mercoledì 27 ottobre 2010

Italia, che fine ha fatto la cultura dell’altro?


Da Ffwebmagazine del 27/10/10

I pizzaioli egiziani rubano il mestiere agli italiani. No, non si tratta di un furto con passamontagna messo a punto da immigrati clandestini, né l’intento espansionistico legato a chissà quali strategie di welfare programmate da uno stato estero. Ma la realtà delle cose, titolata dal dorso campano del Corriere della Sera pochi mesi fa. Non una boutade pubblicitaria ma il vero volto dell’integrazione sul suolo italiano che, semplicemente, c’è già. Nonostante in molti, fra cittadini e amministratori, non se ne siano accorti, o stentino a comprenderne evoluzioni e ricadute sui territori.
Il dato, assieme ad altri che sfatano il tabù degli immigrati come portatori sani di criminalità e deficienze sociali, è al centro del Dossier che dal 1990 la fondazione Migrantes della Caritas redige annualmente. E non allo scopo di aggiungere un’altra pubblicazione alla sterminata produzione accademica nostrana, ma per far comprendere come i numeri parlino più di paure e di interventi anche legislativi di matrice populistica, che su quei timori fondano azioni e provvedimenti. In Italia manca un’ideologia positiva dell’immigrazione, dove più che una forma di assistenzialismo fine a se stesso si rende imprescindibile una tutela della dignità umana. Inquadrata all’interno di una lettura demografica del fenomeno, sia relativamente alle oggettività dei Paesi di origine, sia nei riguardi delle politiche di cooperazione. E che potrebbe prendere corpo se solo la classe dirigente del Paese si sforzasse di valutare analiticamente tendenze e risultati.
Nel 2009 gli immigrati regolari sono aumentati, giungendo alla soglia dei cinque milioni; 250mila i matrimoni misti, 570mila gli stranieri nati in Italia; 100mila gli ingressi annuali per il ricongiungimento; Roma e Milano i Comuni più popolati, con punte del 20% a Porto Recanati e del 30% in provincia di Imperia: numeri che, piaccia o no, parlano più di mille parole.
Solo con tali coordinate sarà possibile aprire le porte alla vera rivoluzione culturale del millennio, ovvero saper accettare il diverso, azzerando gli egoismi, e cavalcando un fenomeno che ha radici lontane nei secoli, che ha solcato con le proprie peculiari diramazioni Oriente ed Occidente. Immigrati erano Enea e i suoi uomini dopo la guerra di Troia, come lo era Alessandro Magno in cerca di nuove frontiere geografiche. Lo era anche Marco Polo, lo erano quegli italiani che a cavallo fra le due guerre mondiali si sono riversati nelle Americhe, raggiungendo il successo e l’integrazione che oggi è palese. Ma immigrati sono stati anche i Romani, quando hanno esplorato, allargato orizzonti e visioni, senza dimenticare il viaggio dell’immigrato Colombo in quella memorabile traversata che lo portò a scoprire l’America. Chi oggi discute e si infervora a proposito dell’immigrazione, insistendo fanaticamente sul pericolo delle frontiere aperte e sui rischi legati alla sicurezza (incluso Borghezio), può essere tranquillizzato dai numeri: gli stranieri delinquono quanto gli italiani, non è vero che rubano il lavoro e le case (senza il loro apporto di manodopera molte aziende avrebbero avuto seri problemi nel circuito produttivo), falso che siano evasori fiscali (basti pensare che il gettito versato annualmente dagli stranieri ha contribuito a risanare i conti dell’Inps), influiscono positivamente sull’intero sistema.

Si pensi che ogni trenta imprenditori italiani, vi è uno straniero: significa che gli immigrati hanno compreso il meccanismo della scalata sociale, che hanno metabolizzato, a volte meglio di qualche italiano pigro, come inserirsi all’interno di ingranaggi complessi. Che si sentono ormai parte attiva sia nel lavoro autonomo che in quello dipendente, grazie a quei 400mila che occupano posizioni di rilievo nelle aziende, tra titolari di impresa, amministratori o semplici soci. Roba impensabile, solo cinque o sei anni fa. E invece ecco il passo in avanti, ecco che fatti reali e non confutabili dimostrano l’inconsistenza di pregiudizi e di derive anche razziste che purtroppo sono affiorate nel Paese. Ciò non elimina come per magia le incongruenze del comparto, le direttive da registrare, gli interventi da migliorare e soprattutto i fondi da stanziare. Se è vero, come è vero, che i cento milioni di euro previsti lo scorso anno dal Governo per favorire l’integrazione dei flussi migratori, oggi sono stati tagliati. Mentre, per fare un raffronto, in Germania un cittadino straniero appena giunto sul suolo tedesco ha a disposizione novecento ore gratuite per apprendere la lingua.
Sta tutta qui la differenza tra popoli e Paesi e a nulla servirà proseguire strumentalmente con la logica dell’“ognuno a casa sua”, dal momento che se l’immigrazione in Italia fosse pari a zero (come simulato da Eurostat) non solo mancherebbero una serie di figure professionali ormai imprescindibili per la società (badanti, colf, tornitori, operai, operatori sociali, carpentieri), ma il Paese nel giro di dieci lustri perderebbe un sesto della sua popolazione

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