Dal Secolo d'Italia del 27/02/11
Il deserto come metafora geosociale. Dove popoli valorosi e determinati hanno abbracciato cambiamenti epocali grazie a traversate storiche. Come un bivio di un’era geologica che è definitivamente lasciata alle spalle. Dove i coraggiosi, quelli che osano e che alzano lo sguardo, puntano non solo alla prossima oasi, ma al traguardo finale, alla posta in palio più alta. Alla terra (politica) promessa, alla nuova frontiera anche di quell’immaginario a cui in tanti anelano. Dove giungere faticosamente ma soddisfatti, dove nidificare per poi ripartire, dove contano i chilometri percorsi, i tornanti della storia affrontati. E non le stazioni intermedie, le oasi fasulle figlie delle allucinazioni di sguardi svogliati e comodamente rassegnati allo status quo. Il deserto sempre amato da Antoine De Saint-Exupery, che scrisse “ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio.”
Il deserto come selezione naturale darwiniana delle forze in campo. Perché solo i forti, i determinati, gli interpreti con la schiena dritta e con lo sguardo che va oltre, hanno le carte in regola per concludere quella traversata. In quanto dotati degli anticorpi imprescindibili per non affogare nelle sabbie mobili, per non girarsi indietro ed essere colti da deleteri ripensamenti, per non farsi ammaliare dagli argenti e dagli ori dei venditori del nulla giunti, dopo l’ennesima duna, in cerca di affari facili e con il megafono in mano. Il popolo che attraversa il deserto è compatto, unito: si è liberato finalmente delle zavorre, dei falsi compagni di avventura, dei pesi morti che non camminano ma si trascinano stancamente. In attesa non di cambiare legittimamente meta, bensì di fare inversione al solo fine di aggregarsi più comodamente a quella corte illusoria che offre certo ristoro, che bighellona in eterno, senza fremiti emozionali, senza spunti, senza programmi, se non quello di una dorata ma abulica sopravvivenza e nulla più.
Il popolo viandante in quel solco che lo distanzia da una uova vita, è gioioso della fatica che sta per compiere. Orgoglioso delle eccellenze che albergano in quella carovana, da valorizzare, da sfruttare, strutturare internamente come architrave sociale dove far scorrere l’entusiasmo del viaggio, dell’impresa, dell’evento. Perché di macro-evento si tratta, e non di gita fuori porta o di comodo tragitto da affrontare in carrozza. Eccola la differenza, quel fiume carsico di idee e di lucida pazzia presente nelle menti e negli occhi di questi eroi. Che rappresenta la scintilla, il fulcro di un’intera esistenza, ancor più rilevante del momento in cui la meta è raggiunta.
Ma chi sono i protagonisti storici di quella cavalcate? Mosè che aiuta il popolo ebraico a sganciarsi dalla schiavitù del Faraone, in una vicenda storica dove si intrecciano luci e promesse, con la traversata sino alla terra promessa. E ancora, simbolo da sempre della più grande distesa di sabbia del pianeta, il Sahara, sono i Tuareg, popolo che per millenni è stato identificato come sinonimo di vita a quelle latitudini. Da secoli percorrono le piste sul dorso di resistenti dromedari. Chiamati anche “uomini blu” in virtù del velo che indossano per difendersi dalla sabbia e dal caldo. Ma per quattromila anni un altro popolo ha percorso in lungo e in largo quella distesa. Valorosi e senza timore, si chiamano Beja, definiti anche “Fuzzy-Wuzzies”, a causa dei loro capelli crespi. Nella loro storia hanno resistito alle avanzate di Greci, Egiziani, Romani, riuscendo addirittura ad avere anche la meglio sugli inglesi in una storica battaglia del XIX secolo. Un’impresa.
