domenica 31 ottobre 2010

Coscienza senza consenso. La lezione di More


Da Ffwebmagazine del 30/10/10

Ha scritto Thomas More “io non ho mai affidato il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno all’uomo più santo che oggi conosca”. Il giurista, uomo di lettere, diplomatico e Lord Cancelliere inglese intese elevare il primato della coscienza a momento catartico, allontanando il consenso dei più. Senza far sembrare un bene ciò che appare buono agli occhi della maggioranza, rafforzando la validità estrema del messaggio “liberi dai forti”. Dove viene elogiata quella libertà che non si lascia intimorire dalla prepotenza, l’indipendenza del singolo che non cerca a tutti i costi l’approvazione dei molti, ovvero dei peggiori. Una tesi quanto mai attuale, dal momento che la società moderna appare sempre più preda di quel perverso manipolatore delle singole anime che prende il nome di consenso.
Nell’Utopia More affronta molteplici questioni con lo strumento della lettera. In lui la formazione della coscienza fu un passaggio cruciale: riteneva che fosse indispensabile al distacco dalla massificazione dei pensieri. Solo rinunciando al consenso come bussola di perenne approvazione, si potrà verificare la fedeltà alla propria coscienza, dove quel ‘propria’ appartiene alla sfera dei singolo individuo pensante ed autonomo. Contrariamente si favoriranno quegli animi amebici, quasi ondeggianti tra le opinioni degli altri; fluttuanti in una sorta di limbo della pubblica opinione di maggioranza, dove una scia invisibile traina pensieri e parole.More focalizza l’attenzione sulle criticità della società inglese, dove la concentrazione di ricchezza e del potere politico incrementa le disuguaglianze, allontana un modello di convivenza sociale, in quanto l’uomo è ridotto ad incarnare una figura astratta, composta esclusivamente da ciò che produce. Evidenziando un’interdipendenza isterica dal denaro. Ecco il primato della coscienza, dunque: attraverso il disinteresse per le preferenze della massa, sarà possibile sostenere la fedeltà alla verità ed all’intelligenza umana. Con l’uomo che si sforzerà in questo modo di solcare anche strade impervie, pur di risolvere quesiti complessi che impongono il ragionare e non l’appiattirsi a soluzioni di maggioranza.

Una lezione tremendamente attuale, tra l’altro ricordata nel volume “Il primato della coscienza”, un omaggio a Thomas More nel decimo anniversario della proclamazione a patrono dei governanti e dei politici, con contributi di Cesare Salvi, Rocco Buttiglione, Paola Binetti, Francesco D’Agostino, Giovanni Conso, Antonio Casu. L’occasione per riflettere a più cervelli sull’incontro di tre elementi, politica, cultura e religione che, secondo Jacob Burkhard, azionano il cammino umano. Una sintesi più volte approfondita da More, epitetato “a man for all seasons”: non solo “uomo per tutte le stagioni”, definizione che oggi non rappresenta propriamente una peculiarità positiva. Ma meglio “uomo di tutti, in tutti i momenti”, sottolineandone invece la valenza conciliativa, il suo disporre degli strumenti idonei a governare situazioni differenti.
L’interrogativo di More, su quale sia il fondamento della legge al fine di carpirne le conseguenze sulla vita della collettività, è ancora rivolto all’oggi. Dove la società liquida del terzo millennio si specchia sempre più frequentemente nella ricerca ossessiva del riscontro, dove l’immagine (non quella reale, ma quella costruita per somigliare a qualcuno, magari al capo, o a cosa lui preferisca) supera la sostanza sino a stroncarla. Con gli incentivi mediatici rivolti a modelli predefiniti, che nulla hanno a che fare con la conformazione del singolo, con il suo effettivo stato d’animo, con la libertà di poter dissentire, di non volersi uniformare a masse galleggianti, in apparenza di cemento armato. Ma solo fino al momento in cui la certezza granitica si sfalda sotto il peso di una livella ormai logora.

Fini: «L'Italia è in imbarazzo, Berlusconi chiarisca»


Da Ffwebmagazine del 31/10/10

«Berlusconi chiarisca se ci sia stato un suo diretto intervento per evitare che la questura di Milano affidasse la ragazza a una comunità». «Ostruzionismo sulle leggi ad personam? Sì, perché servono solo al premier».
Così dice Gianfranco Fini, incontrando a Roma i comitati promotori di Fli del Lazio, facendo il punto sullo stato dei fatti nel paese. Il caso Ruby? «Sono amareggiato - ha detto – perché si tratta di una vicenda che sta facendo il giro del mondo e purtroppo mette l’Italia in una condizione imbarazzante. Mi auguro che le cose non siano andate così come è stato raccontato, perché altrimenti non sarebbe più una questione soltanto privata». Il riferimento è ai sospetti di interferenza da parte di Palazzo Chigi con la regolare attività di identificazione della minorenne da parte della Questura di Milano.
«Qualora quell’intervento si fosse realmente verificato e se fosse vero il fatto che sia stata raccontata la storia della parentela con un capo di Stato - ha osservato Fini - dimostrerebbe che c’è stata una certa disinvoltura e malcostume nell’uso privato di incarico pubblico. Insomma, mi rendo conto che l’immagine dell’Italia nel mondo è sconfortante anche per questa vicenda». E «l'Italia merita un biglietto da visita migliore nel mondo. Il presidente della Camera ci tiene, dunque, a sottolineare l’eco internazionale che la vicenda sta avendo sui media di tutto il globo. Infatti proprio nelle ore in cui iniziavano a circolare i dettagli sul caso Ruby, Fini era a Berlino, in visita da Angela Merkel: «e potete immaginare i commenti», ha detto rivolto alla platea che affollava il cinema Adriano.
Non solo immagine e cronaca al centro dell’incontro domenicale, ma anche il tema della giustizia che si intreccia, e non da oggi, con la responsabilità della classe dirigente e con il senso di moralità. «La legge è uguale per tutti - ha detto Fini, intervistato dal direttore del Messaggero Roberto Napoletano - e quando io l’ho detto è passata per una provocazione. Alla Camera ho sentito dire: ma hai visto cosa ha detto Fini…».

Circa l’intenzione di Fli di mettersi di traverso all’azione del Governo, Fini rassicura nel merito: «Interdizione sul pacchetto fiscale? No, in quanto non è stato presentato. Sul piano per il sud? Idem». Ma sulle leggi ad personam, il presidente della Camera non ha dubbi su quale sarà la posizione di Fli: sì all’ostruzionismo, perché in quel caso si tratta di leggi che «servono solo al premier».
Spazio anche all’economia con lo stimolo rivolto al governo, ripreso anche da Emma Marcegaglia, di indicare una strada maestra che al momento non si vede. Con un paese paralizzato, dilaniato da polemiche e sterili contrapposizioni, con tagli netti che non precedono investimenti nei settori strategici di uno strato produttivo composto nella maggior parte da piccole e media imprese, che per questo devono puntare alla qualità del prodotto, più che alla quantità. Senza che alla fine le risorse si trovino solo «per la Lega che batte i pugni». Infine, i cardini del nuovo movimento politico. «Non un punto solo, ma un triangolo: nazione, legalità e lavoro».

venerdì 29 ottobre 2010

Elogio delle regole, non freno ma opportunità

Da Ffwebmagazine del 29/10/10

A chi pensa che le regole rappresentino un freno. A chi reputa i modelli organizzativi come un tedioso rallentatore del fare. A chi ritiene che osservare pratiche e commi sia una perdita di tempo. A chi svilisce codici e leggi a secondari indicatori di crescita. A costoro si consiglia la lettura di un interessante volume firmato da due manager, Roger Abravanel e Luca D’Agnese “Regole- perché tutti gli italiani devono rispettare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il Paese”. Per sfatare il tabù che modus comportamentali non siano utili, per far comprendere alla classe dirigente e ai cittadini come avere regole giuste, ed osservarle, sia la ricetta per uscire dalla crisi e per investire seriamente nel futuro del Paese.
Ciò che conta nei modelli economici moderni, e come attuato da tutti i Paesi più sviluppati, è poter contare su uno strato di regole corrette.
Averle, non è solo etico, ma è anche la strada più rapida che da sempre tutte le economie mondiali hanno percorso per inseguire lo sviluppo. “Le regole non nascono perché prodotte dalla politica”, riflette Roger Abravanel libico, da 34 anni consulente di aziende italiane e già autore nel 2008 di “Meritocrazia” che ha innescato un ampio dibattito sulla velocità di modernizzazione delle risorse umane in Italia. Proprio l’Italia registra indici pericolosi che, se ignorati o sottovalutati, rischiano di impedirne il progresso.
Le regole vanno osservate, asseriscono gli autori, dal momento che generano un circolo virtuoso di rispetto e di protezione dei consumatori. L’Italia negli ultimi quindici anni ha registrato la crescita più bassa d’Europa, un dato che non deve essere sottaciuto o confuso con la recessione mondiale. Un fatto oggettivo, da valutare oggettivamente, guardando dall’interno le criticità del Paese. Che dipendono da un sistema errato di regole, che vengono aggirate, che producono concorrenza sleale, che innescano quel meccanismo perverso di sfiducia dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, con uno Stato pachidermico, con una burocrazia ingessata che ingessa anche l’intero sistema.
Non un quadro catastrofico, ma la reale visione delle cose, dalla quale ripartire per sanare i punti deboli e recuperare quel gap, già sostanzioso, che ci differenzia dagli altri Stati europei. Ad esempio, se l’Italia avesse l’occupazione nei servizi pari alla media europea, si otterrebbero tre milioni di dipendenti in più. Ancora, il peso della nostra economia sommersa vede l’Italia al penultimo posto in Europa, dinanzi solo alla Grecia. L’inefficienza della PA incide per circa sessanta miliardi di euro. Tre esempi che, se metabolizzati e migliorati, offrirebbero al Paese quella marcia in più che al momento manca.

Ecco che il libro indica come trasformare il circolo da vizioso in virtuoso. Innanzitutto investendo su quattro elementi fondamentali: l’educazione civica dei cittadini, l’indipendenza dei media, la rapidità della giustizia civile, l’autorevolezza dei controllori. Un panorama che, ad oggi, in Italia non si vede. In primis perché i cittadini sono poco civili: regole da rispettare, nuove generazioni da educare al rispetto, in quanto producono benessere collettivo e non per un singolo. Non ci sono editori puri, quindi i media soffrono cordoni ombelicali: in più l’80% degli italiani è mediaticamente analfabeta.
Non che non sappia leggere o scrivere, semplicemente non comprende a fondo ciò che legge. Quindi i media proseguono nella “bassa” informazione, nel poco approfondimento, mantenendosi sull’informazione leggera, quasi ariosa, come spesso fa il Tg1. Giustizia: 1200 giorni, in media, per una controversia civile scoraggerebbe qualsiasi imprenditore ad investire in Italia, peggio di noi solo il Gabon o il Gibuti, non una democrazia moderna e avanzata. Infine i controlli: volendo raffrontare, ad esempio, Rai e BBC una differenza è immediatamente evidente. Mentre la tv di viale Mazzini è controllata dalla Vigilanza e quindi dai partiti, quella inglese è gestita da un Trust, composto da esperti di televisione e non da politici. La BBC non ha come obiettivo la par condicio, ma udite udite la qualità.
Un’Italia, dunque, con gli occhi dietro la testa che, come disse Louis Pauwels ne “Il mattino dei maghi”, sarebbe tempo di ricollocare al loro posto.

"REGOLE- PERCHE'TUTTI GLI ITALIANI DEVONO SVILUPPARE QUELLE GIUSTE E RISPETTARLE PER RILANCIARE IL PAESE". di Roger Abravanel e Luca D’Agnese. Garzanti Libri. Pp.376. Euro 18,60.

