Da Ffwebmagazine del 13/02/11
C’è qualcuno che vuol far passare un messaggio pericoloso: che discutere di pedagogia civile equivalga a fare del becero moralismo da puritani. C’è qualcuno a cui, pare, fa comodo evitare giudizi di colpevolezza, perché “tutti in fondo hanno qualcosa da farsi perdonare”. C’è qualcuno che sta dolosamente facendo coincidere il rispetto per le regole della civile convivenza con un certo bacchettonismo antilibertario. A questo qualcuno, gioverebbe ricordare che non è cosa buona e giusta confondere idee e parole, in questa fase che altro non offre se non una chiara crisi del racconto. Imbrogliando nomi e termini, concetti e rilievi, per il gusto di difendere la barricata dove si annida l’errore.
E allora si vuol fare passare per moralismo quello che invece è un normale scambio di principi educativi, che attengono niente altro se non alla pedagogia civile. Indispensabile per educare ed educarsi. A tutto questo ha fatto riferimento Gianfranco Fini in un passaggio del suo discorso di chiusura dell’Assemblea costituente di Fli, quando ha rilevato che «non è moralismo, retorica, demagogia, dire che ai nostri figli non possiamo soltanto insegnare che conta quanto guadagni, se riesci a farla franca, se qualcuno ti aiuta a non pagare dazio». Perché sono ben altri i valori a cui tutti, e non solo la politica, devono ispirarsi. «Non è moralismo dire che non tutto è denaro ma bisogna impegnarsi con il lavoro, con il sacrificio, senza scorciatoie».
Gli esempi, dunque. Perché è inutile sperare di far chiudere un occhio, o magari tutti e due, così che gli altri interlocutori annuiscano e si crogiuolino in cotanta depravazione socio-culturale. No, non c’è proprio nulla da ridere davanti a concezioni maschiliste medievali, a reclutamenti professionali fatti ad festinum, a scelte di candidature politiche operate in maniera che definire scorretta è poco, mortificando la meritocrazia e le qualità dei singoli, a tentativi di sfuggire al mea culpa e all'assunzione di responsabilità: insomma, c'è poco da ridere davanti alla verità dei fatti e delle cose.
Ecco il modello fuorviante che crea migliaia di fantasie e di aspettative di carta, pronte a crollare sotto il peso non di fantomatici agenti esterni, non di complottisti pronti alla spiata, non di terzisti impegnati spasmodicamente nella battaglia contra: ma semplicemente a causa della realtà, della vita vera che non è fiction, ma drammaticamente reale, dove non si può fuggire all’infinito, nascondendo derive, mistificando fatti, inventando parentele, illudendo su un modello professionale che non ha futuro, perché basato sugli umori del capo e nulla più.
Fini completa il suo ragionamento sostenendo che «non si può prescindere dal dovere di far coincidere con la politica l’etica». Ecco la fantomatica e, per alcuni, fastidiosa parola che sta imperversando nei dibattiti pubblici, e anche privati. Come sottolineato tempo fa dal Capo dello Stato «le istituzioni hanno bisogno del necessario rispetto». In primis da chi le rappresenta, da un’umile ossequio verso quegli scranni, quelle immagini, quelle raffigurazioni che incarnano il biglietto da visita di una classe dirigente e, quindi, di un intero Paese. E perché no, anche di un popolo che da essi è rappresentato.
Per questo il Presidente della Camera, riferendosi alle note vicende del caso Ruby sottolinea che rappresentano «motivo di dolore per tutti gli elettori che si identificano anche all’estero con il centrodestra ed è anche motivo di imbarazzo per molti dirigenti del Pdl visto che siamo diventati lo zimbello del mondo occidentale per comportamenti che nulla hanno a che vedere con le dinamiche politiche».
E allora vale la pena di ricordare un’altra massima, scritta da Joseph Joubert, secondo cui i giovani “hanno più bisogno di esempi che di critiche”. Ecco il ruolo pedagogico della scuola, dell’universo della formazione, dei giornali, delle case editrici, ed anche della politica. Che non può ipocritamente tifare per il rispetto della legge, per l’osservanza dei buoni principi e poi scoprirsi socialmente depravata, incline a quella strizzatina di occhi che, nei fatti, è peggiore di altri ben più efferati reati. Perché è complice, perché sparge il germe del caso, affrescando una terra di nessuno dove tutto è consentito a tutti solo perché lo ha fatto il capo. Dove la rettitudine di grandi nomi della politica italiana che tanto lustro alla Nazione hanno dato, per tutti De Gasperi, Einaudi, non può essere paragonabile ad una sorta di scuola della mistificazione dei costumi. A cui in questi mesi si è assistito.
E che non solo si è resa protagonista di spiacevoli comportamenti in sé, ma che sta cocciutamente cercando di far passare il messaggio che ribellarsi a questo schema è da puritani. È questo il passaggio su cui obiettare, anche per non consentire che la nostra mente, come ha detto Amartya Sen, “sia divisa in due da un orizzonte”.
Ma è tempo di affrontare a testa alta quel panorama che si staglia dinanzi alla strada di ognuno, e di affrontarlo con coraggio e a viso aperto, consapevoli di aver compiuto il proprio dovere. Senza scorciatoie.
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