Ma quali sono gli “altri” deserti dell’umanità? Luoghi dove popoli e speranze si sono avventurati, per scoprire, per ricercare, per solcare, o inserirsi tra le aspirazioni del nuovo. Ecco l’ambiente dello spazio, dove nuovi pianeti si scoprono solo esplorando, cominciando un viaggio ed attrezzandosi al meglio. Il pensiero corre alla Luna, a quella prima affascinante osservazione da parte della sonda sovietica Luna 3 dell’ottobre 1959, quando venne messa in orbita attorno alla cosiddetta “faccia opposta alla terra”. Ancor di più alla prima passeggiata lunare di Neil Armstrong, comandante dell’Apollo 11 il 20 luglio del 1969. Timori? Tentennamenti? Ripensamenti? Forse un minuto prima di partire per quel viaggio, ma subito dopo azzerati dalla voglia di avventura, dal tentativo di andare a vedere cosa c’è dietro l’orizzonte, che scenari si nascondono, quali opportunità si aprono, quanti interstizi esistono.
O per restare alla terra, semplice ma spartanamente chiarificatrice, si prenda la transumanza, quella migrazione stagionale delle greggi dalle zone più collinari e montuose, a quelle litorali maggiormente pianeggianti. Effettuata sui famosi tratturi, vecchi sentieri che guidavano sottotraccia questo vero e proprio viaggio, che durava molti giorni, con soste in siti prefissati, denominati “stazioni di posta”. Una pratica, quella dello spostamento come necessità imprescindibile, che è stata oggetto anche di ispirazione letteraria, come la poesia “I pastori” di Gabriele d’Annunzio, quando scrive “Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare”. Per poi descrivere intimamente la provenienza del conforto di quel viaggio, quando delinea che “Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d'acqua natía rimanga ne' cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via.” Dove ormai non si può tornare indietro.
Come indietro non tornarono i reduci della guerra di Troia, in una plastica raffigurazione di deserto offerta dal mare aperto. Inteso come nuove e vantaggiose terre, raggiunte tramite la lunga e difficile navigazione, coraggiosa e controvento in nuove acque. Pochi furono i sopravvissuti dopo il sacco della città, pare infatti che gli dei fossero adirati per la distruzione dei loro templi e a causa dei sacrilegi nei loro confronti perpetrati dagli Achei. Nauplio, ad esempio, padre di Palamede, architettò delle false luci guida sul capo Capareo, ingannando in tal modo la rotta di moltissime imbarcazioni che finirono per naufragare.
Il caso più noto di neoricostruzione post peregrinazione è quello di Enea, che fuggì dalla Troia in fiamme assieme al figlio Ascanio, al padre Anchise, al trombettiere Miseno ed allo scudiero Acate. Ma non con sua moglie Creusa, perita durante le ultime battute del sacco. Prima progettarono di dirigersi a Creta, ma lì una feroce pestilenza li deviò verso le colonie di Andromaca ed Eleno. Sette anni dopo eccoli sbarcare a Cartagine, dove Enea si legò alla regina Didone che tempo dopo, appreso il fatto che Enea dovesse proseguire il viaggio, colta da disperazione si suicidò. In Italia Enea fondò la città di Albalonga, ma prima chiese in sposa Lavinia, figlia del re locale Latino. Ciò scatenò una guerra civile, che vide Enea fronteggiare Turno, altro pretendente di Lavinia, che però ebbe la peggio. Proprio da Ascanio e Silvio, figlio avuto con Lavinia, discesero Romolo e Remo.
Non solo Enea, ma si pensi a Teucro, figlio di Talamone e fratello di Aiace il grande: fu mandato in esilio dal padre e non gli fu consentito di tornare nella sua Salamina. Fu anche condannato per non aver riportato in Patria il corpo e le armi del fratello eroe. E allora virò a sud verso Cipro, dove fondò una città e le diede il nome di Salamina, in onore alle sue origini.
Ancora Italia, questa volta nei pertugi delle vicissitudini di Filottete, che esiliato anch’egli dalla propria terra (triste evento comune a chi osa), si diresse a ovest verso la Calabria, dove fondò alcune città fra cui Crotone. Ed erigendo un tempio dedicato ad Apollo Vagabondo nell’attuale Basilicata, che i greci e i cittadini locali ancora oggi chiamano con l’originale nome di Lucania. Lo stesso Agapenore fondò Pafos a Cipro, Guneo di Orcomeno governò la Libia, Idomeneo lasciò Creta e si stabilì nell’odierna penisola Salentina. Mentre Diomede, altro nome che si interseca con il mezzogiorno d’Italia, fondò Brindisi e Benevento.