Piccoli (anzi grandi) mistificatori crescono...

Da Ffwebmagazine del 29/10/10

Fotografia dei media italiani: nella Russia staliniana, quando un dirigente del partito o uno scomodo intellettuale non organico venivano rimossi per cause politiche, si faceva aleggiare il solito malore improvviso per giustificare eventi di altra natura, certamente non fortuita. Per depistare, far perdere tracce fisiche, coordinate di posizioni, ma soprattutto per diradare idee, contrarietà, domande inopportune. Insomma, per raccontare un’altra storia. Legittima, per carità, ma dichiaratamente falsa.
Lecito chiedersi: anche dalle parti dell’informazione biancorossoeverde c’è qualcuno che ha in mente di fare la stessa cosa? Perché se si arriva al punto di negare l’evidenza in maniera così evidente, significa che o si è totalmente in malafede quindi si fa dolosamente della massiccia controinformazione; o non si ragiona attentamente su quello che poi si dice magari per limiti oggettivi, di conoscenza dei fatti, di cultura, di arguzia, di comprensione. Con il risultato di mistificare sempre e comunque.
In occasione degli stati generali dell'informazione convocati a Roma dal duo Bondi-Santanchè, due assiomi sembrano essere stati vergati non da individui che vivono e lavorano in Italia, ma da alieni, lontani anni luce da ciò che realmente succede ed è successo sotto gli occhi di tutti.
E sorprende non poco la nonchalance con la quale sono stati stoccati, quasi come fossero volutamente difformi dall’accaduto. Il primo è firmato dal direttore del Tg1: ricorda la necessità di battersi perché venga riconosciuto “il diritto di una parte politica e di una stampa a poter esprimere la propria opinione senza per questo essere emarginata e messa da parte. Oggi c’è chi criminalizza l’avversario, non accetta che possa avere un punto diverso, ma lo considera un qualcosa che non deve avere cittadinanza”.
Per caso Minzolini è diventato finiano? O ha compreso – un po’in ritardo- come la pluralità di opinioni rappresenti un plus, non solo in ambito politico o partitico, ma addirittura anche in campo giornalistico? Anche l’ex retroscenista de La Stampa è stato folgorato sulla via di Damasco in nome di una libertà di approfondimento e di analisi vera e veritiera che spesso è mancata in molti spazi informativi? E ancora, dov’era il 29 luglio quando l’editto romano ha cacciato dal partito il cofondatore, per non meglio precisate incompatibilità politiche e funzionali con il resto del fu Pdl?

Il secondo è del direttore di Libero: “Il dramma vero in Italia è l'esistenza di una cupola che impedisce di essere informati”. Non sarà con il ribaltamento scientifico della realtà che si giustificheranno i dati sconfortanti di un tiggì (non uno qualsiasi, ma quello della rete ammiraglia del servizio pubblico) e il killeraggio di una campagna andata in scena negli ultimi mesi, tra ombrelloni e grandi magazzini. Non è chiamando sole la luna e bianco il nero che si sentiranno legittimati a dire, fare, smentire e cambiare tutto e contro tutti in questa informazione impazzita. Che invece avrebbe bisogno di altro. Non solo della solita serenità invocata sempre e solo dopo ogni episodio sgradevole (come le odiose aggressioni o le minacce che molti colleghi ricevono), ma anche di una sana serietà. Senza la quale si continua a fare una cosa che non è informazione.
Anzi lo è, perché informa, ma informa su un qualcosa che o non è accaduto, o che è accaduto ma raccontato invertendo i ruoli degli attori protagonisti. Un qualcosa che, comunque lo si scriva o lo si racconti, non fa onore a nessuno. Piaccia o no.

giovedì 28 ottobre 2010

Quello che non deve fare un partito moderno


Da Ffwebmagazine del 28/10/10

Sandro Bondi all’Unità: «Quando sento parlare del fallimento delle ricette liberali di Berlusconi mi sembra che la sinistra abdichi a un’analisi rigorosa della realtà». Non solo la sinistra allora, verrebbe da dire al ministro della Cultura, ma fior fior di liberali italiani come Fiori, Biondi, Martino, Gawronsky hanno manifestato la medesima preoccupazione negli ultimi mesi. Pericolosi comunisti anche loro? Significa che non c’è sinistra, destra o centro che tenga quando a essere deluse sono state le speranze del cambiamento, come dimostrato da molte vicissitudini interne ed esterne al fu Pdl.
Si prendano le liberalizzazioni delle municipalizzate: dopo gli annunci e le pagine stampate (punto 4 del programma elettorale del 2008) la realtà si è scontrata con il mancato entusiasmo di quegli alleati che nel loro statuto vogliono la secessione. Dov’è finito quell’annuncio di tagliare le province, che nei comizi procurava approvazione e consensi? Lecito chiedersi: forse i vertici del partito si sono poi accorti che in quel modo si sarebbero intaccati i tesoretti locali della Lega?
E ancora, sempre nel programma del Pdl vergato nel 2008 (nella cui prima pagina c’è scritto che «si estende sull’intero arco della legislatura e sarà integralmente realizzato entro il suo termine») il punto numero 2 recita: completamento del processo di liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni e diffusione della larga banda su tutto il territorio nazionale. La realtà, invece, dice che in molte zone d’Italia internet mobile è ancora un’utopia e la banda larga è solo una promessa. Senza contare il digitale, con ritardi atavici rispetto agli altri Paesi europei e con un mancato introito per l’erario di quattro miliardi di euro che inspiegabilmente il ministro delle attività produttive, (ma ha l’attenuante di essere stato nominato da pochissimo) non incassa.
Ma la disamina del coordinatore non si limita esclusivamente a negare l’evidenza circa l’indole per niente liberale del Pdl, ma avvia un’arzigogolata riflessione sul senso dei partiti moderni e sulle mancate risposte alle problematiche della collettività, così come fatto in qualche modo dal premier alcune settimane fa, quando aveva abbozzato un’autocritica rivolta proprio al Pdl.

Bondi accusa destra e sinistra di essere in difficoltà nel mantenere una propria identità, «di tutto si discute - scrive - fuorché di uno scenario che mette in discussione le nostre convinzioni e le nostre certezze». Se da un lato richiama all’esigenza di dibattito e di vivacità intellettuale, dall’altro non riesce proprio a incarnare quell’indipendenza di opinioni, di metodo, di analisi dal padrone, dal momento che poi quando si tratta di dibattere, di dialogare e di controdedurre, si appiattisce sulle posizioni di Berlusconi, avallandone anche provvedimenti illiberali e stalinisti come l’espulsione di Gianfranco Fini dal fu Pdl.
Pertanto destano profondo stupore le sue parole, quando dice «continuiamo ad essere prigionieri di una sorta di coazione a ripetere intellettuale, di formule superate da ciò che si sta dispiegando sotto i nostri occhi». Perché, delle due, l’una: o Bondi riflette lucidamente sullo stato delle cose nel suo partito ma poi masochisticamente rafforza lo status quo di contenitore azienda; oppure crede di prendere in giro elettori e analisti.
Il ministro della Cultura termina la sua arringa sostenendo: «Il cammino della sinistra non ha fatto passi in avanti, ma ha subìto una pesante ricaduta all’indietro, verso modelli culturali che abbracciano tutte le forme di antagonismo e di conflitto sociale e politico. Esattamente il contrario della sinistra che servirebbe al nostro Paese».
Per una volta d’accordo con lui. Ma se provassimo a sostituire alla parola sinistra il termine centrodestra, cosa accadrebbe? E soprattutto se il coordinatore del fu Pdl avesse impiegato in questi diciannove mesi la medesima arguzia che ha manifestato per demolire il socialismo europeo, nel processo di strutturazione del fu Pdl, forse oggi anche in Italia si avrebbe un partito liberale, moderato, moderno ed europeista. Senza un padrone che decide per tutti.

mercoledì 27 ottobre 2010

Italia, che fine ha fatto la cultura dell’altro?


Da Ffwebmagazine del 27/10/10

I pizzaioli egiziani rubano il mestiere agli italiani. No, non si tratta di un furto con passamontagna messo a punto da immigrati clandestini, né l’intento espansionistico legato a chissà quali strategie di welfare programmate da uno stato estero. Ma la realtà delle cose, titolata dal dorso campano del Corriere della Sera pochi mesi fa. Non una boutade pubblicitaria ma il vero volto dell’integrazione sul suolo italiano che, semplicemente, c’è già. Nonostante in molti, fra cittadini e amministratori, non se ne siano accorti, o stentino a comprenderne evoluzioni e ricadute sui territori.
Il dato, assieme ad altri che sfatano il tabù degli immigrati come portatori sani di criminalità e deficienze sociali, è al centro del Dossier che dal 1990 la fondazione Migrantes della Caritas redige annualmente. E non allo scopo di aggiungere un’altra pubblicazione alla sterminata produzione accademica nostrana, ma per far comprendere come i numeri parlino più di paure e di interventi anche legislativi di matrice populistica, che su quei timori fondano azioni e provvedimenti. In Italia manca un’ideologia positiva dell’immigrazione, dove più che una forma di assistenzialismo fine a se stesso si rende imprescindibile una tutela della dignità umana. Inquadrata all’interno di una lettura demografica del fenomeno, sia relativamente alle oggettività dei Paesi di origine, sia nei riguardi delle politiche di cooperazione. E che potrebbe prendere corpo se solo la classe dirigente del Paese si sforzasse di valutare analiticamente tendenze e risultati.
Nel 2009 gli immigrati regolari sono aumentati, giungendo alla soglia dei cinque milioni; 250mila i matrimoni misti, 570mila gli stranieri nati in Italia; 100mila gli ingressi annuali per il ricongiungimento; Roma e Milano i Comuni più popolati, con punte del 20% a Porto Recanati e del 30% in provincia di Imperia: numeri che, piaccia o no, parlano più di mille parole.
Solo con tali coordinate sarà possibile aprire le porte alla vera rivoluzione culturale del millennio, ovvero saper accettare il diverso, azzerando gli egoismi, e cavalcando un fenomeno che ha radici lontane nei secoli, che ha solcato con le proprie peculiari diramazioni Oriente ed Occidente. Immigrati erano Enea e i suoi uomini dopo la guerra di Troia, come lo era Alessandro Magno in cerca di nuove frontiere geografiche. Lo era anche Marco Polo, lo erano quegli italiani che a cavallo fra le due guerre mondiali si sono riversati nelle Americhe, raggiungendo il successo e l’integrazione che oggi è palese. Ma immigrati sono stati anche i Romani, quando hanno esplorato, allargato orizzonti e visioni, senza dimenticare il viaggio dell’immigrato Colombo in quella memorabile traversata che lo portò a scoprire l’America. Chi oggi discute e si infervora a proposito dell’immigrazione, insistendo fanaticamente sul pericolo delle frontiere aperte e sui rischi legati alla sicurezza (incluso Borghezio), può essere tranquillizzato dai numeri: gli stranieri delinquono quanto gli italiani, non è vero che rubano il lavoro e le case (senza il loro apporto di manodopera molte aziende avrebbero avuto seri problemi nel circuito produttivo), falso che siano evasori fiscali (basti pensare che il gettito versato annualmente dagli stranieri ha contribuito a risanare i conti dell’Inps), influiscono positivamente sull’intero sistema.

