento che i corpi sociali del Paese necessitano di un timone che amministri il potere, ma deve essere attuato da chi merita di farlo, in virtù di capacità, competenze, excursus. E che possa essere sotto osservazione, come non lo sono quegli interpreti che non sono scelti dai cittadini. Il grande vantaggio di alcuni sistemi pienamente funzionanti, come il presidenzialismo americano, o il semipresidenzialismo francese, o quello regionale di casa nostra, è di essere legittimato temporalmente dal voto ricevuto. Solo così si genera il meccanismo del ricambio automatico. Esiste una criticità sistematica, con il rischio che il potere vada solo a chi l’ha saputo gestire nella consorteria.
Destra in passato ha fatto rima con franchezza. Oggi dovrebbe essere ancora di più sinonimo di rigore, attenzione sociale verso le aspirazioni giovanili: come costruire modelli comportamentali liberi ma dignitosi, per quella fetta di italiani che in questi anni si sta formando e che vede smarriti punti di riferimenti alti a cui ispirarsi?
Li individuerei in quei principi messi a rischio da ciò che è accaduto negli ultimi dieci anni. Al primo posto, la nazione: siamo in un Paese dove si sbeffeggia una festa nazionale, l’onore che si deve alla propria storia. Sarebbero dovuti essere proprio gli ex An a presentare una mozione di sfiducia contro i ministri Bossi e Calderoli, ma solo se avessero dimostrato identità politico-culturale di destra. Quando Roberto Benigni ha spiegato chi era Mameli, con quali compagni aveva fatto ciò che ha fatto, declamandone l’inno e le gesta, ha servito l’idea di nazione. Ai più giovani direi che nazione non è un costume patriottico, ma un’unità di destini, un grande futuro a cui puntare con il rispetto verso il grande passato. Destra inoltre deve significare legalità: penso a un guscio che contenga una molteplicità. Un’idea estremista, come quella rappresentata oggi da Pdl e Lega, ha voluto far credere agli italiani che legalità fosse sinonimo di sicurezza e basta. Ne è risultato un tentativo di far leva sulla paura dei cittadini. Noi, da destra, dovremo spiegare la legalità facendo leva invece sul coraggio: da un lato, chiedendo alla politica una nuova etica pubblica, dall’altro, a tutti gli italiani il rispetto dell’altro, della cosa pubblica. Un concetto che la finta destra al governo non intende veicolare, non potendo nei fatti parlare di etica pubblica, di interpretazione della sicurezza e anche di etica privata. Dal momento che essa vuol dire far capire ai cittadini che non devono sentirsi legittimati a evadere il canone, o le tasse, a condonare tutto e tutti. In terzo luogo, una grande risposta culturale ai mali del Sessantotto, dove c’è stata una forte rivendicazione dei diritti, trascurando i doveri. Noi, da destra, mentre rispolveriamo con i giovani una stagione di meritocrazia, dobbiamo riprendere in mano il libro dei doveri.
L’ascolto è uno strumento che sino a oggi certa politica ha relegato a fastidioso contorno: una destra alta e matura, come può aiutare le pulsioni sociali a tramutarsi da proteste in proposte?
Riscoprendo quel collateralismo che nei decenni passati la politica aveva (e che ha) abbandonato. Un po’ per la crisi di alcuni mondi, penso alla sinistra e al sindacato, alle cooperative, all’universo dell’associazionismo. Un legame naufragato, con il sindacato che ha iniziato a fare rivendicazionismo, le cooperative come nuove Holding, le associazioni inquadrate come lobby. Penso che da destra debba nascere un collateralismo con la società e le associazioni, perché canali di ascolto principali per la politica. Oltre alla rete, interfaccia principe per parlare con i giovani. Qualcuno sta teorizzando che sia eccessiva una politica che passi dal web, invece, credo che le idee e i valori della politica possano essere trasferiti anche con i nuovi mezzi tecnologici comunicativi.
Ritiene che la nuova destra del mare aperto riuscirà a mettere da parte scenografie mediatiche della felicità fondata su falsi miti? Quelle stesse inscenate da contenitori che allontanano il reincanto della politica.
La felicità è uno stato che va raggiunto con impegno e sacrificio e non è né stabile né perenne. Dovremmo evitare una deriva completamente ilare in cui “Tutto va ben Madama e la Marchesa”. Né, di contro, essere pericolosamente pessimisti, ma lavorare per far capire che livelli migliori sono raggiungibili con dedizione e all’insegna di uno sforzo collettivo. Non con le scorciatoie.
Ha scritto Benjamin Constant, in un’analisi quanto mai attuale, che il rischio della moderna libertà è che rinunciamo «con troppa facilità al nostro diritto di partecipazione al potere politico». Tale rinuncia è prima ideologica o politica? E come ribaltare il piano di azione? Magari facendo scoccare il gong anche per quei contributi culturali che dovrebbero recitare un ruolo più attivo?
Il tema è quello della partecipazione. Abbiamo assistito negli ultimi anni a una cloroformizzazione dell’opinione pubblica, per cui il messaggio del ghe pensi mi è stato deleterio. Se chi deve modulare i pensieri dei cittadini utilizza il canone della falsa rappresentazione del racconto, ecco che si affievolisce la capacità critica della gente. In Italia, abbiamo registrato la teoria scientifica della rana che in una pentola di acqua bollente schizza fuori e si salva. Mentre se fosse in una pentola di acqua fredda e si accendesse pian piano il fuoco, la rana nuoterebbe sino a quando la temperatura dell’acqua, calda, le facesse mancare le forze per reagire e la conducesse a morte certa. E allora al Paese occorre uno shock, come i fatti recenti che nell’opinione pubblica stanno causando alcune reazioni. Sono evidenti le difficoltà finanche di etica, di rappresentanza, di immagine al di fuori.
Tramontate le ideologie con la caduta del muro, abbiamo dinanzi a noi la sfida della globalizzazione: perché certa politica ritarda quel racconto-mondo? Per limiti strutturali o per paura di doversi confrontare con un universo sconosciuto, che quindi le farebbe sorgere dubbi e interrogativi?
Il superamento delle ideologie è da considerarsi un fatto positivo, in quanto quella morte può far nascere le idee. Vere. Anche condivise, perché no. La contrapposizione forzata di due tifoserie ha prodotto danni enormi, invece dovremmo andare alla ricerca della contaminazione di pensieri che poi si tramutano in fatti. Senza timori, degli altri e di noi stessi.
Pinuccio Tatarella, teorico dell’andare oltre, riteneva che i tempi in politica fossero tutto: quindi iniziare una traversata nel deserto proprio oggi, con difficoltà macroscopiche che allontanano, come una selezione naturale, i deboli e gli influenzabili, non potrebbe rappresentare il vero punto di forza di Fli?
Un’epoca si chiude, attendiamo solo che vengano mandati in onda i titoli di coda. O tra due giorni per disavventure giudiziarie, o tra due mesi per rottura con la Lega, o tra due anni per la fine della legislatura. Ma conta poco. Perché siamo in una fase di accanimento terapeutico verso il governo, che porta a una sterile serenità di coscienze ma che poi non si traduce in risultati per il Paese. Noi invece offriamo un progetto alternativo che, nel post berlusconismo, incontrerà inevitabilmente i favori dell’elettorato. E il fatto di aver scelto coraggiosamente l’oggi, è certamente difficile e altamente impegnativo. Ma è una scelta che allontana dagli equivoci: in ciò risiede la sua bontà.
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