"Potete ingannare tutti per un po', potete ingannare qualcuno per sempre, ma non potrete ingannare tutti per sempre". (A. Lincoln)
lunedì 17 gennaio 2011
Quei giornali che sviliscono l’informazione italiana
Da Ffwebmagazine del 17/01/11
Ha detto William Faulkner che «non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, forse perché nella nostra democrazia il cattivo gusto è stato convertito in un bene di consumo». Da diffondere come una prima necessità, da irrorare a più non posso in tutti i livelli, sociali, culturali, letterari. Sì, anche letterari. Fa una certa tristezza questa mattina (e non solo questa mattina) vedere due importanti quotidiani italiani sviliti, retrocessi alla serie B dell’autorevolezza. Una critica, con tutto il rispetto che si deve, che sgorga senza vis polemica e indipendentemente dalla portata del caso Ruby.
Il primo dei due, è stato fondato nel 1944 da un galantuomo, e l’esordio in edicola è stato proprio all’indomani della liberazione della Capitale. Inizialmente la testata aveva come nome L’Italia, ma poi fu scelto Il Tempo. Oggi, a quasi settant’anni di esistenza in un altrettanto prestigioso palazzo romano, non mostra la cifra che gli è data dall’esperienza e dalla portata dei direttori che ha avuto, tra cui lo stesso Gianni Letta. Il secondo, fondato nel 1974 da un altro galantuomo, che in seguito rinunciò a guadagni sicuri (e sepolture faraoniche) per una cosa che si chiama libertà, venne diretto dalla stessa penna per vent’anni, salvo poi subire un’inversione imprevista e improvvisa: di tendenza, di stile, di composizione della proposta politica, sociale e culturale.
Oggi i due quotidiani titolano a nove colonne, non su di un fatto oggetto di analisi e valutazioni, non su di un dato politico, non su di un’agenzia uscita la sera prima, non su di un evento di caratura internazionale, ma sul fidanzamento del Premier dato per certo, quasi fossero due di quei fogli che si leggono sulla spiaggia in attesa che la mezza chiami a raccolta i bagnanti per un panino. Uno svilimento che non è direttamente proporzionale ai fatti, come un'indagine o l'iscrizione nel registro degli indagati. Ma che è la linea. Semplicemente qualcuno ha tentato di scopiazzare, e male, i tabloid inglesi, quelli peggiori, con il risultato di avere il marchio Signorini dappertutto. Nei titoli, nella cifra di alcuni articoli, persino nell’inclinazione di certa punteggiatura. Sarebbe interessante provare a mettersi nei panni dei poveri colleghi, magari gente di spessore, che ha studiato, che si interroga, che cerca fra le righe delle notizie e non si ferma alle briciole: beh, questi signori oggi sono costretti a "gossippare", a fare un giornalismo che tale non è. E solo strumentalmente.
Non solo tabloid di bassa leva, dunque, ma a questo punto eliminazione (dolosa o colposa poco importa) anche di contenuti e di quella capacità di valutare la portata dei fatti. Niente referendum in Sudan, né il dramma parlamentare della Tunisia, né la sempre invocata lotta alle mafie, né le proposte per la ripresa economica, né un accenno alla tanto di moda politica per la famiglia. Ma un’altra famiglia, questa volta allargata e con la mission di tenersi ben lontani dall’informazione di qualità. Lecito chiedersi: ma qualcuno avrà fatto lo sforzo di rileggersi le collezioni di quei due quotidiani? Qualcuna di quelle pink pen avrà osservato la portata di una storia giornalistica, delle battaglie sostenute, delle iniziative culturali avanzate, delle proposte politiche stimolate da due pezzi importanti della storia giornalistica italiana? Da cui sono transitate molte personalità autorevoli, le stesse che dovrebbero avere un sussulto di orgoglio.
Perché qui, non è più solo in gioco una credibilità che ormai è definitivamente compromessa (utilizzatore finale o meno), qui sta crollando un intero tessuto sociale, una generazione di personaggi pubblici che non si rendono conto di come il fondo sia stato abbondantemente raggiunto. Con il rischio che si vada ancor più in basso. Ma, indipendentemente dalle indagini, dalla vita privata, da quella pubblica, dai presunti reati, dalle possibili condanne o assoluzioni, sarebbe bello (e, diciamolo, edificante) se qualcuna di quelle penne, o anche uno solo di coloro che stampano siffatte notizie, ammettessero la paternità di quel prodotto: e le conseguenze culturali di quell’azione. Ma senza rancore, senza volontà persecutoria, senza che gli altri li guardino dall’alto in basso. Solo per rispetto alla storia di due quotidiani, ai direttori che li hanno firmati, e al Paese che li legge. E che meriterebbe ben altro.
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