Si pensi che ogni trenta imprenditori italiani, vi è uno straniero: significa che gli immigrati hanno compreso il meccanismo della scalata sociale, che hanno metabolizzato, a volte meglio di qualche italiano pigro, come inserirsi all’interno di ingranaggi complessi. Che si sentono ormai parte attiva sia nel lavoro autonomo che in quello dipendente, grazie a quei 400mila che occupano posizioni di rilievo nelle aziende, tra titolari di impresa, amministratori o semplici soci. Roba impensabile, solo cinque o sei anni fa. E invece ecco il passo in avanti, ecco che fatti reali e non confutabili dimostrano l’inconsistenza di pregiudizi e di derive anche razziste che purtroppo sono affiorate nel Paese. Ciò non elimina come per magia le incongruenze del comparto, le direttive da registrare, gli interventi da migliorare e soprattutto i fondi da stanziare. Se è vero, come è vero, che i cento milioni di euro previsti lo scorso anno dal Governo per favorire l’integrazione dei flussi migratori, oggi sono stati tagliati. Mentre, per fare un raffronto, in Germania un cittadino straniero appena giunto sul suolo tedesco ha a disposizione novecento ore gratuite per apprendere la lingua.
Sta tutta qui la differenza tra popoli e Paesi e a nulla servirà proseguire strumentalmente con la logica dell’“ognuno a casa sua”, dal momento che se l’immigrazione in Italia fosse pari a zero (come simulato da Eurostat) non solo mancherebbero una serie di figure professionali ormai imprescindibili per la società (badanti, colf, tornitori, operai, operatori sociali, carpentieri), ma il Paese nel giro di dieci lustri perderebbe un sesto della sua popolazione

AL VIA I PIC-NIC DELL'AMORE


Da Ffwebmagazine del 26/10/10

Moderati di tutta Italia, unitevi! Recitava uno slogan elettorale di non molto tempo fa. Quello che è andato storto, nel frattempo, è il tentativo di fare del fu Pdl una cosa seria. È dei gfiorni scorsi il nuovo divieto scoccato dai piani alti di Palazzo Grazioli: niente più tavolate notturne per decidere mosse e contromosse.
Forse il gran capo intende riportarli al peso forma in vista delle elezioni? Forse si è reso conto che troppa polenta annebbia le idee di qualche peones? O troppo radicchio veneto ritarda le reazioni televisive di Ghedini dottor Stranamore? O troppo risotto alla milanese rende le occhiaie di “zio Fester” Sallusti meno evidenti?
Ecco che ritorna il partito caserma, dove il maitre, o forse meglio dire il cuoco (visto che in caserma il maitre non è previsto) pianifica, decide, impone, consiglia, deduce e controdeduce. Insomma, il padrone è tornato dalle vacanze e le abitudini alimentari di molti ne risentiranno. Tremate buone forchette!
Non ne saranno entusiasti i ristoratori romani, che negli ultimi tempi avevano apparecchiato numerosi tavoli in occasione di numerose serate per allietare le esternazioni poetiche del ministro Bondi, quello che dice di aver risanato la cultura italiana. O le minacce dell’ex colonnello La Russa, sempre pronto a smentire un minuto dopo. O le arzigogolate osservazioni contro le fondazioni culturali di Cicchitto, sempre con il fantasma della sinistra sotto il tovagliolo. O le lamentele della Gelmini che, un minuto dopo aver firmato una storica riforma universitaria, si è trovata costretta a dire “scusate, abbiamo scherzato, non c’è una lira, pardon, un euro”.
O le dichiarazioni fiume dell’ex radicale Capezzone, che continua a dichiarare anche dopo il dessert. O i sussurri del ministro più represso d’Italia, quel Brunetta partito a razzo con la rivoluzione del merito nella pubblica amministrazione e poi schiacciato dallo sbatter di ciglia tremontiano. O le invettive billioneresche del sottosegretario all’attuazione del programma Santanchè, contro chi la accusava di troppa vicinanza alla truppa del Giornale di famiglia per via della raccolta pubblicitaria che la sua società pratica. O gli scambi enogastronomici sull’asse padano-romano Bossi-Alemanno, che dopo la vetrina interculturale andata in scena poche settimane fa in piazza Montecitorio, già pregustavano un inter rail del gusto per tutte le trattorie di Trastevere.
Dove andranno a nutrirsi, dunque, tutti questi illustri personaggi? Non sarà che si deperiranno fisicamente e, conseguentemente, subiranno un regresso politico-culturale? Per impedire tale scenario apocalittico, ecco la soluzione per non far intristire le gote di Calderoli o la verve letteraria di Straquadanio: al via i pic-nic dell’amore, sui prati di Villa Torlonia o del castello di Tor Crescenza (ognuno sarà libero almeno di individuare l’area di riferimento, a seconda delle correnti).
Pranzo al sacco, rigorosamente dopo il tramonto, con libertà di invettive e possibilità di ragionare a mente fresca su leadership future, manovrine, studi di settore, conflitti di interesse e banda larga al chiaro di luna, sotto le stelle del cielo romano. E sperando, soprattutto, che non piova.
Buon appetito.

martedì 26 ottobre 2010

Sempre colpa degli intellettuali?No, se c'è la crisi del racconto


Da Ffwebmagazine del 26/10/10

Perché spaccare il selciato come una mela tra chi parla semplice, e quindi più vicino al popolo, e chi filosofeggia, questi ultimi accusati di “stare sulle terrazze”? Perché limitarsi all’apparenza di quel messaggio, alla sua forma, senza approfondire contenuti e modalità di parola?
Forse per una mera convenienza contingente, o per una manifesta incapacità di valutazione, o ancora più probabilmente per una sana pigrizia mentale. Diceva Francesco Bacone che «sono esploratori cattivi quelli che pensano che non ci sia terra se vedono solo il mare». Cattivi e frettolosi, quelli stessi che, catapultati all’oggi, si affannano a creare messaggi subliminali che raggiungano in tempo reale la gente.
Ma accade che un messaggio, una parola, un discorso, sia l’involucro dove far galleggiare simboli, concetti, oggetti animati. Che per esprimersi completamente necessitano di tempo: per essere assimilati, compresi, svuotati del superfluo e riempiti di osservazioni e analisi. Tutto ciò significa stare su una terrazza e osservare il passaggio della gente? Troppo semplice dequalificare il tentativo di capire come gioco da intellettuali lontani dal mondo, perché invero sono proprio coloro che analizzano, che smontano un teorema, lo valutano e solo dopo lo rimontano, a essere i più vicini alla gente. Semplicemente perché sono gli unici che vogliono comprendere per far comprendere un evento, una proposta, un’opinione, un fatto. E che non ingurgitano avidamente tutto ciò che il sistema propina loro, ma scelgono accuratamente di «riprendere a occuparsi di istituzioni».
Ad esempio, non sarebbe utile relegare bacchettonescamente la barzelletta a tediosa pratica da osteria, solo che non la si può elevare a metro di comunicazione politica e sociale. Né farla diventare il simbolo di un tentativo di avvicinarsi alla strada, all’ambito popolare, in quanto forse risulterebbe più utile (alla gente e a quella stessa strada) che si spiegasse loro il senso di certe decisioni. O di non decisioni.
Particolare è ancora il rapporto con determinate parole, che abbondano sino a strabordare, da pacchi di comunicati stampa e dichiarazioni. Spesso senza attribuire loro il relativo significato, altre volte forse per piantare un seme cattivo in un terreno che, rispetto a venti anni fa, assorbe più rapidamente i populismi mediatici. Così accade che, per una serie di questioni, si finisca per dissimulare, far credere che non sia necessario chiamare le cose con il proprio nome, “tanto abbiamo il consenso popolare”, quando non si ha in fondo nulla da dire se non mistificare, nascondere, spargere nebbia per appannare la vista e gli occhi. Questo abuso di termini ben definiti, altro non è che la spia di un disagio: il disagio del racconto, quello vero (non dei reality) quello che si tocca, si annusa, si sfiora, si osserva perché accaduto, si descrive per quello che è.
Ecco che allora si è svilito non solo l'approfondimento e il rispetto delle opinioni altrui, ma spesso anche la notizia secca, il fatto, la cronaca di un avvenimento sul quale c'è poco da bestemmiare, da barzellettare o sul quale invocare il contraddittorio. Perché è più facile educare all’apatia mentale, è più comodo che tutti mangino la medesima minestra della stessa mensa.
Così, per quelli che invocano ogni due minuti concetti come volontà popolare, la piazza, le spade padane, è più conveniente definire chi alza un dito e tenta di manifestare o di dissentire, come chi si trastulla tra idee e pensieri, mentre altri si occupano di “fare”. Altro termine abusato all’infinito dalla comunicazione moderna: “fare”, sì, ma fare cosa? Prima di fare occorre comunque pensare. Pensare cosa fare, come farlo, con chi, in quale misura, per quale motivo, su quali presupposti, con quali conseguenze e in virtù del verificarsi di quali e quanti eventi. Anziché recuperare il senso delle parole, che prepari i fruitori alla comprensione completa dei fatti, si assiste alla rapida messa in scena di una kermesse di immagini e parole, dove si allena il contesto a non ragionare, a dividere preventivamente chi è di qua da chi è di là. Con l’apparente giustificazione che tutte le persone come noi sono noi - parafrasando Kipling - e tutti gli altri sono loro.
Le parole, come ha scritto tempo fa Gustavo Zagrebelsky, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti il dialogo diventa un inganno. Le parole, quelle sane, uniscono, sanano ferite, perché aiutano a comunicare. E allora varrebbe la pena di rammentare la lezione di Ugo Foscolo, quando ammoniva «amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi fra di voi ed assumere il coraggio della concordia».

lunedì 25 ottobre 2010

Referendum costituzionale sul Lodo?I finiani voterebbero no

Da Ffwebmagazine del 25/10/10

Un referendum costituzionale sul Lodo Alfano? La stragrande maggioranza degli elettori finiani si esprimerebbe con un “no”. Così l’onorevole Carmelo Briguglio ragionando sul dibattito sollevato in questi giorni in merito alla disponibilità di un certo elettorato a sopportare leggi cosiddette ad personam. Indipendentemente dai contenuti del provvedimento e dalle modalità di attuazione, il deputato di Futuro e Libertà ha sollevato un problema specifico: ovvero che la classe dirigente di Fli deve rapidamente interrogarsi sulle reazioni dei cittadini, quegli stessi elettori o simpatizzanti che in questi mesi si sono detti disponibili ad appoggiare i contenuti culturali e politici di Gianfranco Fini. Ma che difficilmente potranno continuare a sentirsi rassicurati sul tema della legalità, dopo iniziative come il lodo Alfano.
«Il dibattito di questi giorni – ha osservato Briguglio - ci ha dato prova dell’indisponibilità degli italiani, che si sono aggregati intorno al messaggio politico e culturale di Fini, a dare il loro consenso a leggi bollate come ad personam e ancor meno a creare le condizioni implicite ma piuttosto evidenti, perché Silvio Berlusconi vada al Quirinale, come la sospensione dei processi non limitata a un solo mandato indica abbastanza scopertamente».
La questione abbraccia anche valutazioni squisitamente elettorali che si fondono pericolosamente: Futuro e Libertà, secondo il deputato siciliano, non deve commettere l’errore di appiattirsi su un messaggio di tipo fondamentalista e giustizialista. In quanto significherebbe attuare una politica a prescindere, senza un oggettivo discernimento. Ma è innegabile che negli ultimi anni il centrodestra abbia pagato, in termini di voti confluiti verso il movimento di Antonio Di Pietro, la condotta delle leggi per uno solo anziché per la collettività.
Si tratta di un dato difficilmente confutabile, rafforzato anche dalla triste reazione del fu Pdl. Briguglio riflette sul fatto che l’eccessiva fiducia da parte dei finiani sul tema della giustizia, alla fine è stata contraccambiata con il killeraggio mediatico della scorsa estate inscenato contro la terza carica dello Stato. E ciò rappresenta la chiara conseguenza di un modo di essere: chi osserva la politica e la pratica quotidianamente provvisto di lenti “aziendali”, finisce per disconoscere un valore significativo come la lealtà.
La preoccupazione del deputato di Fli si inserisce nella valutazione complessiva del lodo Alfano, dove la reiterabilità, di fatto, produce una norma a salvaguardia del singolo individuo. Condotta che si scontra drammaticamente con l’esigenza di modernizzare e velocizzare la giustizia per tutti i cittadini, nel solco di un’iniziativa per la collettività. Per questo non si spiegano le dichiarazioni del senatore Vizzini, quando afferma che «se c’è qualcosa da discutere sediamoci attorno a un tavolo e cerchiamo una soluzione; e se qualcuno vuole rompere, lo faccia, poi però dovrà fare una campagna elettorale per spiegarlo al Paese o peggio vivere con un nuovo governo con quelli che hanno perso le elezioni».
Appunto, attorno a un tavolo si stanno cercando soluzioni di buon senso e alternative che rendano credibile agli occhi dei cittadini un provvedimento che, a oggi, appare sempre più come un privilegio. Non per tutti.

