venerdì 15 aprile 2011

Ezio Mauro: «All’Italia manca un sentimento repubblicano»


Dal Futurista del 15/03/11

l 150esimo dell’Unità d’Italia? Potrebbe essere una “straordinaria occasione per recuperare l’humus comune al Paese ed ai suoi cittadini, in altri ambiti come la Francia lo definirebbero sentimento civile, o repubblicano. Ecco - riflette Ezio Mauro, direttore di Repubblica - all’Italia manca proprio un sentimento repubblicano; c’è invece una tentazione iconoclasta di spezzare tutto ciò che è comune”.

Direttore, partiamo dalla riforma della giustizia: per i pm è punitiva e fatta contro i giudici; per il ministro Alfano pone al centro la parità tra accusa e difesa. La bilancia mostrata dal Premier non rischia di pendere solo da un versante?

Quell’immagine è prima di tutto la conferma di un’ossessione che tormenta Berlusconi e lo condiziona da quando è sceso in campo. Soprattutto ripropone il problema della sua credibilità. Un uomo che ha cercato di truccare quella bilancia per tutto questo periodo, alterandone l’equilibrio. Comprendo che le opposizioni abbiano un problema ad affrontare questo tema con una persona che è vissuta dentro l’ossessione della giustizia. Tentando ogni volta di squilibrarla a proprio vantaggio. Mettendo in condizione di minorità chi deve garantire il controllo di legalità. E’interesse generale di tutti, maggioranza ed opposizione, che il potere legittimamente uscito dalle urne governi. Ma c’è un interesse altrettanto legittimo, di tutti gli stessi soggetti, a che venga garantita l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Quell’immagine quindi è sbagliata, che come sempre vuole tradurre in slogan le politiche di Berlusconi.

Ma leggi e leggine come si inseriscono in un quadro politico-normativo d’insieme?
Tutte le misure di salvaguardia personale che era possibile ipotizzare, sono state armate e sono pronte. Perché al momento opportuno i suoi difensori ed il suo partito, le hanno tradotte in un qualcosa di concreto. Chiunque si voglia muovere con onestà intellettuale e politica sul terreno della giustizia, dovrebbe porsi due questioni: è questa la principale urgenza degli italiani? Le agende politiche di tutte le cancellerie occidentali non hanno questo tema al primo posto: perché sono attente a ciò che accade in Libia, hanno un ruolo da giocare nel Mediterraneo, che varrebbe soprattutto per noi che siamo così profilati dal punto di vista storico e geografico, hanno l’emergenza economico finanziaria. E al primo posto hanno il problema del lavoro. Noi abbiamo invece un’agenda completamente rovesciata. Allora la prima domanda da farsi sarebbe: quale l’interesse dei cittadini? E la seconda: che cos’ha Berlusconi nell’altra mano, (o cosa nasconde)? Dal momento che nella prima ha la cosiddetta riforma epocale della giustizia. Cosa intende inoltre fare di tutto quello che è stato annunciato? Legittimo impedimento, conflitto di attribuzione, processo breve, prescrizione breve: formule messe in campo dai suoi avvocati. Berlusconi tenta di fingere che il tema giustizia sia affrontato senza alcun interesse personale, mentre fino a ieri, prima che si varasse questa pseudo-riforma, si è parlato di giustizia solo nel suo esclusivo interesse personale. Il primo dovere delle forze politiche, in un confronto parlamentare, è dire: vediamo cosa c’è sotto il banco per poter dare un giudizio d’insieme.

“Presa d’atto di una scelta che riguarda il governo”, rileva Giorgio Napolitano. Ancora una volta i moniti del Colle, di condivisione e di ampio respiro, potrebbero risultare disattesi?
Mi fido delle valutazioni che il Presidente della Repubblica fa. E’giusto che non ragioni come ragiono io, ha il compito di vigilare sulla Costituzione. E’chiaro che le due visioni sono istituzionalmente diverse: Napolitano è l’interprete della Carta, Berlusconi dichiara apertamente che gli sta stretta (già solo questa riforma comporta la revisione di tredici articoli). Il primo vive nella Costituzione legale, l’altro dentro quella materiale in qualche modo da lui creata e da lui interpretata: portano ad elementi di stridore come è evidente. Quando il Capo dello Stato dice di prendere atto, significa che non vuol essere coinvolto nella moral suasion. E che il governo, assieme alle parti politiche, se ne deve assumere la responsabilità.

