domenica 17 aprile 2011

Marramao: «Una nuova alleanza tra politica e filosofia, contro la dittatura della credulità»

Dal Futurista del 31/04/11

Viviamo tra cose vere e cose ritenute vere da molte persone, con l’elemento della credulità che gioca un ruolo decisivo. E allora perché non proporre una “nuova alleanza tra politica e filosofia” contro la dittatura della credulità? Lo sostiene Giacomo Marramao, filosofo e autore di numerose pubblicazioni sui filoni del marxismo italiano ed europeo. Attualmente insegna filosofia politica all’Università degli Studi Roma Tre, dirige la Fondazione Basso-Issoco ed è membro del College International de Philosophie di Parigi.

La politica sempre più talk e immaginario distorto: si prenda l’esempio dello spot di Berlusconi sul turismo. Che effetto fa?
Un fenomeno che non sorprende chi fa il mestiere del filosofo, per la semplice ma decisiva ragione che il reame dell’immaginario è esattamente quello degli sdoppiamenti, delle distorsioni, del gioco delle dissimulazioni: anche il reame della contraffazione. Berlusconi, ma non solo lui, perché accade ad altri leader di democrazie occidentali (anche se in forme meno clamorose), tende a collocare la politica nella dimensione dell’immaginario, proprio perché la dimensione della realtà non è simbolizzabile oltre una certa misura.

Per quale ragione?
Per essere in grado di produrre senso la politica dovrebbe saldare l’elemento materiale con quello simbolico. Una saldatura che avviene in momenti della storia in cui si produce una grande politica. Oggi però non viviamo nell’epoca della grande politica, ma purtroppo in quella dei surrogati della politica di massa. Quando dico che l’immaginario altera la realtà, mi riferisco al fatto che è impotente: perché gli effetti che realizza si ritorceranno contro quel tipo di politica che affida le sue sorti e i suoi destini all’immaginario. Esso vive di un vuoto storico, determinato dalla scomparsa delle grandi ideologie del ventesimo secolo. La dimensione dell’immaginario tenta, da sempre, di colmare un vuoto dato dalla divaricazione, dalla forbice che si apre tra il materiale ed il simbolico. Nella lontana estate del 1994, periodo al di sopra di ogni sospetto, scrissi un articolo commissionato dalla rivista francese Lignes, poi pubblicato su Nuovi Argomenti, ma dopo la caduta del primo governo Berlusconi. Mentre lo avevo scritto evidentemente prima.

Con quali tesi?
La fortuna di Berlusconi, sostenni, sta nell’occupare uno spazio vuoto, una voragine. In un certo senso lui è prodotto del vuoto e lo interpreta perfettamente perché a differenza del simbolico non deve determinare effetti di senso. Ma unicamente emozionali immediati. Non importa che lui dica cose il giorno dopo, in contrasto con quelle dette il giorno prima. Non ha rilevanza tutto questo, nè ha rilevanza il fatto che spari delle cifre come dire campate in aria. Lui è figlio e prodotto di questo vuoto pneumatico e l’immaginario come tale è staccato dal reale, ma anche staccato dal senso. Quindi nessuna sorpresa che tutto ciò non abbia una logica. E’una serialità, una ripetitività che può anche contraddire se stessa ad ogni piè sospinto. Perché si muove all’interno di quel vuoto.

Come bypassarlo?
Un fenomeno che può essere superato da una nuova saldatura tra dimensione esistenziale e materiale, intendo un’esperienza concreta, con relazioni effettive. Si potrebbe dire che la tragedia che oggi noi viviamo è che abbiamo spesso una sinistra appiattita sull’elemento materiale. E una destra appiattita sul lato del simbolico. Quella forbice che si è aperta produce tutti questi effetti, che sono linee di tendenza presenti in tutte le democrazie occidentali, dove la politica dell’annuncio è legata al dominio dell’immaginario. E’importante iniziare culturalmente a capire che l’immaginario è diviso tra il materiale e dal simbolico.