La strada giusta per costruire un multiculturalismo del buonsenso


Da Ffwebmagazine del 25/10/10

Ha detto Albert Einstein che è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio: mentre nel continente si ragiona a più cervelli su modelli di integrazione dell’immigrazione e si valuta attentamente come attuare modifiche o miglioramenti, in Italia la politica sui flussi si fa con adesivi sui banchi di scuola o attribuendo più attenuanti del previsto (perché nato sul suolo italiano), a chi è accusato di omicidio di una donna rumena. Sicuri che sia la strada giusta per armonizzare diritti e doveri?
La riflessione di qualche giorno fa vergata dalla cancelliera tedesca sui difetti del muticulturalismo è stata da più parti strumentalizzata. Ovviamente a favore di chi pensa che un “no” preventivo a tutto e a tutti sia la risposta maggiormente efficace. Invece quelle penne che hanno colto l’occasione per scrivere tediosi e infiniti “lo avevamo detto”, avrebbero potuto leggere fra le righe di quei pensieri per fare autocritica (che sarà mai, questa sconosciuta?), per elaborare proposte più serie, per sforzarsi di evitare di parlare di immigrazione con il disinfettante in mano, come fatto anni fa dall’eurodeputato leghista Borghezio sullo strapuntino di un treno occupato da una nigeriana, in un trionfo di immane inumanità.
In Francia il dibattito ruota sul concetto di assimilazionismo, dove si è tentato di azzerare l’identità del nuovo cittadino, rendendolo ex novo un individuo francese a tutti i costi. E non tenendo in debita considerazione le sue peculiarità, le sue abitudini, i suoi sogni. Nel nord Europa, invece, si è puntato su un multiculturalismo che ha necessità, oggi, a distanza di due generazioni come i flussi turchi in Germania dimostrano, di essere registrato. Come ribadito dal presidente della Camera Gianfranco Fini in occasione della sue recente visita in Marocco, né l’anarchia interna né il rifiuto a priori possono essere due strade percorribili. Il multiculturalismo del futuro deve essere quindi declinato prevedendo l’integrazione dell’immigrato.
Ci si chiede, all’interno del dibattito europeo, cosa significhi tutelare l’identità dello straniero. La risposta è: declinandola all’interno del nuovo contenitore sociale prescelto, con una massiccia dose di buon senso. È quindi da ritenersi fallimentare quel multiculturalismo che vede lo straniero non apprendere la lingua del paese ospitante.
È chiaro che le voci discordanti manifestatesi negli ultimi mesi sul tema rappresentano la spia di un malessere ben preciso: l’esigenza di un approfondimento culturale - e di conseguenza provvedimenti umani e corretti - che tutelino i diritti fondamentali dei nuovi cittadini, accanto ai rispettivi doveri.
Invece in Italia la proposta del ministro dell’Interno Maroni pare farà il paio con requisiti abitativi: in sostanza l’immigrato, anche comunitario, potrà essere respinto se non disporrà di un'adeguata dimora. Lecito chiedersi: chi ne valuterà l'adeguatezza? L’ufficio tecnico del comune? Burocrazia su burocrazia: non è così che si armonizzeranno richieste ed esigenze, che si annoderanno i fili di esistenze diverse che, per cause storiche, politiche ed economiche- che non tutti forse rammentano - sono costrette a convivere. E non da oggi, ma da molti secoli prima che nascessero movimenti identitari con il fazzoletto verde e con gli adesivi sui banchi di scuola.

venerdì 22 ottobre 2010

No, quella notte Stefano non era solo


Da Ffwebmagazine del 22/10/10

«Invece è morto. Forse pensando di essere stato abbandonato dalla sua famiglia, mentre semplicemente non ci lasciavano entrare. Vorrei potergli dire che non era solo». No, non era solo il giovane Stefano Cucchi la notte di dodici mesi fa in quella sala dell’ospedale romano “Sandro Pertini”. Non lo era nemmeno in carcere, perché non si procurò quelle ferite mortali da solo, né in solitudine decise di andare incontro a ciò che tutti conoscono. Con lui c’erano i suoi carnefici. Ma anche chi, idealmente, pensava a lui, e avrebbe voluto aiutarlo. Quelle stesse persone (ovvero la sua famiglia) che oggi continuano a combattere per un pugno di verità.
No, non era solo Stefano, come scrivono Italia Cucchi e Giovanni Bianconi nel titolo del libro Vorrei dirti che non eri solo. E nemmeno in questo anno lo è stato, tra perizie, campagne mediatiche, iniziative, convegni anche nelle sedi delle istituzioni. Perché l’unica cosa di buono che è venuta fuori da questa dolorosa vicenda è stata il coraggio sterminato della sua famiglia. Di pubblicare coraggiosamente le immagini di quel corpo martoriato, di non tacere circostanze di vita, di non cedere alla facile disperazione.
Nel libro- che è anche un appello contro i maltrattamenti e le angherie praticate nelle carceri- vengono ricostruiti i pensieri di quei giorni in cui Stefano era in agonia, con l’indifferenza generalizzata verso un padre, una madre ed una sorella. Come se quella vicenda non fosse realmente parte di un Paese, di una comunità, di un mondo. Come se fosse lecito creare una sfera di cristallo all’interno della quale girare le riprese di un film dell’orrore. Che pellicola non era, ma tremendamente tangibile. Con gli interpreti che, a pochi metri di distanza dalla scena principale, non si capacitavano di quel silenzio omertoso, di quelle pause, di quei non so. Con labbra che si muovevano senza parlare, con sospetti che pian piano facevano capolino nei visi interrogati di gente normale, con una vita normale. Che ha dovuto affrontare una situazione che di normale non aveva nulla.
In quelle pagine Ilaria Cucchi parla a cuore aperto, senza la retorica che è frequente in questi casi, ma secca e diretta. Perché sentirsi parte in causa, aver voluto fare qualcosa di più, aver pianto, pensato, immaginato rappresenta un pezzo di vita di ogni cittadino per bene, di ogni persona umana. E allora che da quelle righe, ad un anno dalla morte di Stefano, si prosegua per fare luce sull’ignoto, per chiarire l’oscuro, per recuperare quel termine, giustizia, che in questa vicenda qualcuno ha dimenticato. Colposamente o dolosamente. Come si sta cercando di fare in occasione del processo che vede imputate tredici persone e che in una delle ultime udienze ha visto la famiglia Cucci invitata ad uscire dall’aula per non meglio precisati motivi di ordine pubblico. Un incidente triste, che sparge altro dolore inutilmente. E che precede la notizia che per la prossima udienza, prevista il 26 ottobre, è stata annunciata la presenza di tv e stampa. Per dare un palco, per accendere riflettori ed impedire a quel buio di tornare con prepotenza in questa storia.
Come sostenuto più volte su queste colonne, verità e legalità devono essere merce “uguale per tutti” come la legge. Rifiutando l’entità astratta che si plasma in quella terra di mezzo, dove è permesso ciò che non dovrebbe esserlo, dove si nasconde ciò che dovrebbe essere palese, dove non si vede ciò che dovrebbe apparire luminoso come il sole. In uno Stato di diritto un uomo che entra in carcere con le proprie gambe non può uscirne esanime. E allora che almeno si dedichi alla memoria di Stefano il nosocomio dove è morto un anno fa, come proposto da Secolo d’Italia e Mondoperaio. E come auspicato dagli italiani di buon senso che non amano vedere sui volti della famiglia Cucchi la disperazione di non avere risposte. Si metta al bando allora l’ipocrisia e si lasci parlare, per una volta, la verità.

giovedì 21 ottobre 2010

Le rotaie dell'Europa si incontrano sotto la Manica


Da Ffwebmagazine del 21/10/10

Ha scritto Pablo Neruda che «bisogna perdersi tra quelli che non conosciamo, affinché d’un tratto raccolgano il nostro dalla strada, dalla sabbia, dalle foglie cadute mille anni nello stesso bosco». Mescolarsi, unirsi, incontrarsi. E ancora parlarsi, toccarsi, lasciarsi e ritrovarsi. Per poi costruire un qualcosa, un contenitore dove far crescere un’idea. Quando l’idea di Europa prese forma, si avvertiva l’esigenza di coabitare, di mettere in comunione ideali e persone. In quel contesto, come più volte ribadito da Altiero Spinelli, si rendeva imprescindibile una «concentrazione di pensiero e di volontà». Allo scopo di reperire le opportunità positive di crescita, per essere pronti in occasione di débâcle e periodi di recessione, per gridare tutti insieme un convinto “sì” quando è il tempo di decidere.
Quello spirito, a intermittenza, è stato negli anni coccolato, incentivato, sminuito, non sufficientemente corroborato. Ma accade, a volte, che piccoli segni possano essere trasformati in grandi gesti, come in occasione del prossimo collegamento ferroviario che unità Francoforte a Londra a poco meno di cinquanta euro. Un interessante strumento commerciale, per favorire scambi economici, di persone. Ma l’auspicio è che si trasformi non solo in un’occasione di plusvalenze per aziende e stati (sempre gradite per carità, soprattutto in periodi di magra come questi), ma che possa riprendere il filo conduttore europeista. Per rafforzare un’unione che unita non sempre lo è. Che stenta a vergare proposte comuni, che si affanna nel rapportarsi alle nuove economie. In più occasioni senza un comune denominatore, ma figlio dell’improvvisazione contingente.
Quella cosa strana e deleteria che si chiama politica del respiro corto. Ad esempio: la Cina è il nuovo colosso economico? Ogni paese europeo tenta di accaparrarsi individualmente quante più commesse possibili. L’Africa rappresenta uno dei maggiori giacimenti esistenti di materie prime? I singoli stati membri vanno in ordine sparso nel continente nero. Ma con quale vantaggio? Apparentemente con quello di ottenere il miglior risultato, ma osservando tale deriva con un occhio rivolto al domani, senza ragionare da Europa. Si provi a immaginare per un momento quali scenari si aprirebbero se l’Unione Europea avesse una propria politica ambientale. Con un preciso e decennale piano di green economy, ovviamente poi da declinare nei singoli stati membri. O una propria direttiva per quanto concerne le risorse energetiche. O piani industriali combinati. Insomma, se l’Ue fosse realmente un’unione, le ricadute sarebbero molte. E positive.
Per queste ragioni quando si legge che il nuovo treno, che attraverserà sotto il tunnel la Manica, dalla stazione di Francoforte sino a quella nei pressi di Regent’Park, farebbe storcere il naso agli inglesi, viene da chiedersi cosa si dovrà attendere ancora per reagire con entusiasmo e convinzione al contributo della tecnologia.
Che in questo frangente sarà uno strumento validissimo per sostenere l’unione, oltre a quei procedimenti di integrazione e di commercio “umano”, come la cultura, che non aspettano altro se non correre a tutta velocità da un capo all’altro del continente. Perché, come scriveva Giuseppe Mazzini, «l’epoca passata, epoca che è finita con la rivoluzione francese, era destinata a emancipare l’uomo, l’individuo, conquistandogli i doni della libertà, della eguaglianza, della fraternità. L’epoca nuova è destinata a organizzare un’Europa di popoli, indipendenti quanto la loro missione interna, associati tra loro a un comune intento».

