venerdì 15 aprile 2011

Aldo Cazzullo: «Ecco perché gridare insieme "viva l’Italia"»


Dal Futurista del 30/03/11

“Il localismo? E’la forza dell’Italia unita”, perché in un momento in cui il mondo chiede diversità per contrastare l’effetto globalizzante, un tessuto ricco e vario come quello italiano può fare la differenza. Ma avrà senso solo se quel localismo sarà allietato dalla Patria comune. Per questo la grande festa dei centocinquant’anni, riflette Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere della Sera ed autore del libro Viva l’Italia, ha dimostrato in fondo che era vera la tesi del libro, “ovvero che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere”.

Viva l’Italia: oggi un grido, uno slogan o un nome (come Forza Italia, Trenitalia, Alitalia, Bankitalia), ieri invece l’orgoglio della storia.

Credo che oggi quel grido sia meno antistorico e più sentito di quanto non lo fosse qualche mese fa, quando dire viva l’Italia era ancora una cosa da eccentrici, quando la gente non aveva capito dove andasse il mondo. Ora c’è l’Europa, la Lega, il federalismo, le piccole patrie. Invece secondo me questo anniversario ha segnato proprio un punto di svolta. Ci si è resi conto, lo ha fatto anche una parte della Lega, che l’attaccamento giusto e sacrosanto alle piccole patrie (che poi in Italia non sono le regioni ma i comuni ed i campanili) può stare assieme al legame con la Patria comune che ci riguarda tutti. Un dato compreso da una parte della Lega, ad esempio Tosi e Maroni, che hanno accettato il faccia a faccia con me confrontandosi sul libro. E hanno concluso dicendo viva l’Italia, aggiungendo federale ma l’hanno fatto. Il governatore Zaia, invece, non ha voluto farlo. E c’è una Lega, che io chiamo del bunker, che oggi agita ancora lo stendardo del vecchio leone Bossi e si prepara domani ad agitare lo stendardo di Renzo detto il trota, che non ha ancora rinunciato alla secessione. E che si dà di gomito con l’altro fenomeno emergente, i neoborboni del sud. La logica è quella che Marco De Marco nel suo nuovo libro chiama terronismo.

Che significa essere terronisti?
Non vuol dire essere necessariamente dei neoborbonici, anche Zaia è un terronista quando dice che quelli di Pompei sono quattro sassi. E’invece la degenerazione del localismo italiano, che esiste e non è un’esclusiva né del nord né del sud. Anzi, scrivendo un libro dal titolo Viva l’Italia, mi sarei aspettato reazioni negative soprattutto al settentrione. Mentre il grosso degli insulti l’ho ricevuto da sud. Riduttivo definirli neoborbonici, perché vent’anni di invettive leghiste hanno rinfocolato un rancore che al sud esisteva da tempo. E che in questi centocinquant’anni si è espresso rappresentando l’unificazione ed il Risorgimento come una conquista militare da parte del nord. Ma la logica dei leghisti nel bunker e dei neoborbonici, è esattamente la stessa. La colpa non è mai nostra, ma sempre di altri italiani. Per certi leghisti il sud è una palla al piede e la rovina del nord, per i neoborbonici la causa dei mali del sud è il fatto che il nord centocinquant’anni fa avrebbe invaso e colonizzato il sud. Una logica però minoritaria, non da prendere sotto gamba. La grande festa dei centocinquant’anni ha dimostrato in fondo che era vera la tesi del libro, ovvero che noi italiani siamo più legati all’Italia di quanto amiamo riconoscere.