Studenti in piazza, donne in piazza, cittadini a difesa della Costituzione in piazza: questa riscoperta dell’agorà pubblica, cosa implica, che il palazzo è visto sempre più distante dalla gente?
La piazza non è automaticamente contro il palazzo, è un qualcosa in più. E’un elemento della partecipazione dei cittadini, i quali quando intendono partecipare devono prima di tutto fare bene il proprio mestiere, ma non guardando solo al singolo particolare, bensì ad un contesto più largo. Ed essere consapevoli che, per prendere parte al dibattito pubblico, serve essere informati. I voti, dei cittadini informati e di quelli che non lo sono, contano allo stesso modo. Se all’interno di questo processo di partecipazione, il cittadino ritiene di doversi esprimere manifestando la propria posizione con movimenti ed associazioni, è un modo per far sentire al palazzo che c’è una voce organizzata e che, in molti casi come quello delle donne, si organizza spontaneamente, senza sigle e senza apparati. E ha probabilmente un valore molto forte in quell’autonomia. La piazza che difende la Costituzione ed i diritti si pone all’interno di un discorso democratico. Dove i diritti si accompagnano ai doveri, testimoniando le due cose assieme. La piazza è una voce dei cittadini che vogliono contare, ma non la interpreto come contraria al palazzo.

Uno dei tratti somatici del berlusconismo è stato quello di creare un ring perenne, che divide tutto e tutti per mascherare le proprie defaillances: non sarà allora il caso di attrezzarsi ad un’analisi antropologica del berlusconismo? Da attuare magari in un regime di pacificazione, come ricordato dal Capo dello Stato proprio su Repubblica, quando ha invitato a valorizzare “quel che ci unisce come Nazione e ci impegna come Stato unitario, di fronte a problemi e alle sfide che ci attendono”.
Non credo che il berlusconismo sia soltanto istinto e leadership, non le sottovaluto. Ma penso che dietro vi sia una cultura politica che io ho chiamato moderno populismo. E’utile ricordare che il populismo ha bisogno di dismisura, di tensione emotiva. Quindi è funzionale, addirittura necessario a questa cultura, il clima di continua sollecitazione emotiva della popolazione. Senza accorgersi siamo passati dalla categoria di cittadini a quella di popolazione. Questo uso che ha fatto del popolo come entità definita suprema, che in realtà è concepita e strumentalizzata come fonte di potere continuo verso il sovrano. Anche perché nella nostra Costituzione c’è scritto che la sovranità risiede nel popolo. Non c’è scritto che la sovranità emana con le elezioni dal popolo verso il sovrano. Il popolo esercita quella sovranità, e proprio tale cultura spiega tale sollecitazione. Anche la divisione primordiale delle categorie, amici e nemici, bene e male, odio e amore, sono termini che Berlusconi usa abitualmente e che non trovano l’equivalente nell’occidente. Gli altri leader occidentali usano categorie più laiche: fin quando ci sarà questa cultura, credo che sarà difficile far venir meno il clima di scontro. Il populismo è una cornice dilatata, che necessita di esperienze titaniche. Non è un caso o un frutto sgangherato del destino che ci sia questa contrapposizione, è un’esigenza tipica del populismo che ha bisogno di vivere in assetto da guerra permanente. E di presentarsi spesso come vittima, anche se si dice forte di un potere frutto di anomalie macroscopiche: lo strapotere mediatico (unico leader europeo che controlla sei reti televisive), economico (che gli consente di acquisite deputati a blocchi). E le leggi ad personam che traducono il conflitto in norma. In un atteggiamento che ibrida le decisioni politiche con quelle industriali e finanziarie.

La macchina del fango come strumento di comunicazione politica: qualche spin doctor ha rinunciato a produrre nuove rotte politiche, per concentrarsi su “altro”?
La macchina del fango è uno strumento di potere certamente spaventoso, ma anche spaventato. Che punta a intimidire, a colpire una persona come il killeraggio contro Boffo: fatto per intimidire la Chiesa, dicendole “attenti a delegittimare Berlusconi, perché potremmo aprire il dossier sull’omosessualità tra i prelati”. O dicendo ai giornalisti italiani “attenti, introducete un filtro di prudenza quando scrivete del Premier, perché potrebbe essere messa a soqquadro la vostra vita privata”. Quel documento che Berlusconi ha veicolato ai suoi giornali, altro non era che una velina scritta nel linguaggio tipico dei servizi. Ovviamente tutto ciò non passerebbe se vi fosse una coscienza liberale avvertita. Se nel caso di Boffo, anziché dare voce quasi involontaria alla vittima ed al killer, si fosse liquidato il killer con le cinque righe che stanno nelle crimes stories e si fosse illuminato il mandante ed il movente, forse si sarebbero fermati: noi abbiamo provato a farlo.