mercoledì 20 ottobre 2010

La Big Society secondo Cameron

Da Ffwebmagazine del 20/10/10

Si sono occupati del colore della sua cravatta, del fatto che abbia iscritto i suoi figli a una scuola pubblica, perfino della sua acconciatura: per carità, tutti spunti interessanti, ma francamente per valutare il primo ministro inglese forse varrebbe la pena di riflettere sul suo programma di governo, di cui una parte sarà discussa e votata proprio oggi in una seduta parlamentare, alla presenza del presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini.
Risparmi, razionalizzazioni, ma soprattutto nuova mentalità sulla scia della cosiddetta Big Society. David Cameron ha promesso di ridurre il disavanzo pubblico nel suo Paese, partendo da due presupposti: i dirigenti non potranno più percepire remunerazioni fino a venti volte maggiori rispetto a quelle degli operai, così come accade oggi; si renderanno necessari tagli a spese e sprechi. Innanzitutto ha annunciato una diminuzione delle consulenze esterne e una sforbiciata sulle indennità dei ministri. Oltre a un meno 10% del numero dei parlamentari e alla mancata sostituzione di tutti i funzionari prossimi alla pensione. Inoltre vi sarà una rinegoziazione dei contratti governativi, per allinearli non solo agli standard degli altri Paesi, ma soprattutto agli indici economici interni all’Inghilterra. Ciascun deputato potrà anche essere licenziato, in caso di episodi di acclarata corruzione.
Sul lavoro, Cameron intende avviare una stagione di riforme: come quella che prevede la possibilità per i cittadini di acquistare un pub o l’ufficio postale locale. Negli ultimi sei mesi ha definito fallimentare la politica economica dei laburisti: sia perché ha prodotto un deficit oggettivamente elevato senza avviare nuove forme di vivacità imprenditoriale; e soprattutto perché Gordon Brown non ha dato seguito alle rassicurazioni che aveva fatto ai cittadini quanto a tasse e valori imponibili. Quanto al welfare, intende aumentare l’età pensionabile a 66 anni (entro il 2024) oltre a ulteriori aumenti ogni due lustri. Riguardo alle privatizzazioni, sono previste per le Poste e meno regole per gli aeroporti. Sull'energia, si pensa a leggi ad hoc per ridurre emissioni di Co2, favorendo le fonti alternative e attivando in questo modo anche il comparto occupazionale della green industries.

Prime due intenzioni del neo inquilino del numero 10 di Downing Street saranno di non aumentare le tasse almeno per un biennio e, contemporaneamente, tagliare la spesa pubblica e gli sprechi nella pubblica amministrazione per un totale di circa sei miliardi. Nel comparto scuola si ritrovano alcune interessanti novità: prendendo spunto dall’idea che la vicinanza ai temi cosiddetti popolari della quotidianità, non è un’azione a esclusivo appannaggio dei laburisti, Cameron vorrebbe incrementare l’offerta scolastico-universitaria con più fondi a sostegno della scuola pubblica. E presentando un progetto di legge che conceda sgravi fiscali e agevolazioni solo alle classi meno abbienti. Il provvedimento rientra all’interno della cosiddetta deregulation economica.
Inoltre nel suo recente incontro con Papa Benedetto XVI, Cameron ha posto l’accento sulla filosofia tory della Big Society. All’interno della quale ogni cittadino si sforza di produrre benessere non solo per il proprio nucleo familiare, ma anche per la comunità sociale nella quale vive, lavora, trascorre i momenti liberi, cresce ed educa i propri figli.
Emulando il sistema degli obblighi sociali di un individuo nei confronti del suo pari, come strumenti di azione verso le moderne e mutevoli esigenze, condizionate anche dal drastico cambiamento socio-amministrativo in atto. Dove tutti gli attori sono obbligati a rendersi più responsabili. Tali intendimenti, uniti alle riflessioni concepite nel think thank “Res publica” fondato dal filosofo Philipp Blond, sostengono Cameron nella concretizzazione in politica spicciola del principio generale definito “capitalismo moderato”. Ovvero un nucleo di valutazione dove contano certamente idee e proposte, ma dove si fanno strada modalità innovative di intendere la cosa pubblica, non più entità astratta da immaginare irraggiungibile in una sfera di cristallo. Ma parte reale della vita di ogni cittadino, nella quale il singolo può offrire il proprio contributo per il miglioramento generale.
Utopia? Forse, ma come diceva Oscar Wilde «una carta del mondo che non contiene il Paese dell’Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l’Umanità approda di continuo. E quando vi getta l’ancora, la vedetta scorge un Paese migliore e l’Umanità di nuovo fa vela».

martedì 19 ottobre 2010

Immi, in Islanda il paradiso del giornalismno off-shore

Da Ffwebmagazine del 19/10/10

Paradisi fiscali? No, di notizie. In una società dove la rete è considerata un pericolo, quanto a fluidità di fatti e notizie, c'è chi si sforza di preservare capisaldi di democrazie ed esempi di liberismo. Quelle libertà di espressione e di informazione di cui sempre più spesso di abusa. Detto dei dossier patacca e degli esempi non certo edificanti di cui hanno scritto le cronache italiane degli ultimi tempi, nella piccola Islanda si sta tentando un esperimento epocale per rivoluzionare l'informazione globale. Birgitta Jonsdottir, deputata e blogger, ha animato un progetto di legge “Iceland modern media initiative”, (Immi), per strutturare un centro internazionale di giornalismo investigativo, grazie alla proposta di legge approvata lo scorso giugno dal Parlamento. Un manuale per combinare idealmente e nel modo più liberale possibile, la libertà di parola, la protezione delle fonti, la tutela delle idee contra.
Lì, a nord dell'Europa per creare l'alcova del giornalismo off-shore, con un intervento legislativo per dare ospitalità alla libertà di espressione. Materialmente qualunque giornalista o blogger del pianeta potrà iscriversi ad un portale, dove, con codici di accesso, scrivere e godere della stessa protezione negata, ad esempio, in molti Paesi dove i dissidenti non possono pubblicare i blog. O dove alcune notizie semplicemente non possono essere diffuse, come la legge bavaglio italiana impone. «La giustizia deve essere vista, la storia conservata», riflette da deputata islandese, e le notizie, vere, diffuse. Per andare oltre l'ingessata burocrazia del vecchio continente, gettando le fondamenta per un'isola di White dell'informazione, lontana anni luce da schemi e cavilli, ma con al primo posto la sua unica missione: informare.
L'obiettivo è trasformare la realtà in ciò che conosciamo ma che spesso manca, quando si apprende che l'Italia è al settantaduesimo posto al mondo per libertà di informazione. Ovvero indirizzare una tipologia di apprendimento verso una normalità percepita come semisconosciuta. Una vera e propria rivoluzione della conoscenza nella post-modernità massmediatica, nell'epoca dei dossier patacca e delle news globalizzate.
Nuove porte che si spalancano, quindi, neuroni che frettolosamente fuggono dalla pachidermica informazione politicamente corretta, e che si accasano nella terra di nessuno perché è di tutti. In un'isoletta dalle coste frastagliate e dalle sperimentazioni elettrizzanti, lì dove non si è mai spinto alcuno. Per rendere visibile il celato, educare all'ascolto ed alla comprensione: questo il passaggio chiave all'interno di un contenitore nuovo e non effimero. Anche per contribuire a far crescere il cosiddetto Pil della felicità, quello cioè che non risulta fondato esclusivamente su indici di carattere economico, ma affiancato dalla qualità della vita, intesa anche come opportunità di conoscenza. E se a promuovere questo strumento innovativo anche in Italia è un deputato che prima di appartenere al Parlamento è un blogger, significa che l'investimento sulla rete è da considerare di primaria rilevanza.
La Jonsdottir, infatti, è stata pioniera nel riversare sulla rete arte e letteratura, fondando due anni fa “Solitario”, una miscellanea di movimenti civili per stimolare una rivoluzione sociale, all'indomani del crack finanziario islandese. Muovendosi sulla direttrice di un'azione orizzontale, coinvolgendo in larga misura i singoli cittadini grazie a internet. Per questo considera i blog come l'affermazione della propria indipendenza. Un'occasione irripetibile di partecipazione dal basso, che sostiene di conseguenza la bontà del progetto Immi: conseguire la trasparenza totale, un'occasione di rinascita per il giornalismo, che sempre più spesso si mostra farraginoso e immobile dinanzi alle nuove sfide sociali e drammaticamente appassito davanti a una politica straripante.
Ecco le prime conseguenze di un paradiso off-shore del giornalismo: formare nuove generazioni che veicolino fatti ed opinioni, ed aiutandoli ad esprimersi senza le paure che caratterizzano i media di oggi. Perché penne libere (o sarebbe il caso di dire mouse e tastiere) devono essere in grado di trasmettere a tutti le quotidianità, diffondendo nuove storie e nuove lenti per leggere quei paragrafi. Insomma, quel giornalismo investigativo che svela l'ignoto, che smaschera impostori e detrattori, che siano da un lato o dall'altro della barricata. Che esplichino, ad esempio, le news della pubblica amministrazione, i cui portali sono spesso di difficile comprensione e decodificazione.
Di qui l'invito della deputata islandese a stare un passo avanti ai rispettivi governi, per essere completamente consapevoli delle potenzialità della rete. Anche perché esiste un crescente e costante conflitto tra internet e soggetti molto più potenti della rete, come gli stati nazionali, le multinazionali, i gruppi editoriali. Meccanismi di questa battaglia sono estremamente complessi, dove non vi sono solo le classiche e macroscopiche censure, come in India o in Cina, ma azioni secondarie di destabilizzazione, presenti anche in Paesi moderni e democraticamente avanzati. Portate avanti con altre forme, più morbide, ma ugualmente letali per l'informazione.
E allora l'invito della blogger-onorevole islandese è di organizzare istituti sovranazionali che tutelino la comunicazione in rete, che salvaguardino i clik come sinonimo di libera espressione di idee e news.
Anche e soprattutto in un'Italia multimediaticamente ferma al medioevo, dove per la banda larga il governo promette di investire solo cento milioni di euro, a fronte di un investimento dell'esecutivo di Sarkozy di due miliardi. Dove internet mobile in alcune aree è un'utopia e dove il settanta per cento delle famiglie si informa ancora solo guardando la televisione.

lunedì 18 ottobre 2010

Come ti racconto la "Nouvelle vague" pugliese


Da Ffwebmagazine del 17/10/10

Versi, schizzi di parole, elaborazioni d’autore, o di autori. Su quali latitudini e longitudini mentali far passare la carovana dell’apprendimento, sui tratturi di una regione ricca di storie e favelle? Possono tre volumi agili e impregnati di identità al contempo locale e globale, offrire lo spunto per descrivere il tessuto socio-letterario di una terra? Sì, se si sforzano di tracciare rotte e di spianare strade già battute, ma declinandole al futuro.