Contro l’idea leghista e contro l’idea retorica del belpaese: quale il ruolo unificante della lingua italiana, ieri e soprattutto oggi?
Bisogna riconoscere che la lingua l’ha inventata Dante ma l’unificazione linguistica l’ha fatta la televisione. Spesso la lingua che prevale è molto mediterranea, nel gergo romanesco. Parole come pischello, buzzicona, gallettata, che vent’anni fa a Trieste o Torino sarebbero state incomprensibili, adesso le pronunciano anche gli adolescenti. Credo che non dovremmo aver paura dei dialetti, perché anche dove lo si parla molto come a Napoli o in Veneto, i 150 anni hanno dimostrato che l’attaccamento all’Italia sia fortissimo. Ho portato nei teatri di Mestre, Este, Abano, Rovigo, Verona questo spettacolo teatrale, che il Teatro Stabile di Verona ha tratto da Viva l’Italia. Con attori e attrici che leggono brani del libro, prima del mio commento. Ci sono musiche ed immagini dell’epoca: ed ho trovato nei veneti una reazione straordinaria. E ho visto le città venete imbandierate di tricolori tanto quanto Torino, Roma, o Napoli.

Il generale Perotti, il colonnello Montezemolo, don Bagiardi: ma anche sangue di vincitori o vinti. Quanto dista nella psicologia dell’Italia la pacificazione?
Abbiamo avuto prima un eccesso da una parte, è esistita sicuramente una retorica resistenziale favorita da una certa privatizzazione della memoria. E la sinistra ha rivendicato a sé una memoria che doveva essere collettiva. La resistenza deve essere patrimonio di tutta la nazione e non di una fazione. E in questi ultimi dieci anni c’è stato l’eccesso opposto. Pagine che a lungo erano state rimosse, occultate, e che invece è giusto raccontare e denunciare con forza. Ma queste pagine sembrano quasi diventate il tutto. Penso che un ragazzo di vent’anni sia cresciuto con nelle orecchie il ritornello per cui i partigiani erano tutti criminali sanguinari, e i ragazzi di Salò erano tutti bravi ragazzi. Ho scritto questo libro anche per ricordare che non è andata così. Penso che sia giusto raccontare le pagine nere che ci sono state, sia nel Risorgimento e sia nella Resistenza. Detto questo dobbiamo imparare la lezione di Francesco De Gregori, che ha perso suo zio partigiano ucciso da altri partigiani comunisti. Quella tragedia familiare gli ispira una canzone bellissima, Il Cuoco di Salò, piena di pietà per tutte le vittime. Perché le vittime vanno rispettate tutte e dovremmo sempre ricordarci che anche dall’altra parte c’erano ragazzi, che sono morti gridando viva l’Italia. E che credevano in buona fede di servire la patria. Però dovremmo anche ricordare che nella guerra civile c’era una parte giusta ed una sbagliata. E’vero che ci fu una guerra civile anche alla fine del Risorgimento, il cosiddetto brigantaggio. Le prime vittime dei cosiddetti briganti sono i patrioti meridionali della Guardia Nazionale.

Non fu quindi una guerra del nord contro il sud?
Tra patrioti, fra cui moltissimi meridionali, ed esercito piemontese, che non è un aggettivo ideologico ma in quanto esercito italiano. Comandato da Cialdini, che era di Modena. Presidente del Consiglio era Ricasoli, fiorentino. E le prime vittime erano meridionali, patrioti inquadrati nella Guardia Nazionale che si battevano in divisa dell’Unità d’Italia, faticosamente raggiunta. E dall’altra parte c’era quella strana alleanza di briganti in senso tecnico, partigiani borboni (festa, farina e forca) e nostalgici del potere temporale del clero. Non esattamente un’alleanza per il progresso. Nonostante grandissime sofferenze, e orrori ed errori da entrambe le parti, fortunatamente la parte giusta è finita per prevalere.

Geolocalismi esasperati da un lato, ed europeismo globalizzante dall’altro: l’Italia è in ritardo?
Non sarebbe in ritardo se capisse: che il localismo è la nostra forza, che non è in contraddizione con la patria comune. Dovremmo valorizzare il fatto di essere il Paese dalle cento città, che cambia paesaggio ed accento ad ogni crinale di collina. Il mondo globale che diventa sempre più uniforme, più uguale a se stesso, ci chiede proprio questo: la nostra diversità. C’è nel mondo una grande domanda di Italia e di prodotti italiani, di stile e di cultura italiana. E noi dobbiamo essere consapevoli di noi stessi, per essere in grado di valorizzarlo, perché l’Italia è un nome che piace.

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