Chi suonerà allora il gong per uscire dall’arena in cui il Paese è stato confinato?
Il Presidente della Repubblica l’ha suonato da tempo. In una società matura dovrebbe essere l’establishment a dire “questo, no”. Ma da noi ciò non è accaduto. Perché viviamo dentro un’anomalia, manca quella che io chiamo l’intercapedine liberale. Abbiamo solo un network da rotocalco che si promuove e che si mantiene a vicenda. Manca chi sappia parlare in nome dell’interesse generale, di richiamare le regole e di dire no a determinati eccessi. Faccio un esempio: l’uomo politico che è passato alla storia della contemporaneità come nemico della stampa, Richard Nixon, durante l’inchiesta Watergate, non aveva a sua disposizione giornali di sua proprietà con cui far bastonare gli autori degli scoop. Non aveva nemmeno il controllo sui network televisivi. In quell’occasione giornali e televisioni hanno informato l’opinione pubblica e alla fine il Presidente si è dovuto dimettere, perché ha dovuto rendere conto non ai quotidiani ma alla pubblica opinione. Da noi tutto ciò non accade. Durante i ripetuti scandali che hanno coinvolto Berlusconi, ascoltando i telegiornali i telespettatori hanno avuto notizia di reazioni ad azioni che non hanno mai conosciuto.

Berlusconi ha detto che Bossi è come Caravaggio, a Roma per cambiarla. E allora Bondi che da tre mesi non mette piede al Ministero, potrebbe essere come quel servo ultrafedele, inviso paradossalmente anche al suo capo?
Credo che tra Berlusconi e Bondi sia accaduto qualcosa, ovvero che il ministro abbia saputo qualcosa probabilmente riguardo la parte oscura del berlusconismo, che sta emergendo con l’inchiesta di Milano. E che gli ha consigliato di fare un passo indietro. Dopo di che ci sono gli errori che ha commesso da ministro, e da parte di Bondi vi è comunque un’incapacità che viene testimoniata da tutto il partito, di distinguere l’anomalia del progetto politico dalla sorte del leader. Quando un progetto politico chiede di esser salvato, i maggiorenti di un partito in presenza di comportamenti che potrebbero mettere il tutto a repentaglio, dovrebbero andare dal leader e dirgli che così non si può andare avanti. In Italia non succede, non tanto per la categoria del servilismo, ma per la mancanza di autonomia: il progetto politico imprigionato dalla sorte del leader. Bondi vuole risolvere sul piano personale un problema politico. Quel partito, purtroppo, non concepisce le autonomie.

Anche se all’inizio l’esperienza di Forza Italia aveva attirato forze intellettuali autonome…
Penso a Colletti, Melograni, Pera: in loro vi è delusione. Avevano creduto nella spinta modernizzatrice del premier, dopo di che hanno constatato che era fasulla. O ripiegava su strade di interesse personale. In questi soggetti, quindi, è presente una disillusione evidente. Ma dall’altro versante l’incapacità del presidente del Consiglio di preservare tali energie intellettuali, come se non se ne facesse nulla, usandole solo quando sono disponibili a indossare l’elmetto. Quando i talenti intellettuali vengono messi a disposizione di una deriva militare allora sono apprezzati. Ma quando occupano posizioni autonome, questo non interessa.

A proposito di intellettuali organici: Giuliano Ferrara torna in Rai, con una striscia dopo il tg. Una mercificazione dei neuroni?
Ferrara fa un disegno in cui vi è una forzatura ideologica, secondo la quale c’è vita solo nella rottura delle regole. E non può esserci vita all’interno di un percorso più regolato. Come se democrazia, in senso formale del termine, e felicità non potessero essere coniugati.

