venerdì 15 aprile 2011

Scurati: «Un'onda purificatrice, per trascinare i 40enni fuori dal guado»


Dal Futurista del 23/03/11

Da poco è uscito il suo ultimo libro per Bompiani, Gli anni che non stiamo vivendo. Il tempo della cronaca, dove analizza i principali fatti recenti di cronaca nera, politica e attualità. Anche per ragionare su chi quei fatti ascolta e valuta, Antonio Scurati attribuisce lo smarrimento che esiste da parte del pubblico, ad una crisi generazionale di chi, a quarant’anni, è stato deprivato. E che potrebbe recuperare se fosse investito da un’onda purificatrice.

I 40enni dell’Italia postmoderna: perché l’ha definita una generazione deprivata?
Perché si attanaglia a noi il concetto di deprivazione in senso tecnico e psicologico: di deprivazione relativa. Molte debolezze di noi 40enni, per non parlare dei nostri disturbi, sono come delle forme di impotenza, il risultato delle proprie deprivazioni relative. Una di quelle situazioni in cui non c’è corrispondenza fra le aspettative e le realizzazioni, un grappolo di disturbi psichici che si osserva nei bambini e poi negli adolescenti a cui ad un certo punto della loro evoluzione, viene sottratto ciò di cui, di essenziale, hanno bisogno come l’affetto dei genitori. Non quelli che non hanno mai avuto il principio, ma quelli che sono vittime di una sottrazione improvvisa e brutale. Noi siamo insomma l’ultima generazione cresciuta nella fase espansiva, di un occidente economicamente opulento. Muovevamo letteralmente i nostri primi passi alla metà degli anni settanta, quando, sebbene inavvertita, l’espansione dell’Occidente raggiunse il suo apice. E cominciò una regressione che poi si manifestò soltanto anni vent’anni dopo. Siamo comunque cresciuti in una condizione socio economica destinata ad un miglioramento progressivo, di proporzioni infinite. Invece siamo arrivati all’età adulta tardivamente, rendendoci conto che invece il meglio è già alle spalle.

E dinanzi cosa c’è?
Una regressione, una contrazione: dolce nella migliore delle ipotesi, violenta nella peggiore. E quindi ho applicato questa metafora della deprivazione relativa, come un trattato psicologico, ad un discorso generazionale. Ciò che avevamo prima ci è stato tolto, adesso viviamo gli scompensi di questa condizione di deprivati.

Ha citato l’esempio del Carnevale di Venezia, come epifania di una gioia ultima: da allora che processo si è innescato?
E’un mio dato esistenziale. Assieme ai miei coetanei veneziani, in un luogo dove sono cresciuto, ricordo che da 14enni vivemmo quelle tre stagioni di rilancio del Carnevale, ripristinato ad un certo punto dopo due secoli di interruzione. Tramontata l’ultima gloria veneziana, la manifestazione venne sospesa. E fu rianimata con una mossa molto elementare: venne rinvigorita la tradizione delle maschere, ma posticcia. Ricordo quando incominciarono proprio a spuntare, come funghi dopo la pioggia, occhi e maschere di cartapesta che non esistevano più da secoli. Un mio compagno di scuola, tra l’altro figlio del popolo in quanto suo padre faceva il ciabattino, venne da noi e in dialetto ci disse che suo padre avrebbe chiuso la bottega da calzolaio per aprirne una di maschere. Il Carnevale quindi venne rianimato con un’idea selvaggia: piazza San Marco trasformata in un’enorme discoteca a cielo aperto. Montarono un impianto da concerto, iniziando a pompare musica del tutto esterofila: la samba in piazza. Con centinaia di persone che arrivarono il giorno dopo, semplicemente per scatenarsi. E Venezia si trasformò in una sorta di bordello, tutti ubriachi, la gente si accoppiava per le strade.

Oggi guardandosi indietro e ricordando quegli anni cosa prova?
Erano anni in cui la città si spopolava, l’industria si avviava al fallimento, le problematiche anche ecologiche si acuivano. Oggi ci appare come l’ultima luce fasulla di un edonismo anni ottanta visto da qui, dall’inizio del millennio, in un orgasmo della disperazione.

Perchè questa generazione fatica a posizionarsi tra il presentismo attuale ed il declino sociale che in molti si ostinano a nascondere?
Siamo dei bimbi viziati, questa è la verità. Cresciuti in un’opulenza che non abbiamo più, che però era ancora tale. Non abbiamo la durezza che sarebbe necessaria per trasformarci in onda. Per carità, forse una metafora eccessivamente violenta rispetto alle tragiche cronache giapponesi. Ma ho appena scritto un romanzo apocalittico ambientato a Venezia, in cui c’è un’onda che porta via tutti.

Auspica una specie di catarsi che purifichi erga omnes?
Noi siamo tentati dal pensare, e mi si perdoni l’iperbole, come se fossimo già dei monarchi stanchi, ma non abbiamo mai regnato. Senza avere la forza di trascinare quegli idoli via con noi, perchè sono vecchi maestri di festa stanchi. Gli stessi che hanno organizzato la festa disperata di quel Carnevale di trent’anni fa.

Quei 40enni che oggi dovrebbero prendere le redini, si scoprono senza strumenti o senza voglia?
Noi siamo cresciuti in quella bambagia e al momento siamo imprigionati in questo guado. Abituati alla lamentela, anche questo mio discorso potrebbe essere ascritto ad una lamentela. Non abbiamo la forza di impadronirci di ciò che ci è stato prima dato e, poi, tolto. Senza avere il coraggio di reagire. Ma non è detta l’ultima parola.

Sostiene però che non tutto è perduto, in quanto la deprivazione porta a condotte antisociali: dunque?
E’ciò in cui ho l’audacia di sperare, da 40enne deprivato. Raffinati lo siamo, siamo figli di una civiltà raffinata e stanca, ma anche un po’ barbarica. E’una situazione da metapolitica, dove la politica è sempre fuori da se stessa. Si prenda la sinistra, a cui mi sento di appartenere, anche se alcuni culturalmente di dicono che sarei di destra (ma è una cosa che non mi convince): dove il popolo di sinistra si rivolge per il progetto politico futuro a figure sacerdotali, a categorie proprie come gli uomini di spettacolo, di teatro, i comici. Tutto ciò lo vedo come un segno di declino, nonostante io abbia una rubrica nel programma Parla con me Lettere dal nord. Mi riferisco anche ad un sovradimensionamento iperbolico della figura di Roberto Saviano, che è un effetto di tale smarrimento da parte del pubblico. Lo stimo tantissimo e lo conosco da prima di Gomorra e con i miei pochi mezzi ho fatto di tutto per sostenerlo, prima che diventasse una celebrità. Però c’è un effetto di intronazione da parte dell’opinione pubblica data anche dalla figura di scrittore, come segno di questo declino. Ovvero dell’incapacità della presa del potere politico da parte della mia generazione. Ma davvero ci dovremmo aspettare da Saviano, scrittore e uomo che stimo moltissimo, che supplisca a questa sorta di incapacità di decidere di una generazione? Che fare dunque: è compito di Lenin, non di Majakovskij.

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