lunedì 18 ottobre 2010

Come ti racconto la "Nouvelle vague" pugliese


Da Ffwebmagazine del 17/10/10

Versi, schizzi di parole, elaborazioni d’autore, o di autori. Su quali latitudini e longitudini mentali far passare la carovana dell’apprendimento, sui tratturi di una regione ricca di storie e favelle? Possono tre volumi agili e impregnati di identità al contempo locale e globale, offrire lo spunto per descrivere il tessuto socio-letterario di una terra? Sì, se si sforzano di tracciare rotte e di spianare strade già battute, ma declinandole al futuro.

Filippo La Porta in È finita la controra, la nuova narrativa in Puglia, illustra la cosiddetta Nouvelle Vague pugliese. Con diciannove autori, nati tra il 1956 e il 1986, che tracciano le coordinate migratorie di una regione da sempre miscellanea di identità e culture. Il punto cardinale del Mediterraneo dove sono approdati coloni, fuggitivi, viaggiatori. E da cui sono salpati crociati, marinai, artisti. In cerca di qualcosa o di qualcuno, spesso in cerca di se stessi o di successo, i primi e i secondi, ma accomunati da un unico lembo di terra. Dove abbondano le contraddizioni, le disomogeneità, le differenze. Dove si incontrano e si scontrano opposizione e fascino alla modernità. Un pout pourri di sensazioni e di idee.

Come quelle intrecciate, diversamente, nel volume di Pietro Mita Rosso Novecento, la Puglia dai cafoni ai no global. Un libro locale che guarda al globale, dove si racconta il secolo che inizia a fare da sé, su cui non spira più il vento del nord. Con importanti testimonianze di lotta politica, in ambito sindacale e ambientale, con accenni all’intensa battaglia antinucleare portata avanti ad Avetrana. Con l’ausilio di una panoramica di figure minori eppure realissime, affrescate nel “loro stretto radicamento sociale”, come precisa Girolamo De Michele nella prefazione. Di cui l’autore si sforza di interpretarne le proiezioni future. Racconti di cafoni meridionali, la cui ricostruzione è utile per tracciare la genealogia del novecento in Puglia. E non al fine di creare l’ennesimo museo dell’accaduto, ma per sfruttarla come la ricerca dei perché di domani.

Un domani che, per essere compreso e affrontato, non può prescindere da un bagaglio storico definito e preciso: quello che Antonio Debenedetti disegna nel suo Un piccolo grande '900”, con i protagonisti culturali del secolo tratteggiati da un inquieto complice, con idee, spunti, proposizioni. Non un’autobiografia, ma un libro-intervista. L’autore è figlio del critico letterario Giacomo, allievo di insegnanti illustri come Giorgio Caproni e Giuseppe Ungaretti. In quelle pagine ripercorre gli scrittori che hanno frequentato la sua casa, instillando nel giovane Antonio curiosità e stimoli. Giungendo, ad esempio, alla consapevolezza che l’esistenza di un maestro è direttamente proporzionale al riconoscimento come tale da parte di altri. Un bilancio, quindi, da Soldati a Moravia, da Cardarelli a Bellezza, da Fellini a Penna, non per rammentare polverosamente un passato lontano, ma per offrire alle nuove generazioni uno strumento idoneo per affacciarsi alla militanza letteraria. Da cui, poi, generare pensieri e parole in libertà.

Tre volumi, agli antipodi per impostazione e modalità di scrittura. Affini, circa il sottile nesso tra globalità e località. Intrecciati, quanto a voglia di preparare il lettore alla comprensione del futuro prossimo.
Nella consapevolezza che l’ingegneria della cultura va preservata da bacilli mortali, in quanto sarà solo quello slancio ideale che prende il nome di arte, poesia e letteratura che, non solo racconterà un passato e un’identità. Ma farà un passo in più, in quanto curerà il passaggio dall’oggi al domani, da un passato e da un presente già vissuto e consumato, ad un futuro tutto da scrivere. Dove il racconto si farà ancora più prezioso. Perché, come ha scritto Antonio Debenedetti, “la vita che si ha davanti è l’unica vera superiorità che un uomo possa contrapporre a un altro”.

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