venerdì 15 aprile 2011

Giorello: «Elogio della fallibilità come base del liberalismo»


Dal Futurista del 24/03/11

Il peggiore di tutti i monopoli è l’infallibilità. Perché, secondo il filosofo, matematico ed epistemologo Giulio Giorello, che insegna filosofia della scienza all’Università degli Studi di Milano, oltre che elzevirista per il Corriere della Sera, va nella direzione opposta del liberalismo, ma nell’accezione einaudiana del termine. Quello che invece consente di raggiungere il sapere attraverso trasformazioni, dal momento che “la conoscenza non è altro che l’opinione del suo farsi e del suo disfarsi”.

L’idea laica di società libera fondata sui due principi «pace dello Stato» e «assenza di danno agli altri», potrebbe attecchire realmente al contesto italiano?
La società italiana di oggi è turbolenta, anche lì dove sembra apparentemente conformista e tranquilla. Piena di una certa volontà di servire. O in altri versi in continua ebollizione. Ritengo che il liberalismo sia sostanzialmente la teoria filosofico-politica adeguata ad una società profondamente laica. La laicità è spiegata e giustificata filosoficamente proprio dal liberalismo. Mi riferisco a Luigi Einaudi, con il quale ho lavorato, ed alla sua ostilità verso ogni forma di monopolio. Sul quale una certa sinistra illuministico-progressista ha subito puntato il dito: “Ecco il liberista selvaggio”. E’falso. Ricordo un suo articolo intitolato “io economista liberista, non sono liberista”. In realtà Einaudi criticava la presenza di un unicum in ogni settore, economico, politico e scientifico. Il peggiore di tutti i monopoli è quello dell’infallibilità.

Perché il peggiore?
Perché si verifica quando accade che si pensi “io ho la verità, dunque il diritto di imporla”. Invece il liberalismo, nell’accezione einaudiana del termine, credo sia un’ottima teoria per quell’atteggiamento pratico che chiamiamo laicità. Un grande pensatore come Croce, però, non avendo particolare sensibilità per l’impresa scientifica, non ha sottolineato quanto il liberalismo fosse impregnato di fallibilismo. Esso è quell’atteggiamento secondo cui in primis noi sbagliamo. Le teorie sono opinioni che magari oggi accettiamo ma domani scarteremo. E poi riteniamo di poter imparare dai nostri errori. Per il novecento il riferimento è Popper, ma per l’ottocento penso a On liberty, di John S. Mill, che al capitolo secondo è un grande manifesto del fallibilismo in campo scientifico. Una volta si credeva che la terra fosse ferma al centro dell’universo, noi adesso pensiamo che giri su se stessa ed attorno al sole. Prima in matematica si parlava di entità infinitamente piccole, ora di limiti e convergenze. Ieri si pensava a spazio e tempi assoluti in fisica, oggi alla teoria della relatività di Einstein del 1915. Una volta si pensava che le specie animali e vegetali fossero state definite una volta per tutte, oggi invece abbiamo una mentalità tipicamente evoluzionistica.

In quanti punti si muta opinione…

La conoscenza non è altro che l’opinione del suo farsi e del suo disfarsi. Mill ha proprio sottolineato l’importanza di un’educazione politica matura, nel prendere atto della fallibilità della nostra conoscenza. Proprio sottoponendo al fuoco della critica le nostre opinioni. E se dovessero mostrare di resistere a quel fuoco, avremo almeno migliorato le nostre conoscenze. Secondo Mill non saremmo così sicuri della teoria di Newton, se non ci fossero stati tanti tentativi di farla a pezzi. La teoria sopravvisse, ma dopo il 1905 sulla scena entrarono nuovi individui come Einstein che cambiarono completamente la nostra concezione. La fallibilità è fondamentale, ed è forse il limite che vizia anche il liberalismo tradizionale crociano. Attenzione, questo è un torto di Croce, non del fallibilismo. Torno alla sua domanda, se è difficile in Italia far passare quella mentalità: beh, dipende. Perché intanto vi è una larga tradizione di pensiero che ha valorizzato i pensatori esteri. Ottimi interpreti di Spinoza, ci tengo a ricordare almeno il giovanissimo Andrea Sangiacomo che ha curato proprio le edizioni spinoziane per Bompiani. Senza dimenticare un alto esempio di studioso del liberalismo, Nicola Matteucci, per alcuni aspetti non per tutti, un crociano. Per quanto riguarda Mill non posso che fare tanto di cappello al mio vecchio maestro Ludovico Geymonat, marxista puro e duro che faceva a pugni con un’impostazione alla John S. Mill. Però si rese conto dell’importanza di Mill, in particolar modo di quei gioielli che sono i suoi saggi sulla religione, facendo di tutto per farlo conoscere ai giovani. Una dimostrazione di tolleranza da parte di Geymonat, militante comunista. Per questo credo che in Italia ci siano le possibilità di far proprio questo liberalismo maturo che ha un occhio così attento alla scienza.

