lunedì 14 febbraio 2011

In mutande ma vivi? E allora meglio feriti ma dignitosi


Da Ffwebmagazine del 12/11/11

C’è chi si sarebbe aspettato di meglio, chi sapeva benissimo dove sarebbe andato a parare. Ciò che invece fa assumere contorni sbiaditi alla manifestazione milanese voluta da Giuliano Ferrara, è l’ingenua deriva che il suo organizzatore ha voluto imprimerle. Quasi che si beasse della mediocrità di altri spin(k) doctor, quando invece avrebbe dovuto segnare la differenza, in considerazione della propria intelligenza, oggettivamente di altra levatura. E invece l’appuntamento per antipuritani “In mutande ma vivi”, un comizio vecchio stile con dotti rilievi e basta, ha detto niente altro ciò che il capo ha deciso di far dire. Facendo passare il messaggio, abbastanza modesto, del “tutti sbagliano”, quindi nessuno giudichi.

“Un modo indecente di predicare la decenza”, sloganeggia Ferrara, citando anche quella massima kantiana, secondo cui da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire niente di perfettamente dritto. Ma, sarebbe il caso di aggiungere, nemmeno nulla di drammaticamente così anomalo. Dice che sarebbe il caso di “riconsacrarsi alla libertà personale”, per controbattere quel germe che si è voluto instillare, distinguendo di fatto “cittadini di serie A da cittadini di serie B”.
Un po’poco, in verità, per strutturare un ragionamento che, considerato lo spessore dei convitati, avrebbe potuto essere decisamente diverso. Ma Ferrara, o chi per lui, ha deciso così, e quindi giù insulti ai magistrati (non tutti per fortuna) che usano strumenti e procedure “scandalose” per arrivare a certe conclusioni. Che dovrebbero essere “più leali” verso fatti e circostanze. E ancora: “Chi sono io per giudicare moralmente Berlusconi? Un procuratore della Repubblica?”. Slogan vecchi di tre lustri, come gli attacchi al gruppo Repubblica, colpevole di divulgare voci e frasi, in un focoso calderone di puro sdegno dove si arriva a teorizzare che sia un “peccato mischiare cose private che appartengono a quella fatica di una morale laica, con reati che vengono inventati”.

Intanto è utile ricordare all’Elefantino che solo la giustizia dirà se i reati siano o meno stati inventati, ma il punto non è questo: lascia stupiti l’impianto della mattinata milanese, dove si vuol veicolare il messaggio che nessuno è colpevole e tutti sono innocenti. Un modus niente affatto liberale, dove il senso del rispetto, prima che della legge, viene calpestato in nome di un non meglio precisato antigiacobinismo e anti roberspierrismo che in passato “tante teste hanno tagliato”. Dove sono gli spunti veramente liberali che, ad esempio, comportano il rispetto della libertà altrui, prima che della propria?
Qui nessuno vuol tagliare la testa a chicchessia, ma non per questo si deve sentire investito del potere di giustificare un atteggiamento antieducativo dove lasciare correre tutto a uno solo. E per il gusto di chi ha commesso una mega marachella e vorrebbe farla franca, facendola pagare magari ad altri, o amnistiando tutto e tutti. Ma il meglio, o il peggio di questo abbecedario del permissivismo antisociale andato in scena al Teatro Dal Verme, il direttore del Foglio lo riserva quando traccia un affresco delle giovani donne “offerte al drago” (copyright Veronica Lario).

Arriva per giunta a dire che “il Paese cresce con quelle ragazze”, in quanto ormai fanno parte del sistema televisivo, del circo mediatico delle trasmissioni leggere. Ne ha anche per Lele Mora, l’agente “delle ragazze che vogliono fare la tv e dei ragazzi che vogliono fare i tronisti: che male c’è- si chiede- dovrebbero cambiare mestiere?”. Ecco l’azzardo sconclusionato di chi, poi, produce e si rallegra dei sogni dei teenager di fare i tronisti o le schedine (con tutto il rispetto, s’intende). Ma un momento dopo si getta a capofitto nella, questa volta sì giacobina morale da intellettuali part- time. Prima si illude un Paese sul senso di rinascita, sull’importanza della formazione, della meritocrazia, dello straordinario bagaglio culturale che questo territorio ha nel proprio dna.

E poi, imbeccati dal capo di turno, si scivola sulla buccia di banana di un panorama effimero quando surreale, dove un tessuto sociale arriva addirittura a “crescere” grazie all’illuminato contributo di starlette e pseudo opinioniste in attesa di una candidatura che conta.
No, è stata tutta una farsa, lo dicano magari a quarantott’ore dalla manifestazione, perché no facendo passare un paio di giorni e gridando al Paese: “scusate, abbiamo scherzato, siamo buontemponi che volevano trascorrere un sabato mattina di burle”. Contrariamente, al titolo “In mutande ma vivi”, ci permetteremmo di obiettare, senza etichette o particolari appartenenze, che forse scegliere un’altra strada, ma dignitosa, sarebbe molto, ma molto meglio. Per tutti.

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