Matteo Renzi, passando al Pd, dice che le firme non servono a nulla, augurandosi che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza, e il rifiuto verso quello che chiama tatticismo. Cosa propone in concreto?
Non mi appassiona la diatriba tra berlusconismo sì o no. Mi accontenterei di qualcosa che sta nel mezzo o che sta prima: che giudizio si offre del berlusconismo. Sono modi di non rispondere alle domande: che giudizio dare quindi sull’attività del governo e purtroppo del Parlamento, in questa confusione italiana tra legislativo ed esecutivo? Un panorama che risulta centrifugato dalle vicende personali del Presidente del Consiglio. Che giudizio dare della sua vita privata? Che non interessa poi tanto, ma sulla quale la figlia Barbara ha detto che un leader politico deve rispondere in pubblico della sua vita privata e, aggiungo, soprattutto quando imbarazza le istituzioni. Il problema è un altro, concerne l’idea di sé, del mondo, che questi comportamenti del premier proiettano.

Però il sindaco di Torino Chiamparino ha mostrato lucidità quando ha rilevato che la sinistra non ha intercettato i cambiamenti sociali del Paese…
La comunicazione serve ad annunciare la politica e ad annunciarla, poi c’è un pezzo di strada che la politica deve fare in prima persona. Credo che ci dovremmo abituare a giudicare i leader non solo dentro le categorie del berlusconismo, o quella meta politica del carisma. Ma comprendere come i leader possano essere giudicati sulla base della capacità di rispecchiare interessi legittimi: un progetto politico serve a parlare alla gente, questo si chiederà dopo il berlusconismo.

Quanto manca alla meta della nuova politica? Quella che si lascia alle spalle differenziazioni ideologiche e che invece affronta responsabilmente e costituzionalmente le sfide dell’oggi?
Bisogna di nuovo ricostruire un terreno condiviso, con valori che non siano idoli rovesciati come accaduto nell’ultimo periodo. Una politica che non faccia l’elogio del malandrino, che non scambi per moralismo la tutela della legalità, che lasci molto spazio al merito, alla voglia di far crescere le energie che ci sono nella società, una politica che si coniughi con la felicità e con la vita. Se provassimo a chiedere quale idea di bene comune esiste nel Paese, sarebbe molto complicato rispondere. Non abbiamo nemmeno un calendario civile comune, vediamo che da parte del partito di maggioranza relativa si mette in discussione addirittura il 25 aprile, come se fosse una sovrastruttura ideologica e non un accadimento storico. Non capisco perché una destra moderna ed europea non si debba far carico di quelle date della storia del Paese. Penso alla polemica ridicola con cui viene svalutato il Risorgimento. Il 150esimo lo saluteremo come una grande occasione per riflettere sugli elementi che uniscono l’Italia e gli italiani. Non comprendo chi possa avere interesse a sperperare questo patrimonio. Che in altri Paesi definirebbero semplicemente civile, o repubblicano. Ecco, qui manca proprio un sentimento repubblicano, c’è invece una tentazione iconoclasta di spezzare tutto ciò che è comune. Croce parlava di ‘feroce gioia’, che torna prepotente in questi mesi. E’come se si lavorasse perché il cinismo sostituisse il civismo.

Pietro Citati si chiedeva perché è così complicato essere italiani: è una domanda che saremo costretti a porci ancora per molto tempo?
Penso che si possa e si debba essere fieri di essere italiani, e che non abbia alcuna importanza essere in minoranza: se si è in compagnia di qualche buona idea, di qualche valore solido e in ultimo anche di qualche milione di persone. Per me non ha mai rappresentato un problema essere in minoranza. Credo che si debba essere consapevoli che quanto sta accadendo oggi nel Paese dovrà pur avere un esito. Stiamo vivendo una stagione in cui il potere cerca di mantenere se stesso ad ogni costo e si intravede la tentazione della distruzione del tempio, proprio perché il potere è incapace di concepire un qualcosa al di fuori di sé, di dare profondità. La grande opera immortale che Berlusconi avrebbe potuto fare, dopo aver conquistato la guida legittima del Paese, sarebbe stata quella di fondare qualcosa che l’Italia non aveva mai avuto: una moderna cultura conservatrice di senso europeo ed occidentale. Ecco la vera svolta immortale, non le opere del dottor Scapagnini sulle rughe. Un’operazione nemmeno tentata. E allora sarà utile tenere conto che questa è una fase in declino, e sapere che un elemento costitutivo di questo potere sta in quelle anomalie nominate in precedenza. Credo che bisogna avere fiducia nella democrazia, alla fine comprenderà che le anomalie sono anomalie, anche se la mistificazione di questi anni le ha chiamate in altro modo. E alla fine la democrazia supererà tali anomalie.

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