Filippo La Porta in È finita la controra, la nuova narrativa in Puglia, illustra la cosiddetta Nouvelle Vague pugliese. Con diciannove autori, nati tra il 1956 e il 1986, che tracciano le coordinate migratorie di una regione da sempre miscellanea di identità e culture. Il punto cardinale del Mediterraneo dove sono approdati coloni, fuggitivi, viaggiatori. E da cui sono salpati crociati, marinai, artisti. In cerca di qualcosa o di qualcuno, spesso in cerca di se stessi o di successo, i primi e i secondi, ma accomunati da un unico lembo di terra. Dove abbondano le contraddizioni, le disomogeneità, le differenze. Dove si incontrano e si scontrano opposizione e fascino alla modernità. Un pout pourri di sensazioni e di idee.

Come quelle intrecciate, diversamente, nel volume di Pietro Mita Rosso Novecento, la Puglia dai cafoni ai no global. Un libro locale che guarda al globale, dove si racconta il secolo che inizia a fare da sé, su cui non spira più il vento del nord. Con importanti testimonianze di lotta politica, in ambito sindacale e ambientale, con accenni all’intensa battaglia antinucleare portata avanti ad Avetrana. Con l’ausilio di una panoramica di figure minori eppure realissime, affrescate nel “loro stretto radicamento sociale”, come precisa Girolamo De Michele nella prefazione. Di cui l’autore si sforza di interpretarne le proiezioni future. Racconti di cafoni meridionali, la cui ricostruzione è utile per tracciare la genealogia del novecento in Puglia. E non al fine di creare l’ennesimo museo dell’accaduto, ma per sfruttarla come la ricerca dei perché di domani.

Un domani che, per essere compreso e affrontato, non può prescindere da un bagaglio storico definito e preciso: quello che Antonio Debenedetti disegna nel suo Un piccolo grande '900”, con i protagonisti culturali del secolo tratteggiati da un inquieto complice, con idee, spunti, proposizioni. Non un’autobiografia, ma un libro-intervista. L’autore è figlio del critico letterario Giacomo, allievo di insegnanti illustri come Giorgio Caproni e Giuseppe Ungaretti. In quelle pagine ripercorre gli scrittori che hanno frequentato la sua casa, instillando nel giovane Antonio curiosità e stimoli. Giungendo, ad esempio, alla consapevolezza che l’esistenza di un maestro è direttamente proporzionale al riconoscimento come tale da parte di altri. Un bilancio, quindi, da Soldati a Moravia, da Cardarelli a Bellezza, da Fellini a Penna, non per rammentare polverosamente un passato lontano, ma per offrire alle nuove generazioni uno strumento idoneo per affacciarsi alla militanza letteraria. Da cui, poi, generare pensieri e parole in libertà.

Tre volumi, agli antipodi per impostazione e modalità di scrittura. Affini, circa il sottile nesso tra globalità e località. Intrecciati, quanto a voglia di preparare il lettore alla comprensione del futuro prossimo.
Nella consapevolezza che l’ingegneria della cultura va preservata da bacilli mortali, in quanto sarà solo quello slancio ideale che prende il nome di arte, poesia e letteratura che, non solo racconterà un passato e un’identità. Ma farà un passo in più, in quanto curerà il passaggio dall’oggi al domani, da un passato e da un presente già vissuto e consumato, ad un futuro tutto da scrivere. Dove il racconto si farà ancora più prezioso. Perché, come ha scritto Antonio Debenedetti, “la vita che si ha davanti è l’unica vera superiorità che un uomo possa contrapporre a un altro”.

giovedì 14 ottobre 2010

Il moderno Orient Express sui binari della rete


Da Ffwebmagazine del 15/10/10

Spezie, fragranze lontane, aliti di un mondo agli antipodi dell’altro. E poi pensieri, incontri, colori differenti di pelle, inclinazioni del viso e barbe scure. Quando il 4 ottobre del 1883 la Compagnie Internazionale des Wagons Lits battezzò la prima corsa transfrontaliera dell’Orient Express, in quel preciso istante fece una scommessa: coraggiosa, difficile ma, per questo, ancor più affascinante. Unire fili di due poli, ripercorrere un lembo di storia e di culture che l’Impero Romano aveva fatto incontrare. Oggi, a distanza di centoventisette anni da quella prima corsa, cosa ne è dell’incontro-confronto tra due civiltà? Se non la politica, l’economia, potrebbe essere allora la rete a unire nuovamente due monoliti in cerca di alleanze, interpretando così proprio il ruolo ecumenico che fu dell’Orient Express?

In quel viaggio inaugurale, il prezioso treno sostava a Strasburgo, Monaco, Vienna, Budapest. A Giurgiu, in Romania, i passeggeri erano accompagnati in traghetto lungo il Danubio sino in Bulgaria. Per riprendere il treno verso Varna, da dove terminare l’eccezionale tragitto in quella destinazione finale. Lì, in un incredibile pezzetto di mondo dove Oriente e Occidente si sfiorano, si annusano. E magari si riflettono nelle loro differenze, ma anche nelle peculiarità, nelle possibili affinità, nelle improvvisazioni, nelle forzature. Sino a ricercare i punti in comune.

Ma Orient Express è anche sinonimo di espressioni culturali, non solo un viaggio su rotaia dunque, ma una mescolanza di lettere, racconti, poesie, affreschi che, nell’ultimo secolo, prendendo spunto dalla traversata, hanno spinto nelle arti le coordinate di un viaggio unico. Come Assassinio sull’Orient Express, scritto da Agata Christie in una camera di hotel a Istanbul. O come il romanzo fantasy di Ewn Garabandal Feha Gibuss e il libro della profezia. Passando per uno dei più belli episodi di James Bond, 007 dalla Russia con amore, dove Sean Connery fugge dalla Turchia proprio su quel treno. Senza dimenticare due brani musicali, uno dei Pooh dell’album Un po’del nostro tempo migliore e Il treno blu dei Matia Bazar.

Ma come vivono e si osservano oggi, nel pieno della globalizzazione, Est e Ovest? Dove con un click tutto è più tangibile, dove con gli ebook nessuno potrà lamentarsi di essere tagliato fuori. Dove le essenze del Bosforo potranno giungere sin alle rive dell’Arno. Per fondersi, guardarsi negli occhi, capirsi, parlarsi. Come fatto, due secoli fa, da quattordici viaggiatori italiani, i cui racconti sono stati al centro di una mostra a Roma presso la Società geografica Italiana “Cose turche”. Uomini, storici, artisti: alcuni desiderosi di apprendere caratteristiche del luogo e tratti somatici, altri poco avvezzi allo scambio. Gli scritti espongono i pregiudizi dell’epoca, i passi in avanti, ma anche le delusioni, le vittorie sociali, gli insegnamenti di aggregazione socio-economica. Il più noto dei quali è quello di Edmondo De Amicis, datato 1877 e vergato in quel di Costantinopoli.

È bello che in un momento socio-culturale dove la tecnologia rappresenta la vera rivoluzione umanistica, con la rete, una mostra con libri datati e racconti del tempo che fu, fa rituffare occhi e menti indietro di centinaia di anni. Ecco la sintesi degli strumenti, punto di rottura tra un passato a volte lento nelle sue manifestazioni conoscitive, figlio della pochezza oggettiva rispetto a oggi di mezzi. E un presente a volte troppo rapido nel guardare distrattamente e catalogare informazioni e storie. Quelle storie che, invece, sono proprio il punto di partenza per capire, per conoscere e finalmente, anche grazie alla tecnologia, per incontrare l’altro.

Un nuovo Orient Express, allora, sta tutto nei social network, dove far passare affetti e news, dove far viaggiare il treno dell’integrazione, dello scambio culturale. Senza i quali non si avrebbe notizia dei dissidenti del mondo, degli eroi iraniani dell’Onda Verde di Teheran, del martirio intellettuale dei blogger cinesi. Spiriti che vorrebbero salire su quelle carrozze, per attraversare steccati, per annusare nuove fragranze, per arrivare lì dove, nel 2010, c’è ancora chi impedisce loro di andare liberamente.

mercoledì 13 ottobre 2010

La lezione della Montessori: scuotere l’intelligenza stagnante


Da Ffwebmagazine del 13/10/10

«La libertà - diceva Wayne La Pierre - non è mai uno stato definitivo. Come l’elettricità la si deve continuare a generare, oppure finisce che le luci si spengono». Ma deve anche essere integrata con un altro stato, anch’esso per nulla definitivo: l’istruzione.
Il sapere e il conoscere rappresentano la linfa della libertà. E i due elementi, insieme, si avvinghiano attorno al cervello umano, rendendolo libero, lontano anni luce dalle schiavitù mentali. Indipendente nel costruire valutazioni e opinioni, lucido nel discernere tra il vero e il falso, tra l’apparente ed il profondo, slegato da appartenenze polverose e genuflesse, pronto ad osservare il circondario senza lenti preventivamente tarate.
Perché senza istruzione e senza libertà, semplicemente l’uomo si presenta come acefalo, privato della sua anima. E come stimolare la percezione dell’anima all’interno di individui che si apprestano a formarsi? Come sfruttare quel tasso di vivacità mentale che ad esempio i bambini possiedono nei primi anni della loro vita? E che risulteranno fondamentali per investire sulla relativa formazione, per metabolizzare dati e sensazioni. Che comporranno in seguito ogni singolo assemblamento di neuroni.

L’energia creativa e la libertà per educare i cittadini di domani, nel ricordo della grande lezione dell’italiana Maria Montessori, celebrata dall’Italian Heritage & Culture Month di New York, dove per venti giorni la Grande Mela offrirà tutti gli onori ad un grande cervello nostrano, in occasione del mese della cultura italiana 2010. La pedagogista e medico marchigiana, sosteneva la strategicità della libertà dell’allievo, senza la quale il bambino non può alimentare il relativo desiderio di creatività. Lo identificava come un essere completo, in grado di animare autonomamente funzioni creative all’interno di disposizioni morali, come i sentimenti.
Stella polare del suo credo, la libertà. Che consente al bambino di esprimere quella verve ideale già presente nel suo dna, ma che senza la spinta propulsiva dell’iniziativa in un campo di azione aperto ed autonomo, non riesce ad emergere completamente. Rimanendo inespressa, monca, come un fiore sbocciato a metà che, per quanto variopinto e profumato, non assolve interamente al suo compito.
Ma la libertà è come uno scrigno, prezioso ma altamente protetto, al cui interno si trova anche dell’altro. Da dove emerge il suo naturale controbilanciamento, ovvero la disciplina. Un soggetto disciplinato sarà in grado di difendere non solo la propria libertà, ma anche quella degli altri, nella comunità in cui vive. Anche arrivando a limitare la portata della propria personale libertà, pur di rispettare la regolare espressione di quella altrui. Ma la rivoluzione educativa della Montessori non si limitò solo all’elogio della libertà pura, ma si espanse sino all’introduzione della scienza nella costruzione del nuovo individuo, dove il fulcro del procedimento di ingegneria educativa non è il bambino in quanto tale.
Ma paradossalmente la scoperta del bambino, in un quadro di creatività spontanea e non artefatta. Perché ancora inespressa, allo stato primordiale. Su questo input sostenne l’esigenza di contrastare l’analfabetismo, piaga che esclude, una sorta di deficienza linguistica che non consente comprensione e, quindi, partecipazione.
Una lezione tremendamente attuale, dove la mancata conoscenza e assimilazione di fatti e di opinioni produce il caos. Prima è necessario acquisire la parola, dunque, attendere che “si posi sulle menti” e che si cementifichi in questo passaggio migratorio di favella. E poi si moltiplichi, grazie ai mezzi di comunicazione. Anch’essi da educare e alfabetizzare.
La Montessori sosteneva che l’alfabeto fosse la più straordinaria conquista dell’umanità, utile non solo per apprendere ma anche per offrire nuove versioni grafiche del messaggio iniziale. E allora sarebbe molto utile ricominciare proprio dalla lezione della pedagogista italiana, quando in Formazione dell’uomo: analfabetismo mondiale, rileva che è necessario «rinnovare dall’inerzia l’intelligenza stagnante».
Per stimolarla a pensare liberamente, a formarsi in totale autonomia, dotata di quella forza centrifuga in assenza della quale i neuroni vengono schiacciati dalla massa generale, quella che ingloba forzatamente, quella che racchiude sotto lo stesso abbraccio pensieri e idee che, invece, devono viaggiare e riprodursi da sole.
E libere.

