martedì 26 ottobre 2010

Sempre colpa degli intellettuali?No, se c'è la crisi del racconto


Da Ffwebmagazine del 26/10/10

Perché spaccare il selciato come una mela tra chi parla semplice, e quindi più vicino al popolo, e chi filosofeggia, questi ultimi accusati di “stare sulle terrazze”? Perché limitarsi all’apparenza di quel messaggio, alla sua forma, senza approfondire contenuti e modalità di parola?
Forse per una mera convenienza contingente, o per una manifesta incapacità di valutazione, o ancora più probabilmente per una sana pigrizia mentale. Diceva Francesco Bacone che «sono esploratori cattivi quelli che pensano che non ci sia terra se vedono solo il mare». Cattivi e frettolosi, quelli stessi che, catapultati all’oggi, si affannano a creare messaggi subliminali che raggiungano in tempo reale la gente.
Ma accade che un messaggio, una parola, un discorso, sia l’involucro dove far galleggiare simboli, concetti, oggetti animati. Che per esprimersi completamente necessitano di tempo: per essere assimilati, compresi, svuotati del superfluo e riempiti di osservazioni e analisi. Tutto ciò significa stare su una terrazza e osservare il passaggio della gente? Troppo semplice dequalificare il tentativo di capire come gioco da intellettuali lontani dal mondo, perché invero sono proprio coloro che analizzano, che smontano un teorema, lo valutano e solo dopo lo rimontano, a essere i più vicini alla gente. Semplicemente perché sono gli unici che vogliono comprendere per far comprendere un evento, una proposta, un’opinione, un fatto. E che non ingurgitano avidamente tutto ciò che il sistema propina loro, ma scelgono accuratamente di «riprendere a occuparsi di istituzioni».
Ad esempio, non sarebbe utile relegare bacchettonescamente la barzelletta a tediosa pratica da osteria, solo che non la si può elevare a metro di comunicazione politica e sociale. Né farla diventare il simbolo di un tentativo di avvicinarsi alla strada, all’ambito popolare, in quanto forse risulterebbe più utile (alla gente e a quella stessa strada) che si spiegasse loro il senso di certe decisioni. O di non decisioni.
Particolare è ancora il rapporto con determinate parole, che abbondano sino a strabordare, da pacchi di comunicati stampa e dichiarazioni. Spesso senza attribuire loro il relativo significato, altre volte forse per piantare un seme cattivo in un terreno che, rispetto a venti anni fa, assorbe più rapidamente i populismi mediatici. Così accade che, per una serie di questioni, si finisca per dissimulare, far credere che non sia necessario chiamare le cose con il proprio nome, “tanto abbiamo il consenso popolare”, quando non si ha in fondo nulla da dire se non mistificare, nascondere, spargere nebbia per appannare la vista e gli occhi. Questo abuso di termini ben definiti, altro non è che la spia di un disagio: il disagio del racconto, quello vero (non dei reality) quello che si tocca, si annusa, si sfiora, si osserva perché accaduto, si descrive per quello che è.
Ecco che allora si è svilito non solo l'approfondimento e il rispetto delle opinioni altrui, ma spesso anche la notizia secca, il fatto, la cronaca di un avvenimento sul quale c'è poco da bestemmiare, da barzellettare o sul quale invocare il contraddittorio. Perché è più facile educare all’apatia mentale, è più comodo che tutti mangino la medesima minestra della stessa mensa.
Così, per quelli che invocano ogni due minuti concetti come volontà popolare, la piazza, le spade padane, è più conveniente definire chi alza un dito e tenta di manifestare o di dissentire, come chi si trastulla tra idee e pensieri, mentre altri si occupano di “fare”. Altro termine abusato all’infinito dalla comunicazione moderna: “fare”, sì, ma fare cosa? Prima di fare occorre comunque pensare. Pensare cosa fare, come farlo, con chi, in quale misura, per quale motivo, su quali presupposti, con quali conseguenze e in virtù del verificarsi di quali e quanti eventi. Anziché recuperare il senso delle parole, che prepari i fruitori alla comprensione completa dei fatti, si assiste alla rapida messa in scena di una kermesse di immagini e parole, dove si allena il contesto a non ragionare, a dividere preventivamente chi è di qua da chi è di là. Con l’apparente giustificazione che tutte le persone come noi sono noi - parafrasando Kipling - e tutti gli altri sono loro.
Le parole, come ha scritto tempo fa Gustavo Zagrebelsky, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti il dialogo diventa un inganno. Le parole, quelle sane, uniscono, sanano ferite, perché aiutano a comunicare. E allora varrebbe la pena di rammentare la lezione di Ugo Foscolo, quando ammoniva «amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi ed assumere il coraggio della concordia».

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