domenica 17 aprile 2011

Luca Sofri: «Basta, non ispiriamoci più ai modelli peggiori. Solo così cambieremo l'Italia»


Dal Futurista del 15/04/11

Un grande paese, l’Italia tra vent’anni e chi la cambierà non è solo un auspicio o un sogno. Ma il titolo che Luca Sofri ha dato al suo ultimo libro e non per il vezzo di pensare, così come qualche penna distratta ancora giudica certi sforzi. Ma per ragionare antropologicamente sul male interno all’anima del paese, dove si sviliscono le eccellenze, per insicurezza, per fobismo, per sciatteria. E si preferiscono, invece, i modelli mediocri o tristemente normali, che “assomigliano a tutti noi e con i quali non corriamo il rischio di sentirci in competizione”. Ma, di fatto, voltando lo sguardo lontano dagli esempi migliori.

Finalmente un libro pro e non contro: non sarà che il filone ottimistico, ma realistico, era proprio quello che mancava ad un’analisi sul futuro?

Premetto che guardo con grande disincanto alle possibilità di cambiare in meglio le cose di questo paese. Semplicemente dico che, non essendo convinto delle categorie di pessimismo ed ottimismo, reputo il disincanto e la lucidità scarse e mediocri prospettive. E non influiscono sul desiderio o anche sull’inclinazione a cercare di fare le cose giuste.

Affetto e orgoglio: la base di partenza e poi l’obiettivo finale per l’Italia. Ma come arrivarci?
Avendolo presente, in seguito i modi ed i percorsi possono essere molti. Decidendo e coinvolgendo più persone possibili nell’idea che l’Italia ci interessa, al pari della sua identità, delle sue prospettive, e non che siamo sempre minoranza. C’è una tendenza da parte degli italiani che hanno care le cose buone giuste, a pensare che l’Italia sia un’altra cosa diversa da loro. Che siano minoranza in un’Italia che invece è vista come un luogo comune di dati negativi e difetti. Le persone si facciano carico dell’essere loro l’Italia, per poter diventare maggioranza e non per autocompiacersi di essere minoranza.

L’idea di miglioramento come carburante che autoalimenta la felicità del singolo e degli altri: come farlo metabolizzare ai cittadini?
È molto difficile. Una prospettiva di cui parlo nel libro è la soddisfazione di sé, l’autostima: un motore fortissimo nelle scelte contemporanee degli individui, ma non deve essere ricercata con metodi fallimentari. Oggi abbiamo tutti molto bisogno di affermare noi stessi, farci notare: è una continuazione nelle cose che facciamo. Che poi applichiamo su cose assolutamente futili e a breve scadenza. Fallimentari anche rispetto alla nostra soddisfazione da vanità, perché non siamo così stupidi da compiacerci seriamente dal fatto di poter affermare appunto di aver avuto ragione su una piccolezza. O di aver notato un dettaglio prima di altri. La propria soddisfazione del sé, trae in realtà nutrimento da elementi più rilevanti. In un tempo in cui non è più possibile, inevitabilmente, usare come motore l’altruismo, la generosità verso il prossimo, credo vadano presi in considerazione altri parametri: l’autostima, l’essere contenti di se stessi per fare le cose giuste e comportarsi bene; e un sentimento che non è la generosità verso un prossimo sconosciuto, ma verso chi ci somiglia per allargare il più possibile questa prospettiva. Fino a far diventare maggioranza un’idea di nostri simili.

E quel conflitto tra elitismo e antielitismo nel quale il paese è soffocato?
È un tema abbastanza centrale in un passaggio successivo del libro, circa i mezzi con cui portare avanti la possibilità di cambiamento delle cose. Ovvero il percorso all’indietro che abbiamo fatto nel coltivare e far crescere una disistima verso la straordinarietà delle persone, come quelle con capacità particolari, rispetto a ruoli, competenze e situazioni. Oggi sono viste con sospetto, fastidio, competizione. Tanto che, appunto, preferiamo votare come nostri rappresentanti delle persone normali, che ci somiglino, non straordinarie, con cui non ci sentiamo in competizione. Che sono addirittura peggiori di noi. Il risultato, poi, è sotto i nostri occhi. E deriva dal fatto che vediamo con sospetto di presunzione, o con fobismo, gli individui che hanno doti maggiori delle nostre. Ciò ha a che fare con una sparizione di modelli, che rappresenta un guaio contemporaneo, perché non sopportiamo più di poter pensare a delle persone migliori di noi. La verità è che vi sono tanti modelli migliori e soprattutto ci siamo noi stessi, che possiamo diventare migliori di come siamo.

