Da Ffwebmagazine del 10/02/11
Pare che in viale Mazzini, adesso, si tema una telefonata in diretta durante il programma mattutino della Clerici, forse per consigliare ricette gradite al capo. O designazioni apicelliane sul palco dell’Ariston, con il Festival di Sanremo alle porte. Sorridere serve, dunque, a sdrammatizzare una tragedia tutta italiana: dove la politica irrompe con la grazia di un pachiedrma anche nei palinsesti di programmi leggeri. Perché ha paura. Di guardarsi allo specchio, di scoprirsi brutta e cattiva, di vedere riflessa un’immagine becera, degna dei regimi passati e del passato a cui tanto si proclama orgogliosa di non appartenere. E che invece fa proprio ciò che dieci lustri fa si faceva nella redazione della Pravda, o nei concitati momenti che precedevano certe trasmissioni nel tubo catodico sottomesso al Pcus.
Il fatto che sia stato deciso (o forse imposto) di non mettere in onda i sette minuti del film Il Caimano durante il programma “Parla con me”, non è solo stomachevole da un punto di vista meramente giornalistico. Ma fa ancor più ribrezzo dal punto di vista “umano”. Qui c’è qualcuno che se ne va in giro con la cesoia in mano, sventolando il possibile taglio, o la probabile eliminazione, agitando il silenzio come un vessillo di potere buono per ogni momento della giornata. Silenzio che spesso viene attuato, per via dell’assenza di check and balance efficaci all’interno della televisione di Stato, nonostante commissioni e commissari. Qui c’è qualcuno che vorrebbe ridurre al silenzio tombale chi è sfiorato dall’idea di dire altro, di eccepire, di far vedere, di far conoscere fatti per far formare opinioni. Chiudere microfoni, spezzare fili, ingabbiare l’etere sembra sia diventata la parola d’ordine dalle parti del fu Pdl. Una deriva ancora peggiore di ciò a cui in questi ultimi sei mesi abbiamo assistito, tra inseguimenti sotto l’ombrellone e segugi sguinzagliati negli outlet di mobili e cucine. Senza dimenticare il silenzio imposto per legge in occasione delle ultime consultazioni regionali.
Si scorge, all’orizzonte della res publica, e ormai drammaticamente vicina, l’armata del silenzio, espressione di quel vecchiume antilibertario che oggi intende svuotare di contenuti le parole, stringere bavagli attorno labbra che bramano dalla voglia di gridare. Viene alla mente l’archivio segreto di Jimmy Hoffa, il potente sindacalista americano nell’era Kennedy, che tutto controllava e che tutti temevano. A cui era sufficiente un’inflessione dello sguardo per incutere timore o far trasparire un’allusione. Come quella andata in onda qualche sere fa sugli schermi del Tg4, dove il direttore Emilio Fede, coinvolto nel Rubygate e indagato, ha detto rivolto ai colleghi, di “stare attenti, perché tutti hanno scheletri nell’armadio”. Far intendere, ammiccare, minacciare sembra essere diventata la nuova frontiera della comunicazione berlusconiana, che presenta da un lato la faccia sorridente e pink di Signorini, maestro nello svuotare i fatti in chiave rigorosamente gossippara. E invece dall’altro ecco un momento dopo imbracciare il manganello della censura.
Lontani i tempi del partito dell’amore, adesso si è sfoderata la scimitarra. Ma a che scopo? Sarebbe interessante chiedere a qualche corrispondente estero in Italia, meglio se statunitense o australiano, cosa pensano al di là dell’Oceano di questo stato delle cose. Se è normale o meno che il capo di un governo tema che il potere giudiziario svolga il suo compito nel migliore dei modi. O che sia colto da stati di ansia in occasione di trasmissioni di inchiesta, come quelle che per fortuna ancora vanno in onda sugli schermi della Rai.
Ma forse varrebbe la pena di rivolgere questa domanda amletica a quegli interpreti che oggi siedono in quell’esecutivo, e che come soldatini ubbidienti, ripetono a memoria la stessa filastrocca pro-padrone.
E che solo ieri si dicevano difensori della legalità, della giustizia, del merito, delle eccellenze italiane. A questa armata del silenzio, non si può che rispondere con le parole di Daniel Stern, secondo cui «quando tutti i pericoli fossero nella libertà e tutta la tranquillità nella servitù, io continuerei a preferire la libertà: perché la libertà è vita, e la servitù è morte».
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