Personaggi, animi nobili: tutti accomunati da una criticità iniziale, che li porta ad affrontare l’ignoto per giungere al di là. Perché in fondo come ha scritto John Steinbeck “le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone.” I metri di ansia percorsi, le cadute, le sbucciature sulle ginocchia, i granelli di polvere che riempiono, copiosi, i vestiti. Il cammino, come inteso nelle righe di una canzone di Ruben Blades, quando dice che “Camminando si apprende la vita. camminando si conoscono le persone. camminando si sanano le ferite del giorno prima. Cammina, guardando una stella. ascoltando una voce, seguendo le orme di altri passi. Cammina, cercano la vita, curando le ferite lasciate dai dolori. Niente può cancellare il ricordo del cammino percorso.”
Neanche nell’ipotesi in cui risultasse affannoso, difficile, impervio, arduo. Anzi, sarebbe proprio quella summa di avversità a farlo epico e stoico. E allora ecco tornare il deserto come humus dove far germogliare un frutto: “Se canti la bellezza, saresti ascoltato anche se ti trovassi nel cuore del deserto”, disse Khalil Gibran. Puntando sullo scopo, sullo strumento con il quale giungere alla tanto agognata meta.
Ma l’incontro subliminale tra deserto ed elemento acqua, come per magia, non può che ritrovarsi in un memorabile dialogo firmato da Jules Verne ne Ventimila leghe sotto i mar: “Prof. Arronaux: Voi amate il mare, capitano? Nemo: Sì! L'amo! Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre. Il suo respiro è puro e sano. È l’immenso deserto dove l'uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé. Il mare non è altro che il veicolo di un’esistenza soprannaturale e prodigiosa; non è che movimento e amore, è l’infinito vivente, come ha detto uno dei vostri poeti. Infatti, professore, la natura vi si manifesta con i suoi tre regni: minerale, vegetale, animale”.
Perché il percorso di avvicinamento a quella terra, le vesti incottate dai raggi di sole del deserto che bruciano le pelli, gli ettolitri di sali minerali lasciati lì sulla sabbia in gocce, sono l’essenza stessa di quel trionfo. E’il tragitto intermedio che forgia i viandanti, sono le condizioni straordinariamente avverse che elevano spiriti ed intenzioni, è il digiuno da luccichii e da scintillanti orizzonti che innesca la voglia di riscatto. Come prescriveva quel proverbio tibetano, “quando c’è una meta, anche il deserto diventa strada.” Ecco l’immagine prismica dell’obiettivo, ecco che la raffigurazione mentale di una meta, della nuova politica dalla dimensione europeistica, meravigliosamente moderna ed affabile, che viaggia sui social network e tramite loro ascolta le pulsioni della gente. Il racconto di quella rappresentazione, così bella, di una politica finalmente empatica, ecco che si staglia in fondo all’orizzonte della meta da raggiungere.
E allora se la traversata nel deserto che la nuova politica di Fli ha orgogliosamente iniziato, con i rischi che ne conseguono, con le delegittimazioni, con gli scippi, con i bastoni fra le ruote del viaggio, con gli attacchi, vili, beceri, alle spalle. Se quella navigazione verso il mare aperto è stata avviata da ormeggi mollati e da porti sicuri ormai alle spalle, non ci resta che guardare avanti, ben oltre le prossime dune. Con fiducia, certi che della carovana faranno parte da oggi solo i “consapevoli”: coloro che, come i Trecento spartiati agli ordini di Leonida, in un fazzoletto di terra alle porte di fuoco delle Termopili, non temevano di andare incontro a testa alta ad un’impresa.
Mentre i “disponibili”, essendo andati altrove, non potranno per loro sfortuna vedere e toccare quella terra promessa.
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