Scuola e politica: gli squilibri di un corto circuito italiano

Da Ffwebmagazine del 12/10/10

Cosa succede se in periodi di recessione, il corto circuito tra cittadini e politica è infiammato da un altro fattore di deficienza? Quali scenari prevedere se gli individui si impoveriscono e hanno meno diritti, mentre certa politica dai modi intemperanti aumenta privilegi e godimenti? Come spiegare tale scollamento abnorme tra vita quotidiana e seminterrato dorato dove vivono e pontificano certi amministratori?
Nei giorni in cui le piazze italiane hanno visto sfilare e protestare non solo gli studenti, ma anche genitori, ricercatori, insegnanti, bidelli e precari, è avvilente apprendere, quasi con una tempistica beffarda, che in alcuni consigli regionali d’Italia si può andare in pensione a cinquant’anni. E non per chissà quale condotta illegale, ma proprio perché la legge lo consente. Ecco il paradosso sociale che attanaglia il Paese e che, sempre più spesso, subisce una pericolosa sottovalutazione da parte di chi con le parti sociali e con i cittadini che ogni giorno sono in prima fila, dovrebbe conciliare esigenze e contingenze.

Una legge regionale del Lazio, tanto per fare un esempio, consente agli ex consiglieri (che già godono di uno stipendio spropositato rispetto ai colleghi europei) di andare in pensione a soli 50 anni, mentre il resto del Paese deve attendere almeno i 65. È sufficiente quindi anche una sola consiliatura per avere un vitalizio di 1.800 euro, che possono lievitare sino a 4.000 per chi abbia collezionato più di due mandati.
Questa cosa, strana, lontana anni luce da concetti come opportunità ed armonizzazione socio-economica di una nazione, prende il nome di “pensione politica” e non è una bella immagine che si offre, a fronte di centinaia di aziende italiane in difficoltà, con migliaia di disoccupati o in cassa integrazione di cui pochi mezzi di informazione si occupano. Ma tale dato, triste e dequalificante per un Paese che si dice democratico, fa sì che si riapra il dibattito sull’emergenza educativa. Perché di emergenza si tratta e non del corteo di quattro o cinque scalmanati. Che, guardando le immagini, scalmanati non sono.

Nel rapporto-proposta della Cei intitolato “La sfida educativa” si legge proprio che nel sistema Italia è sottile l’uguaglianza dei punti di partenza; sono deboli la scuola, l’università e la ricerca, poco inclini a premiare il "merito", inteso come strumento di promozione ed elevazione sociale. Come più volte ribadito dal Presidente della Camera Gianfranco Fini, la cosiddetta emergenza educativa è figlia di mentalità, culture e comportamenti che esprimono una visione riduttiva dell’uomo e della sua libertà. Per questo è necessario intervenire sui disagi provocati dai tagli: e la scuola ne incarna l’esempio più impellente.

Quando a una folla che chiede delucidazioni e confronti, la politica risponde arroccandosi sempre più in alto sul cucuzzolo degli infiniti privilegi da casta, commette un doppio errore. Svilisce il proprio ruolo, offrendo il fianco a facili critiche e soprattutto non risolve un problema che non è più procrastinabile. Ecco allora che quella famosa politica con la P maiuscola, quello strumento tanto invocato in occasioni ufficiali, come le inaugurazioni di nuovi poli o i comizi in campagna elettorale, dovrebbe dare un segno. Forte e risolutivo. Perché allora nella conferenza stato-regioni non ragionare su un nuovo patto sociale? Dove tutti i consigli regionali d’Italia- anche quelli con statuto speciale- votino una leggina per equiparare l’età pensionabile dei consiglieri a quella degli altri cittadini, cassando assurdi privilegi, che inaspriscono ulteriormente il disagio sociale del Paese.

Sarebbe una risposta efficace, e alta, a un grido di dolore che proviene da uno dei comparti più significativi di una comunità. Senza dimenticare che i deterrenti di oggi all’educazione prendono il nome di relativismo, individualismo, ignoranza, pressappochismo, smembramento sociale. Se invece ci si rapportasse all’educazione considerandola un valore portante della società, non si otterrebbe solo un beneficio per quel singolo ambito. Ma si ritornerebbe finalmente ad investire nella conoscenza e nelle risorse umane, di chi è chiamato a formare nuovi individui e nuovi soggetti professionali.
Sicuri che la politica ne abbia compreso la straordinaria importanza?

sabato 9 ottobre 2010

"Non chiamela cultura": quella di Bondi è autocritica?

Da Ffwebmagazine del 09/10/10

Sandro Bondi al Foglio: «C’è un corto circuito tra cultura e politica: la prima tracima di continuo nella militanza politica, rinunciando al dovere della conoscenza, alla riflessione, al ragionamento. E in questo trova sostegno nei media che drammatizzano le notizie». Finalmente il ministro della Cultura ha capito dove ha sbagliato, lui e il partito al quale appartiene. Spingendosi poi a proporre un osservatorio permanente sullo stato della cultura, «perché la politica non ha bisogno della cultura, non ottenendo da essa nulla di più che mera merce ideologica».

La domanda sorge spontanea e non provocatoria, ma seriamente posta: per caso ha avuto modo di guardarsi allo specchio? Scorrendo i quadri del fu Pdl, si apprende che il nostro, oltre ad essere Ministro dei beni culturali, è Coordinatore nazionale del Popolo della Libertà e, dulcis in fundo, anche responsabile tematico dei Promotori della Libertà per la cultura e la formazione. Un ruolo di primissimo piano, affidato solitamente a chi con cultura e formazione dovrebbe avere dimestichezza: non solo nel merito, ma soprattutto nel metodo.

Il momento di difficoltà della cultura italiana è sotto gli occhi di tutti. Nel suo Per ragionare Mario Capanna scrive che «stiamo subendo un pericoloso arretramento culturale, etico e politico: più che interrogarsi e riflettere prevalgono il tifo e la delega, l’apatia ha soppiantato la partecipazione consapevole, e così la democrazia diviene esangue». Proprio dal riferimento al tifo sarebbe interessante partire per riflettere serenamente sullo stato delle cose. Ha ragione Bondi quando afferma che la cultura sta rinunciando a ragionare. Ma non è sufficiente lanciare il grido di allarme e immediatamente dopo coprire le mancanze e le deficienze di quella cultura che, ad oggi, sono sotto gli occhi di tutti. O quasi.

Non sarà quel cappello militaresco da caserma che salverà il patrimonio intellettuale di un Paese. Non sarà giustificandosi con il più classico “da noi va tutto bene” che si ritroverà un filone degno di nota. Non sarà con una dedizione stomachevole e mortificante che si educheranno alla libera produzione di neuroni le future generazioni: di tutti i credi politici, sia chiaro. Lo spirito della cultura, invece, deve essere quello di mettere in difficoltà la politica, pungendola nelle sue debolezze, poggiando una lente di ingrandimento sui suoi difetti. Amplificandoli, osservandoli, scomponendone azioni e direttive per assaporarne mete e modalità. Per carpirne le criticità, o le illusioni. E non per masochismo, o per controcantismo, o per sciacallaggio elettorale. Ma, piaccia o no, per mera voglia di miglioramento.

Una cultura che si appiattisce, che non alza il dito per avanzare un dubbio, che ha sempre una certezza aziendale, alla lunga, diventa sterile e, come afferma correttamente Bondi, semplice merce ideologica. In quanto rende inutile la partecipazione attiva, lo spirito di intraprendenza mentale, che ne dovrebbe rappresentare il carburante primario. Quella benzina è la discussione: aspra, libera da steccati e imposizioni, che spazia, sorda ai richiami di scuderia della politica.

La discussione, ha osservato recentemente il Presidente della Camera Gianfranco Fini, presentando proprio a Montecitorio quel volume di Capanna, è il sale della democrazia, anche e soprattutto quando le opinioni non coincidono. È la diversità di idee che fa nascere il dibattito. In una società democratica, infatti, la ragione non deve per nessun motivo assopirsi, o mostrare segni di cedimento strutturale. Né rinunciare ad un ruolo attivo anche di pungolo e stimolo, interrogandosi e soprattutto interrogando. Perché se così non fosse si otterrebbe niente altro che lo svilimento dell’humus politico, di quell’involucro dove la cultura politica deve radicarsi e germogliare. Per trasformarsi in proposte e osservazioni. Nell’interesse di tutti.

venerdì 8 ottobre 2010

Il Nobel al cartografo delle strutture del potere


Da Ffwebmagazine del 07/10/10

Un Nobel ad uno scrittore che non è stato solo eccellente in quanto tale, ma che ha svolto il ruolo di un “cartografo delle strutture del potere”. Al 74enne Vargas Llosa da Arequipa, l’ambito premio conferitogli dall’Accademia Svedese. Lui, il letterato peruviano che vede la letteratura come una missione sociale e civile. Sì, civile, in quanto è sempre stato portato a ritenere che le lettere, la favella e gli scripta potessero essere di stimolo agli individui. E come?
Llosa parte dal presupposto che il più grande errore della sua generazione sia stato quello di giustificare, in qualche maniera, le espressioni autocratiche, le forme dittatoriali. Adducendo il marxismo come unica alternativa. E non concentrandosi sufficientemente sulla letteratura, all’interno di una porzione sociale dove trionfi il liberalismo di massa. Sulla base di tale direttrice affida proprio alla letteratura un ruolo ben definito e altamente responsabile: un ruolo civile. Perché le parole, le immagini, i racconti, le poesie e i ragionamenti, fecondano la rete immaginaria del singolo uomo. Annaffiano di speranza neuroni che attendono solo la scarica iniziale, utile per avviare un percorso celebrale che condurrà alla produzione di idee, di consapevolezze, di sogni, di timori, di domande, di azioni.

Un quadro che, in quanto tale, fa paura ai grandi sistemi, che vedono nella capacità del singolo di formarsi mentalmente in libera autonomia creativa, un pericolo alla solidità della propria dittatura. Per queste ragioni esse hanno sempre mirato a stabilire un controllo sugli intellettuali, sulla produzione letteraria, e anche sul panorama informativo.
Recentemente Llosa si era anche occupato dell’Italia, osservandola con scrupolo e con un pizzico di tristezza, quando aveva ragionato sul fatto che nel Belpaese fosse affiorato ciò che aveva definito, con un’ espressione decisamente illuminante, “l’illusione italiana”. Compresa e resa fruibile al pubblico, dal punto di vista di un liberale vero, schietto e continuo, per nulla appartenente alla schiera di quei liberali buoni per tutte le stagioni o per tutte le casacche. Da quel trespolo infatti aveva osservato il berlusconismo, giungendo alla conclusione che il popolo italiano è illuso a causa di una deriva antiliberale. Concimata da condotte populiste, oltre che da svariate mistificazioni di un sistema. Che si dirige così nel caos. Vana inoltre la speranza che un individuo forte e dotato di una straripante immagine pervasiva, fosse inquadrato dalla gente come risolutiva panacea ai trentennali mali del Paese. Mali che, ad oggi e dopo provvedimenti ad hoc (o, meglio, ad personam), non solo rimangono inguariti, ma si moltiplicano ancora, come una metastasi anche mentale.