Cosa è rimasto dell’illusione einaudiana sull’indipendenza di pensiero e di carattere?
Una grande sensibilità per l’impresa scientifica, per quel pensiero positivista che riconosce alla scienza un’importanza enorme per l’industria. Einaudi era un uomo attentissimo al grande dibattito che era stato aperto ad inizio novecento sulla scienza, da alcuni pensatori che talvolta la storiografia filosofica ufficiale, compresa quella marxista, ha lasciato un po’ da parte: i cosiddetti pragmatismi italiani, benché avessero aperto un dialogo fecondo con i loro corrispondenti nella cultura soprattutto americana. Ovvero Papini, Prezzolini, una bella figura come Vailati, lo stesso matematico de Finetti. Persone attente all’educazione del pensiero critico proveniente dall’impostazione scientifica. Purtroppo Vailati morì prematuramente, Papini passò da una conversione all’altra, imboccando una strada da moralista o da antimoralista, se si preferisce. Questo rinascimento italiano novecentesco nella filosofia, come lo definiva William James, uno dei maggiori rappresentanti del pragmatismo, non riuscì però a coagularsi in Italia: perché in filosofia vince l’idealismo di Gentile e Croce. In verità semi ci sono stati e ci sono ancora adesso. A maggior ragione adesso, in una sorta di paradosso italiano, dove grandi pensatori scientifici hanno avuto più riconoscimento all’estero che nel nostro Paese, ma qualcosa qui hanno lasciato. Penso a figure come la Montalcini o come Dulbecco, a grandi fisici come Rubbia.

Quindi crede che queste punte per un illuminismo scientifico possano stimolare al nuovo?
Le premesse ci sono, il problema è il contesto in cui questi semi vengono gettati. In questa direzione serve lavorare molto. Volgendo lo sguardo indietro, devo dire che la battaglia scientifica di base allo stesso tempo per un illuminismo ed un laicismo si attua in altri ambiti. Penso ad un’editoria scientifica molto matura, con una tradizione di alta divulgazione. Penso alla casa editrice Einaudi, al Saggiatore di Alberto Mondadori, che fu uno degli iniziali propugnatori di un’enciclopedia della scienza imperniata sul pensiero scientifico, la famosa Est. A proposito di Alberto Mondadori, penso al tentativo riuscito di una versione italiana di Scientific American.

Dove siamo ancora carenti?
Soprattutto in televisione, in quella generalista, e ahimè nell’educazione scolastica. I programmi sono rimasti vecchi, attuati con una mentalità vecchia in particolar modo riguardo la divulgazione delle materie scientifiche. Non si può pensare che le geometria si impari mandando solo a memoria il teorema di Euclide. Ma su di esso va ricostruito un ragionamento. Qui devo dire che si sono stati ottimi esempi, come quello di Franco Brezzi, presidente dell’Umi (Unione matematici italiani), che ha scritto pagine estremamente divertenti sull’antipatia italiana per le cosiddette scienze dure. Che talvolta si forma proprio sui banchi di scuola, nonostante insegnanti molto scrupolosi e preparati. I primi a lottare contro questa sclerotizzazione dell’insegnamento. Avrebbero invece bisogno di maggiore approccio da parte della società civile e di un ministro dell’Istruzione diverso dall’attuale. Lo stesso Nietsche sottolineava come l’avvenire delle nostre scuole fosse il banco di prova del futuro di una nazione. Una nazione che non ha il coraggio di spendere in cultura è una nazione che perde, soprattutto in un momento di crisi. Quando invece bisognerebbe investire, in modo saggio ma coraggioso. Il grande colpo di genio ai tempi del New Deal di Roosvelt, fu quello di saper investire in cultura, anche materiale. Penso alle grandi realizzazioni architettoniche in una fase in cui si sperimentava molto. E’necessario capire che la sperimentazione va valorizzata sul lungo periodo, perché porta del bene a tutti: rappresenta una forma non coercitiva di eguaglianza. Così ci ritroviamo nelle grandi prediche di Einaudi, ma serve molto coraggio che tre Paesi hanno, nonostante non ne apprezzi completamente la politica. Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti.

Investono in cultura per rinnovare e non si sognano minimamente di tagliare, come ad esempio si fa in Italia.
Mi viene in mente il rinnovamento della biblioteca nazionale di Parigi, o il grande centro islamico realizzato sempre nella capitale francese. Di cui, anche in assenza di simpatia per l’Islam, bisognerebbe riconoscerne la valenza. La Francia ha ben compreso la strategicità di un centro di cultura, che serve agli islamici e ai non islamici. Penso a come è stata rivisitata la British Library a Londra, utilizzando vecchie ma bellissime stazioni parzialmente ancora efficienti. Oppure, guardando ad un Paese in crisi, penso al bel museo Reina sofia di Madrid, che ha saputo fare i conti con la grande cesura storica della Spagna, la seconda guerra mondiale. Saper osare investimenti coraggiosi guardando al futuro vuol dire alla fine lavorare anche per il benessere. Non è che in Italia non ci siano iniziative coraggiose, ma potrebbero essercene di più. Poi è chiaro che sulla questione dei beni culturali, non mi sento di aggiungere nulla di più a quello che Andrea Carandini ha detto di recente.

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