venerdì 22 ottobre 2010

No, quella notte Stefano non era solo


Da Ffwebmagazine del 22/10/10

«Invece è morto. Forse pensando di essere stato abbandonato dalla sua famiglia, mentre semplicemente non ci lasciavano entrare. Vorrei potergli dire che non era solo». No, non era solo il giovane Stefano Cucchi la notte di dodici mesi fa in quella sala dell’ospedale romano “Sandro Pertini”. Non lo era nemmeno in carcere, perché non si procurò quelle ferite mortali da solo, né in solitudine decise di andare incontro a ciò che tutti conoscono. Con lui c’erano i suoi carnefici. Ma anche chi, idealmente, pensava a lui, e avrebbe voluto aiutarlo. Quelle stesse persone (ovvero la sua famiglia) che oggi continuano a combattere per un pugno di verità.
No, non era solo Stefano, come scrivono Italia Cucchi e Giovanni Bianconi nel titolo del libro Vorrei dirti che non eri solo. E nemmeno in questo anno lo è stato, tra perizie, campagne mediatiche, iniziative, convegni anche nelle sedi delle istituzioni. Perché l’unica cosa di buono che è venuta fuori da questa dolorosa vicenda è stata il coraggio sterminato della sua famiglia. Di pubblicare coraggiosamente le immagini di quel corpo martoriato, di non tacere circostanze di vita, di non cedere alla facile disperazione.
Nel libro- che è anche un appello contro i maltrattamenti e le angherie praticate nelle carceri- vengono ricostruiti i pensieri di quei giorni in cui Stefano era in agonia, con l’indifferenza generalizzata verso un padre, una madre ed una sorella. Come se quella vicenda non fosse realmente parte di un Paese, di una comunità, di un mondo. Come se fosse lecito creare una sfera di cristallo all’interno della quale girare le riprese di un film dell’orrore. Che pellicola non era, ma tremendamente tangibile. Con gli interpreti che, a pochi metri di distanza dalla scena principale, non si capacitavano di quel silenzio omertoso, di quelle pause, di quei non so. Con labbra che si muovevano senza parlare, con sospetti che pian piano facevano capolino nei visi interrogati di gente normale, con una vita normale. Che ha dovuto affrontare una situazione che di normale non aveva nulla.
In quelle pagine Ilaria Cucchi parla a cuore aperto, senza la retorica che è frequente in questi casi, ma secca e diretta. Perché sentirsi parte in causa, aver voluto fare qualcosa di più, aver pianto, pensato, immaginato rappresenta un pezzo di vita di ogni cittadino per bene, di ogni persona umana. E allora che da quelle righe, ad un anno dalla morte di Stefano, si prosegua per fare luce sull’ignoto, per chiarire l’oscuro, per recuperare quel termine, giustizia, che in questa vicenda qualcuno ha dimenticato. Colposamente o dolosamente. Come si sta cercando di fare in occasione del processo che vede imputate tredici persone e che in una delle ultime udienze ha visto la famiglia Cucci invitata ad uscire dall’aula per non meglio precisati motivi di ordine pubblico. Un incidente triste, che sparge altro dolore inutilmente. E che precede la notizia che per la prossima udienza, prevista il 26 ottobre, è stata annunciata la presenza di tv e stampa. Per dare un palco, per accendere riflettori ed impedire a quel buio di tornare con prepotenza in questa storia.
Come sostenuto più volte su queste colonne, verità e legalità devono essere merce “uguale per tutti” come la legge. Rifiutando l’entità astratta che si plasma in quella terra di mezzo, dove è permesso ciò che non dovrebbe esserlo, dove si nasconde ciò che dovrebbe essere palese, dove non si vede ciò che dovrebbe apparire luminoso come il sole. In uno Stato di diritto un uomo che entra in carcere con le proprie gambe non può uscirne esanime. E allora che almeno si dedichi alla memoria di Stefano il nosocomio dove è morto un anno fa, come proposto da Secolo d’Italia e Mondoperaio. E come auspicato dagli italiani di buon senso che non amano vedere sui volti della famiglia Cucchi la disperazione di non avere risposte. Si metta al bando allora l’ipocrisia e si lasci parlare, per una volta, la verità.

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