E’il manico, dunque, a non essere adatto, secondo Llosa: perché in virtù di certe impostazioni da reclame, con gesti clamorosi ed appariscenti (come i depliant di risultati raggiunti) non si costruisce una risposta credibile ed efficace. Ma solo paraventi di plastica, contrapposti ad esigenze maledettamente reali. Che della plastica, francamente, non sanno cosa farsene.
Ecco la lezione del Nobel: l’illusione momentanea che l’autoritarismo possa produrre benefici, è destinata a causare altri mali. In quanto tarpa le ali a nuove proposte, appiattisce i neuroni, blocca sul nascere gli impulsi provocatori che vorrebbero scompaginare, impedisce il libero assemblarsi di nuove e differenti opinioni. Insomma, crea genuflessione.

Wi-fi, proposta bipartisan per una rete libera


Da Ffwebmagazine del 08/10/10

Ha detto recentemente Gavin Newson, sindaco di San Francisco, che se un bel giorno tacessero tv e giornali, i cittadini sotto i trent’anni non se ne accorgerebbero. Perché sono i primi fruitori della rete e delle straordinarie opportunità che internet offre: non solo di dialogo sociale, di contrapposizione o di incontro, ma anche di occasioni professionali. Quindi di sviluppo economico.

C’è un Paese nell’Occidente moderno, però, che sta sottostimando apertamente e pericolosamente la risorsa della rete. Quello stesso Paese che in una legge del 2005, il cosiddetto decreto Pisanu, impone all’utente intenzionato a collegarsi a internet mobile di identificarsi preventivamente. Nell’articolo 7, infatti, è prescritta una simile condotta per prevenire il rischio attentati. Ancora una volta la paura, vero cancro del terzo millennio, blocca il raggiungimento di un obiettivo. Un limite all’accesso wi-fi, non dettato quindi da gap tecnologici, o da censure dittatoriali in stile iraniano, bensì da un timore. Lecito chiedersi: è proponibile un modello di azione amministrativa dove lo Stato sacrifichi un diritto dei cittadini sull’altare della paura?

Su questo filone si è inserita l’iniziativa legislativa bipartisan alla Camera, per cancellare quelle norme che, di fatto, sbarrano la strada a internet più libero. E firmata dai deputati, Barbareschi (Fli), Lanzillotta (Api), Rao (Udc), Gentiloni (Pd). Complottisti? No, onorevoli che hanno compreso come la rete rappresenti un’ indiscutibile opportunità di sviluppo che un Paese moderno e responsabile, ha il dovere di incentivare. Ma su quali premesse?

Come più volte ribadito su queste colonne, ad oggi in Italia le reti wireless non sono completamente aperte, anche a causa di una certa sottovalutazione che il governo ha accusato circa internet e la banda larga. Ha ancora senso, allora, applicare costumi antichi a soggetti nuovi? Quale vantaggio si avrebbe nel voler burocratizzare oltremodo uno strumento rapido e rivoluzionario come la rete? Sarebbe il trionfo dell’anacronistico, una condotta semplicemente rivolta al passato. E, di conseguenza, deleteria. Perché la rete afferma proprio questo, quando si descrive come una vera rottura rispetto ad un tempo dove i collegamenti telematici erano fantascienza.

E ciò andrebbe metabolizzato rapidamente dal momento che, come ricordato pochi giorni fa dal Presidente della Camera Gianfranco Fini accogliendo a Montecitorio Jeremy Rifkin, «ci stiamo dirigendo verso il mondo dell’empatia perché la società umana è arrivata ad un alto grado di interconnessione grazie allo sviluppo tecnologico». Oggi, parafrasando l’economista e saggista statunitense, viviamo accanto alla cosiddetta “Generazione del Millennio”, ovvero la prima generazione della storia cresciuta a pane e internet, e già in perfetta osmosi con i social network. Questo quadro, secondo Fini, disegna un’icona di speranza, in quanto volgendo lo sguardo al prossimo ventennio consente di osservare i nuovi 40enni, che potranno vivere in un alveo sociale più libero, con reti maggiormente collaborative. Su tutti i fronti.
E allora una politica lungimirante e responsabile dovrebbe non guardare all’opportunità “internet” affidandosi al vecchio arnese dello specchietto retrovisore, ma mostrarsi più consapevole verso ciò che è già dinanzi a tutti. Legislatori compresi.

giovedì 7 ottobre 2010

Elogio dei nomadi, contro il cronometraggio dell'esistenza


Da Ffwebmagazine del 07/10/10

Il viaggiatore ha nel dna il gene dell'indipendenza cronica, la predisposizione all'improvvisazione, al cambio di rotta geo-sociale. Egli marca le distanze «dal sangue della razza e dal borgo natio». Per questo viaggiare è dichiarare «guerra al cronometraggio dell'esistenza». A quelle città dov'è imposta una presenza fissa a una data ora, a causa di immutabili ritmi, mentre il nomade rifugge da queste coordinate.

Perché oggi i nomadi appaiono pericolosi? Perché simbolo di libertà, che inquieta «i poteri, diviene l'incontrollabile, l'elettrone libero impossibile da seguire, dunque da fissare, da delimitare». Contrapposti ai sedentari, amanti del sicuro, dello stabile e certo. Dove i primi prediligono la strada, lunga e interminabile, “sinuosa e zigzagante”, e i secondi si rallegrano per la riscoperta della «tana, buia e profonda, umida e misteriosa». Ecco le due figure della storia che si specchiano e si rifiutano, due modi agli antipodi di interpretare società e tempi, due visioni contrapposte della vita.

Presenti negli infiniti ragionamenti di Michel Onfrey, fondatore dell'università popolare di Caen e di quella popolare del gusto ad Argentan, che dopo cinquanta libri, fra cui il più noto Trattato di ateologia, fa perdere il lettore nel fantastico oblio di Filosofia del viaggio - poetica della geografia. Non un libro illustrato, né un pamphlet, né un volume di pensieri astratti, né di perfide elucubrazioni, ma pagine di sensi puri e semplici. Che si srotolano lungo il filo dell`esistenza, per rammentare all'uomo ciò che ha drammaticamente perso negli ultimi anni: proprio i suoi sensi. Il toccare pagine di atlanti e di libri, l'osservare tramonti africani o passaggi di mani e di gambe, l'immaginare il luogo più affascinante dove recarsi prima di morire, magari sul Bosforo dove Oriente e Occidente si sfiorano, il gustare cibi di latitudini lontanissime o sperimentare profumi ancestrali. Il sognare mete proibite, per sentirsi liberi, quindi non classificabili, non allineati in forme precostituite, non malleabili, non inseribili in finche anguste che impediscono movimenti. Ma lucidi nel proprio percorso, elastici in cambi di rotte e repentine inversioni.

«Ogni geneaologia si perde nelle acque tiepide di un liquido amniotico - scrive Onfray - quel bagno stellare primordiale dove scintillano le stelle con le quali, più tardi, si creano mappe del cielo e poi topografie luminose». Ed è proprio nei riflessi di quell'acqua “lustrale” che nasce il moto del viaggiare, l'intenzione intima e confusa di avviare una partenza. L'autore tratteggia i protagonisti di questa scelta con un riferimento al nomadismo: «Si diventa nomadi impenitenti solo se iniziati nella propria carne fin dalle ore del ventre materno, arrotondato come un globo o un mappamondo». Un ragionamento nel quale emergono due figure controverse ma altamente esplicative, che si pongono esattamente ai poli l'una dell'altra. Da un lato i pastori, impegnati storicamente nel pascolare le greggi senza però condizionamenti di carattere socio-politico. E poi i contadini, indaffarati nelle pratiche di insediamento, pronti a costruire convivenze e dogmi. Dove quindi può «nascere il capitalismo e con esso può spuntare la prigione». Un ordine così scrupolosamente impostato, che viene incrinato solo da elementi che inquietano chi quei fili vuole controllare. Ecco il ruolo dei nomadi, variabili impazzite nel mappamondo moderno.

Il libro è un trionfo delle metafore geografiche, dove il fiume è contrapposto all'albero, come movimento e stabilità. O l'acqua dei ruscelli, fluente e inafferrabile, viva e pulsante, contro la «mineralità delle pietre morte». Onfrey spiega che tutte le ideologie dominanti esercitano il controllo, il dominio, addirittura la violenza verso i nomadi. E porta a sostegno alcuni dati storici: il nazionalsocialismo tedesco che elogiò sino a folli limiti la razza ariana e sedentaria che focalizza i propri nemici negli ebrei e zingari, nomadi senza radici, in quanto già globalizzati, multipresenti, senza inizio e senza terra materiale. Medesimo impulso alla base dello stalinismo russo, concentrato ad emarginare genti caucasiche e pastori siberiani. Per arrivare all'oggi, dove il capitalismo si comporta allo stesso modo contro chi non è assimilabile al mercato, semplicemente confinandolo ai margini: sotto i ponti, nelle stazioni suburbane, dequalificando corpi e dimore.

Partire equivale a sperimentare nuove concezioni, scevre da contaminazioni conservatrici, dove il viaggiatore porta in tasca il proprio gong perché non soggiace alla «clessidra del tempo canonico». È mosso da una spinta propulsiva unica, mentre si incammina in quel nuovo viaggio, un'energia che lo spinge in oscuri tratturi, su rotte ormai in disuso, «su aria attraversata da correnti invisibili». Un libro di stimolanti interrogativi: ad esempio, come intendere il mondo tramite una mappa che lo svilisce a target prefissati? «È il planisfero - si chiede, e fa chiedere al lettore - che appare minuscolo con il mondo vasto, o l'inverso?».

Ma il viaggio serve anche per lanciare un allarme: mai nessuna società come l'attuale ha tentato di ridurre i contenuti a icone, «scannerizzate, pixelizzati, a discapito di testi e pagine di libri». Segnando così una crociata intellettuale del virtuale contro il reale. Ecco il pericolo di una tecnologia utilizzata in modo fuorviante, perché se di buono ha che avvicina luoghi e siti lontani confinandoli in schermi e pc, di contro allontana sempre più il viaggio vero. Da cui secondo Ofrey è indispensabile ripartire, per elogiare il valore delle carte, dei libri, degli atlanti, da sfogliare, toccare, stropicciare, rivedere con insistenza, segnando quelle pagine, portando l'indice sul sito di interesse: questo determina un immaginario fertile, propellente per il desiderio di movimento. Ma dove inizia il viaggio? Dalla lettura, che rappresenta l'alfa, per cercare un luogo sconosciuto, in un'esaltazione culturale prolungata e non limitata alla contingenza di un istante o di un frame video. Viaggiare, e bene, rimarca l'autore, è sregolare tutti i sensi, per poi riattivarli immediatamente dopo e incanalarli simmetricamente.

Leggere vuol dire «entrare nei meandri pulsanti dell'immaginario di una soggettività impregnata del luogo». Per questo il poeta si erge a veicolo per trasmigrare sensazioni e percezioni, paure e assonanze, inflessioni e visioni critiche. Tutte immagini che devono stimolare la reazione del singolo. Dunque il desiderio di viaggiare va coccolato, alimentato dalla ricerca non della ricchezza materiale di luoghi e popoli. Ma dalla agiatezza delle diversità, dalla multipresenza di opposti, da dove far dipendere l'inizio di quel viaggio.
Che parte proprio da una chiave, inserita nella toppa di una porta, da richiudere prima di avviarsi. E alla quale fare rientro, ma solo il tempo per ridisegnare un itinerario e ripartire. Alla volta di un altro sogno.

Michel Onfray
Filosofia del viaggio
Ed. Ponte alle Grazie
pp 114, euro 12,50