Scrive che “la tragedia di un paese ridicolo è ormai compiuta”. Ma quando toccare definitivamente il fondo, per risalire una volta per tutte, allora?
Probabilmente mai, questa è una cosa che mi incuriosisce: come questi tempi e l’Italia abbiano cancellato quella categoria letteraria metaforica del “toccare il fondo”. Quella speculare ma uguale del “vaso che trabocca”. L’Italia è un posto dove il vaso non trabocca più, dove non si tocca mai il fondo. Dove un inesorabile declino può durare all’infinito. Per lungo tempo ho pensato, avendo alcuni modelli che mi incuriosivano, che ad un certo momento una rinascita provenisse da un totale fallimento. Sono arrivato ad auspicare, rispetto a certi progetti politici della parte a cui sono più vicino, ovvero la sinistra, che vi fossero enormi fallimenti e che potessero portare a degli azzeramenti. Penso a ciò che è accaduto in Inghilterra alla destra con Cameron che, spappolata dopo il successo di Blair, si è consegnata finalmente ad un’idea di rinnovamento totale. E mi sono chiesto se non potesse essere una strada anche per l’Italia: dove ad un certo punto il non sapere che pesci prendere, portasse ad un rinnovamento. Invece ho l’impressione che potrebbe non avvenire all’infinito, in quanto il declino prosegue un pezzetto alla volta, senza necessariamente far rompere gli equilibri. Per molto tempo si è ritenuto che la globalizzazione avrebbe fatto saltare questo tappo. Ovvero che i ritardi e i guai dell’Italia che al nostro interno riuscivano a convivere con se stessi creando una specie di ecosistema proprio, si sarebbero però ad un certo punto confrontati con il resto del mondo. Che avrebbe messo in rilievo i ritardi e avrebbero costretto l’Italia ad affrontare in un altro modo il suo futuro.

E invece?
In realtà mi sembra che neanche questo basti. L’Italia è un paese in grado di coltivare una propria arretratezza e farla sopravvivere, che invece, come da sempre accade nella storia e nelle avanguardie, porta avanti le retroguardie. Un paese dove esse sono così forti da trattenere le avanguardie.

L’Italia tra vent’anni: chi la cambierà?
Chi si impegnerà, chi si porrà il problema di cambiarla, e di ottenerla cambiata fra vent’anni. E non di mettere delle pezze o trovare soluzioni a piccoli problemi, spesso personali o localissimi, e solo nei prossimi tre giorni. Chi, e dovranno essere in parecchi, dovrà cominciare a pensare alla gallina domani e non all’uovo oggi. Perché nella logica dell’uovo oggi, è sufficiente che quelle uova si rompano per perdere tutto. Per entrare nella concretezza politica italiana, nel libro parlo di come l’unico esempio in questo senso che mi abbia incuriosito, sia stato quello della campagna elettorale di Walter Veltroni. Che ha avuto finalmente una visione effettiva, un’idea di un’Italia che andava più lontano, che era disposta a mettere in conto di perdere le elezioni imminenti per costruire qualcosa che avesse un respiro più lungo. Quella è stata una modalità che mi ha interessato, dopo di che il totale fallimento, all’indomani dell’appuntamento elettorale, di quel progetto sbriciolatosi così rapidamente, non so capire cosa intendesse dirmi. Se quindi una possibilità esiste, ma solo se la si affidasse a qualcuno che sia più robusto di quel Veltroni. Oppure se invece nemmeno quando qualcuno manifesti una visione di quel genere, si riuscirà a cavarne qualcosa.

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