In un suo lavoro di qualche anno fa, Passaggio a Occidente, sostiene l’esigenza di una politica universalista della differenza: oggi a che punto siamo?
Un ossimoro che comprende in sé due polarità oppositive. Perché in realtà la situazione in cui viviamo è di scollatura tra un falso universale ed una falsa differenza. Non c’è simbolico se non simbolico di una situazione concreta, e non c’è concreto senza il senso. Una grande lezione di Hegel, ma anche di altri autori come Marx o Nietsche. L’universale che oggi abbiamo è il falso universale della globalizzazione, il dominio del mondo mercantile e del consumo. E delle tecniche, mentre la differenza non è la vera differenza. Ma sono le differenze del multiculturalismo, in realtà delle mascherature di politiche identitarie di destra. Di ghetti identitari. Oggi non avendo una prospettiva dell’universalità che si costruisca a partire dal vertice ottico, dal valore, dall’impulso generativo che valorizzi la differenza come criterio di costruzione dell’universale, noi abbiamo una politica dell’identità e dell’omologazione su entrambi i lati. Io ho una visione romana dell’universale: penso alla civitas romana, uno spazio giuridico-politico in grado di accogliere in sé una pluralità di nazioni e genti. E sotto la rigorosa osservanza della legge di Roma: questa per me è la prospettiva nella quale ci dobbiamo muovere. Di contro abbiamo una pluralità di monoculture identitarie. Una logica di esclusione della sopraffazione, non quella del senso. Una logica che porta a discriminazioni, come quella subita proprio anche da certa stampa, o da certa politica. “Noi siamo così e voi siete un’altra cosa” è il pensiero ricorrente, un qualcosa di profondamente estraneo alla logica del senso.

Nell’era dei social network, e dove con un cellulare si può fare cinegiornalismo, con i blogger che di fatto sono i nuovi inviati di guerra, in Italia si tenta di chiudere i talk show politici.
In Italia c’è una caratteristica adamantina del caso nostrano rispetto ad altre democrazie, che pur hanno situazioni delicate con i media. Ma nulla di paragonabile rispetto a quello che avviene da noi. Uno scenario impensabile negli Stati Uniti, dove si scatenerebbe il putiferio. Mentre nei Paesi del nord Africa, del Maghreb si sollevano le ribellioni, e si coaugulano forze di opposizione sociale che adoperano le tecnologie multimediali, esattamente come accaduto nei Paesi dell’est europeo. Dove le preteste si formavano attraverso comunicazioni a distanza, con gli sms o gli scambi di immagini. Vi era la creazione del fenomeno, ben analizzato da alcuni grandi autori che hanno riflettuto sulla condizione politica coloniale, e il fenomeno nuovo che soltanto il nostro tempo conosce rispetto al passato: la formazione di comunità a distanza in tempo reale. In occasione del 150esimo viene da ricordare che siamo stati la prima nazione in Europa dal punto di vista dell’unificazione cultural-linguistica, sia pure di elite. Anche le nazioni si sono create come effetto delle pratiche sociali, di Costituzione, di comunità, attraverso il libro oltre che con la tradizione orale. E’stato grazie agli strumenti tecnologici offerti dalla galassia Württemberg, che in Europa si sono create le nazioni. Perché le persone che vivevano a migliaia di chilometri di distanza, nel 1200, leggendo le stesse cose si potevano riconoscere membri della stessa comunità ideale. Ma questo non poteva avvenire in tempo reale, oggi invece sì.

Ma nonostante ciò, c’è chi nella politica teme semplici trasmissioni: non è un assurdo anacronistico?
In Paesi non democratici vi è il proliferare di forme comunicative, da noi invece si mette il bavaglio al confronto ed alla comunicazione. In fondo il limite è proprio questo: all’interno della scena politica italiana sta avvenendo che l’immaginario, dopo avere esaurito il proprio potenziale, dalla fase ascendente ed euforica, imbocca la fase declinante. Per un verso la forza di gravità delle condizioni materiali esistenziali della gente riaffiorano, fanno irruzione sulla scena in modo rumoroso. Per l’altro, dal punto di vista delle elite intellettuali e professioniste, quelle che vengono chiamate con una formula che non amo molto “i ceti riflessivi”, si nota l’evidente mancanza del senso. E di conseguenza anche nei talk show rischia di determinarsi l’irruzione dei due lati la cui disarticolazione aveva dato spazio all’immaginario. Quindi il timore che alcuni elementi del pieno entrino all’interno della scena e la possano alterare.

Perché oggi l’immaginario collettivo fatica ad essere definito dai fatti? E invece è sempre più preda di opinioni, spesso cangianti non perché legittimamente cambiate, ma perché effimere?
Vengono in mente le invettive di Platone contro la democrazia come regno della doxa, come una sorta di dittatura dell’opinione. Spesse volte campate in aria. O al nostro grande Machiavelli, che lucidamente analizza il fenomeno avvertendo su un punto fondamentale: che in politica purtroppo non c’è differenza tra una cosa vera ed una che è creduta vera da molte persone. Con questo non intendeva naturalmente invitare a far credere cose non vere, bensì a stare attenti all’elemento della credulità, che è fondamentale in politica come in religione, so di dire una cosa provocatoria. Sarebbe interessante intavolare un discorso serio sulla credulità e promuovere una nuova alleanza tra politica e filosofia, contro la dittatura della credulità.

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