venerdì 21 gennaio 2011

Dossier, minacce e scheletri: quando a crollare è la dignità


Da Ffwebmagazine del 20/01/11

Ciò che è accaduto sugli schermi del Tg4 è grave. L'immagine di Emilio Fede che da direttore, quindi da padrone di casa, nel riferire del caso Ruby, minaccia: «Attenzione, che di scheletri negli armadi ne hanno tutti», segna la plastica rifrazione di un confine ormai invisibile. Tra pubblico e privato, tra il caso personale di indagato e un tg che forse sarebbe stato più elegante evitare di condurre, magari lasciando a un volto più sereno. Che avrebbe dato le notizie senza minacce, senza ammiccamenti, senza coinvolgimenti che sanno di disperazione. Ecco la deriva (verrebbe da dire in perfetto stile putiniano) della tv che intima, che fa capire di…, che allude. Del mezzo di comunicazione utilizzato al pari di una bomba, da sganciare contro il nemico o i nemici, in un impeto rabbioso che di umano e razionale non ha nulla.

Il metodo non è nuovo, per la verità, dalle parti di certa politica. Di minacce sventolate in prima pagina o durante un servizio televisivo se ne sono viste e sentite in abbondanza, è sufficiente ripensare all’agosto scorso, o al caso Boffo. Ciò che inquieta è, più in generale, il degrado professionale di derive inqualificabili, la mortificazione di una professione, e ciò indipendentemente da come la giustizia farà il proprio corso. Dove la collusione tra le faccende personali e la mission pedagogica ed informativa che un mezzo di comunicazione deontologicamente possiede è oggettivamente disattesa. Quella minaccia, che certamente verrà derubricata a “battuta” così come ormai si tende a fare per sminuire responsabilità e condotte, è invece un fatto da stigmatizzare. Perché segna, qualora ve ne fosse ancora il bisogno, uno spartiacque decisivo tra ciò che è bene fare e ciò che non lo è. In una terra di nessuno dove fino a oggi è stato consentito che vi fossero mistificazioni, mescolanze, conflitti di macro interessi che a un certo momento strabordano, rompendo gli argini anche del buon gusto e del rispetto.

Non è bacchettonismo voler osservare dall’interno la validità di tali atteggiamenti, né è utile proseguire sulla scia del falso moralismo quando si scorgono episodi come quello di Fede. Il coraggio di definire un’azione “sbagliata” non è da intellettuali viziati, o da commentatori spocchiosi, o da amanti del cachemire o del fresco lana. Perché sembra che quando qualcuno intenda affrontare nel merito certe questioni, certi comportamenti, o certe espressioni, venga poi additato come pericoloso Savonarola? Da mettere al bando, da far tacere al più presto, da emarginare perché bigotto o tediosamente stucchevole? A questo scenario, dove la proprietà privata di un mezzo televisivo viene imbracciata come una clava chiodata, se ne affianca un altro se possibile dalla pari rilevanza. In quanto non sarà la connotazione giudiziaria che condizionerà, nel bene o nel male, l’utilizzo distorto di quella manciata di secondi del telegiornale Mediaset.

Una minaccia, resta una minaccia. Con le sue bruttezze, con le conseguenze nelle menti di chi ascolta (e si fa due calcoli), con la perdita della libertà di essere informati. Con una serenità che chi apprende le notizie semplicemente non ha più. Il tutto nella scia di altri episodi, come i dossieraggi, gli attentati presunti o reali, le rivelazioni poi sgonfiatesi come bolle di sapone, le accuse costruite ad hoc, gli inseguimenti tra ombrelloni o negozi di elettrodomestici.
Una minaccia è una minaccia. È un fatto grave, da non imitare, da non ripetere, da condannare. L’ordine dei giornalisti potrà intervenire o meno, ma il peso specifico dell’atto resta inquietante. Ci potranno essere provvedimenti, sospensioni, richiami, prese di posizione, difese, accuse: il quadro d’insieme, però, cambierà solo quando l’Italia dei conflitti smetterà di essere tale, quando libera penna in libero Stato sarà un principio valido per tutti, anche per i dipendenti dell’attuale premier.

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